Meritiamo tutto il peggio che ci sta accadendo, perché siamo
la mala pianta da cui esso nasce. Per averne conferma, basta percorrere alcune
tappe di un viaggio fra i nostri vizi:
la signora dall’aria distinta attraversa con il rosso e
al vecchietto che con fare preoccupato
le fa notare l’infrazione temendo che la distratta gentildonna possa essere
arrotata, risponde: “Si faccia i cazzi
suoi”;
satanassi impazziti a bordo di bolidi rombanti piombano
sulle strisce pedonali trasformandole in trappole mortali e in più sul povero
pedone che ha evitato a stento di essere travolto e accenna a una timida protesta
riversano una bordata di male parole;
automobilisti frustrati nel traffico caotico delle ore di
punta si producono in gincane folli, azzannano l’asfalto, sgommano senza via
d’uscita, sollecitano a suon di clacson chi li precede e infine sfogano la loro
rabbia ringhiando con fare minaccioso contro i malcapitati che non riescono a
superare;
imperturbabili campioni del bon ton scaracchiano per le
strade, coprono i marciapiedi di cartacce, incedono impettiti con al guinzaglio
deliziosi compagni a quattro zampe, li osservano amorevolmente mentre espletano
i loro bisogni e imperterriti proseguono la loro passerella senza curarsi di
raccogliere gli escrementi dei loro amorini, che restano a terra per la delizia
dei pedoni che seguono;
la signora carica di pacchetti giunge trafelata dopo averci
costretti a restare intrappolati per un buon quarto d’ora dietro la sua vettura
parcheggiata in seconda fila e ci gratifica con un perfido sorriso allargando le braccia e cinguettando che ha
dovuto effettuare degli acquisti improrogabili. E ci è anche andata bene,
perché può anche accadere di imbatterci nell’energumeno incazzato che ci manda
a quel paese se abbiamo l’ardire di protestare;
i bravi cittadini imprecano contro i politici, la loro
corruttela e la loro inefficienza, millantando la propria superiorità morale ma
vantandosi allo stesso tempo di come sono stati furbi a trovare la raccomandazione
giusta per assicurarsi un comodo impiego pubblico. Lamentano che i governanti hanno compromesso il futuro dei
nostri figli con scelte demenziali, fingendo di ignorare che queste scelte sono
state il frutto di una stagione folle in cui abbiamo sperperato quello che non
avevamo sotto la spinta di un consociativismo che partiva dal basso e
assicurava il benessere di noi genitori a spese del malessere delle generazioni
future;
sempre i soliti cittadini insorgono contro il dominio delle
lobby in un Paese in cui da sempre ci siamo fronteggiati per bande schierandoci
con caste e camarille a secondo del censo e della convenienza, e ancora adesso
troviamo rifugio nelle consociazioni che garantiscono i nostri interessi;
i professionisti della lotta alla mafia imperversano
ostentando un impegno di facciata ed esibendo un giacobinismo che non fa sconti a nessuno se
non alla propria parte e così costruendo carriere altrimenti impensabili. E’ il
festival dell’inganno che può avere
luogo perché siamo tutti un po’ mafiosi, con la nostra antimafiosità spregiudicata, con la nostra
indulgenza verso gli inciuci, la nostra militanza nelle zone grigie conniventi,
la nostra tendenza a evadere tutto il lecito possibile, il nostro senso di
giustizia declinato secondo l’interesse di ciascuno, con la nostra verbosità
legalitaria contraddetta da condotte borderline;
può accadere, è accaduto, che taluni nostri magistrati confondano
il peccato col reato, la vendetta con la giustizia e comminino le pene
obbedendo al pregiudizio anziché alla legge. Può accadere in un Paese in cui i
diritti fondamentali dei cittadini stanno diventando sempre più una opzione;
viviamo il male col pessimismo di Gomorra piuttosto che con
la speranza del riscatto perché ci piace piangerci addosso.
Siamo un popolo di cialtroni dedito all’antico vizio
di fottere e piangere, ci lamentiamo di
chi ci rappresenta non avendo l’onestà di
riconoscere che essi sono lo specchio dei nostri vizi, ci lagniamo dei
nostri difetti come se fossero difetti di altri ma non facciamo nulla per
emendarli, anzi ci mettiamo di traverso se appena si profila la prospettiva di un
cambiamento dello status quo che metta a rischio i nostri interessi
consociativi. Abbiamo quello che ci meritiamo ma non demordiamo, come lo
scorpione della favola di Esopo, andiamo fatalmente incontro al nostro destino
vittime della nostra natura irredimibile
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