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mercoledì 10 maggio 2017

Torniamo a parlarne


Ho già affrontato il tema relativo al regime del 41 bis applicato ai detenuti mafiosi contestandone la legittimità costituzionale, con risultati, a dir poco, deludenti. E’ un regime che non riesce ad essere percepito nella sua drammaticità da quanti dovrebbero avere a cuore la tutela dei diritti fondamentali e che anzi è sentito come sacrosanto strumento per combattere la mafia. Chi dunque come me lo combatte è in minoranza e va incontro ad una valanga di insulti. Ma sono testardo e riprendo l’argomento non perché stavolta mi faccia più illusioni del solito, ma perché vivo in un’età in cui il tempo scivola via veloce, ogni momento può essere quello buono per salutare la compagnia, e perciò sono roso dalla rabbiosa ostinazione di combattere e vincere la battaglia che mi permetta di riabbracciare mio figlio murato vivo da 12 anni in un carcere di massima sicurezza, prima che sia troppo tardi. E poi perché col passare del tempo il regime si avvita in una crudeltà sempre maggiore che sento il dovere di denunciare. Lo Stato ha deciso, al pari di Enrico IV, che Parigi val bene una messa e che in nome della sicurezza debba abdicare alla Costituzione ricorrendo alla tortura piuttosto che alla violenza legale consentitagli dal patto con i cittadini, ed articolando la tortura in tal modo da attentare alla salute della mente oltre che a quella del corpo. Non bastano i vetri blindati, non bastano le limitazioni che riducono la vita del detenuto allo stato vegetativo, non basta fissare il tempo a disposizione per i colloqui in  due ore mensili, non basta negare un vitto decente, non bastano i colloqui privi di un minimo di privacy, a tutto ciò si aggiunge  la censura sulla corrispondenza in entrata e in uscita esercitata in maniera arbitraria.  Per intenderci, non è in discussione il diritto dello Stato di controllare che non vengano trasmessi messaggi non consentiti all’esterno, se però la censura non si trasforma in abuso. Cosa che, a quanto pare, sta accadendo nel carcere di Ascoli Piceno dove gli zelanti censori diventano di giorno in giorno più occhiuti del solito ed esercitano un controllo sulle lettere con maggiore severità del passato. Non è dato sapere se questa maggiore severità sia dovuta ad un nuovo allarme o al fatto che gli addetti ai controlli, non capendo il senso di quello che leggono ed equivocando sul suo significato, tagliano la testa al toro e inviano le lettere al magistrato di sorveglianza perché sia lui ad assumersi la responsabilità di decidere sulla liceità o meno delle lettere. C’è chi sostiene addirittura che tutto sia riconducibile ad un rigurgito di crudeltà di secondini in preda a spirito di vendetta. Qualunque sia il motivo, il risultato è che i detenuti devono attendere parecchie settimane prima di entrare in possesso di lettere assolutamente innocenti ma che debbono essere certificate come tali da un indaffarato giudice alle prese con carichi di lavoro. Poco importa che la lunga attesa, in un contesto in cui le lettere dei familiari sono ossigeno puro, comporti una  sofferenza ulteriore, e sospendere per un lungo periodo la possibilità di leggere la corrispondenza equivale a negare il diritto di  respirare l’aria di casa, prima d’ogni cosa conta la sicurezza soprattutto quando essa  è messa a repentaglio da lettere innocenti. Questo è quello che  avviene in un Paese europeo, capace di esprimere la capitale europea della cultura, ma incapace di coniugare la propria cultura con i diritti fondamentali dei suoi cittadini, un Paese dove, in luogo dei limoni, fioriscono personaggi osceni per senso morale e profilo politico, che non sanno volare alto dando una dimensione degna  alla loro statura di squallidi funamboli di una politica di basso cabotaggio, e fanno l’unica cosa che riesce meglio alla loro natura di sciacalli, quella di dare la caccia a relitti umani figli di un dio minore, pur di guadagnarsi una ribalta. Ma anche gli sciacalli dovrebbero avvertire un minimo di vergogna.

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