Ho già affrontato il tema relativo al regime del 41 bis
applicato ai detenuti mafiosi contestandone la legittimità costituzionale, con
risultati, a dir poco, deludenti. E’ un regime che non riesce ad essere
percepito nella sua drammaticità da quanti dovrebbero avere a cuore la tutela
dei diritti fondamentali e che anzi è sentito come sacrosanto strumento per
combattere la mafia. Chi dunque come me lo combatte è in minoranza e va
incontro ad una valanga di insulti. Ma sono testardo e riprendo l’argomento non
perché stavolta mi faccia più illusioni del solito, ma perché vivo in un’età in
cui il tempo scivola via veloce, ogni momento può essere quello buono per
salutare la compagnia, e perciò sono roso dalla rabbiosa ostinazione di combattere
e vincere la battaglia che mi permetta di riabbracciare mio figlio murato vivo
da 12 anni in un carcere di massima sicurezza, prima che sia troppo tardi. E
poi perché col passare del tempo il regime si avvita in una crudeltà sempre
maggiore che sento il dovere di denunciare. Lo Stato ha deciso, al pari di
Enrico IV, che Parigi val bene una messa e che in nome della sicurezza debba
abdicare alla Costituzione ricorrendo alla tortura piuttosto che alla violenza legale
consentitagli dal patto con i cittadini, ed articolando la tortura in tal modo
da attentare alla salute della mente oltre che a quella del corpo. Non bastano
i vetri blindati, non bastano le limitazioni che riducono la vita del detenuto
allo stato vegetativo, non basta fissare il tempo a disposizione per i colloqui
in due ore mensili, non basta negare un
vitto decente, non bastano i colloqui privi di un minimo di privacy, a tutto
ciò si aggiunge la censura sulla
corrispondenza in entrata e in uscita esercitata in maniera arbitraria. Per intenderci, non è in discussione il diritto
dello Stato di controllare che non vengano trasmessi messaggi non consentiti
all’esterno, se però la censura non si trasforma in abuso. Cosa che, a quanto
pare, sta accadendo nel carcere di Ascoli Piceno dove gli zelanti censori
diventano di giorno in giorno più occhiuti del solito ed esercitano un
controllo sulle lettere con maggiore severità del passato. Non è dato sapere se
questa maggiore severità sia dovuta ad un nuovo allarme o al fatto che gli
addetti ai controlli, non capendo il senso di quello che leggono ed equivocando
sul suo significato, tagliano la testa al toro e inviano le lettere al
magistrato di sorveglianza perché sia lui ad assumersi la responsabilità di
decidere sulla liceità o meno delle lettere. C’è chi sostiene addirittura che
tutto sia riconducibile ad un rigurgito di crudeltà di secondini in preda a
spirito di vendetta. Qualunque sia il motivo, il risultato è che i detenuti
devono attendere parecchie settimane prima di entrare in possesso di lettere
assolutamente innocenti ma che debbono essere certificate come tali da un
indaffarato giudice alle prese con carichi di lavoro. Poco importa che la lunga
attesa, in un contesto in cui le lettere dei familiari sono ossigeno puro,
comporti una sofferenza ulteriore, e
sospendere per un lungo periodo la possibilità di leggere la corrispondenza
equivale a negare il diritto di respirare
l’aria di casa, prima d’ogni cosa conta la sicurezza soprattutto quando essa è messa a repentaglio da lettere innocenti. Questo
è quello che avviene in un Paese
europeo, capace di esprimere la capitale europea della cultura, ma incapace di coniugare
la propria cultura con i diritti fondamentali dei suoi cittadini, un Paese dove,
in luogo dei limoni, fioriscono personaggi osceni per senso morale e profilo
politico, che non sanno volare alto dando una dimensione degna alla loro statura di squallidi funamboli di una
politica di basso cabotaggio, e fanno l’unica cosa che riesce meglio alla loro
natura di sciacalli, quella di dare la caccia a relitti umani figli di un dio
minore, pur di guadagnarsi una ribalta. Ma anche gli sciacalli dovrebbero
avvertire un minimo di vergogna.
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