Abituati alla vecchia, cara ingiustizia di sempre, restiamo
sconcertati (e ce ne vuole) al cospetto della nuova ingiustizia. L’antico
potere ci ha fatto conoscere un contesto spietato in cui regna la legge del più
forte ma in cui è garantito il rispetto delle regole del gioco e sono
assicurate a ciascuno opportunità in relazione alle proprie capacità. Nel nuovo
potere invece dei leoni regnano gli sciacalli, gli appartenenti ad una élite
cinica che non rispetta alcuna regola e considera i propri simili meno
fortunati alla stregua di scarti della società, di escrementi con cui concimare
il terreno dei propri interessi. E’ la tirannia del politicamente corretto, una
sorta di tribunale del popolo che compila liste di proscrizione in ragione di
una teodicea che rimanda ad una ideologia assolutistica. Lo spaccato è quello
di una società verticistica che dalle stanze del potere decide il giusto e
l’ingiusto e stabilisce una scala di pretesi valori che si sostituiscono alla
legge. E’ uno spaccato in cui i rappresentanti della superiorità morale e
intellettuale controllano con occhio vigile la società e spiccano le fatwe nei
confronti degli infedeli che non obbediscono alle verità dei pochi spacciate
per le verità dei molti manipolando le masse e assecondando i pruriti più
retrivi di una massa tumultuante. E’ così che la volontà generale viene
annullata, che la democrazia si trasforma in oclocrazia e le vite non hanno più
senso se non nella misura decisa dagli occhiuti e sospettosi nuovi tiranni. Gli
esempi si sprecano e ricorrono nelle imprese sempre più arroganti di un establishment
che ha perso il senso della misura e della decenza nel momento stesso in cui ha
raggiunto la consapevolezza della propria impunità. In quello che è ormai un autentico
regime autoritario, appare naturale negare diritti fondamentali in nome della
sicurezza, sacrificare la libertà sull’altare dell’eguaglianza, mistificare la
realtà, allestire tribunali in piazza che emettono sentenze di condanna
anticipando l’esito delle sentenze emesse nelle aule giudiziarie, tollerare che
sacerdoti dell’integralismo morale confondano peccato e reato e l’untore abbia
gioco facile nel mettere in discussione la reputazione di chi non risponde ai
requisiti canonici, che la demagogia prenda il posto della politica travolta da
una crisi di identità al punto da abdicare alle proprie prerogative in favore
di poteri più forti, che il diritto
diventi una prateria buona per le scorrerie di disinvolti cacciatori di
scalpi, che la società, come una maionese impazzita, confonda i valori. E’ emblematica
del clima in cui viviamo la gazzarra scatenatasi dopo la sentenza della prima
sezione penale della Cassazione che ha rinviato al Tribunale di sorveglianza di
Bologna la decisione sulla richiesta di assegnazione agli arresti domiciliari
avanzata dai difensori di Riina, con l’invito a motivare meglio il suo rifiuto.
Le solite prefiche del piagnisteo moralisteggiante (che cavalcano il dolore e
le sacrosante preoccupazioni dei parenti delle vittime) sono insorte strillando
contro il rischio della scarcerazione di Riina. Ma la Cassazione, sia ben
chiaro, non ha deciso di scarcerare Riina, ha bensì fissato un principio di
diritto che deve valere anche per il più incallito criminale, si è limitata ad
applicare la legge. A quanto pare applicare la legge nella nostra allegra repubblica
oclocratica è una opzione che deve valere solo usando un discrimine tra buoni e
cattivi, e sennò è scandalo. Tutto ciò avviene nell’indifferenza di coloro che
hanno l’autorevolezza per opporsi al degrado e non lo fanno per pigrizia, per
mancanza di coraggio e per disonestà intellettuale, perché trovano più comodo
adagiarsi sull’andazzo ricorrente che non intacca la loro oasi di privilegi. Quando la democrazia
si consegna nelle mani dei demagoghi che sollecitano le istanze irrazionali del
popolo, essa si trasforma in tirannide, come ci insegna un certo Platone.
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