Sfrontata e disponibile agli appetiti di predoni a caccia di
facili conquiste, sentina di infamie e terra di spiriti eletti, terra di
contraddizioni, è Palermo, città dove miseria e nobiltà, legalità e illegalità
convivono senza scandalo, dove rampolli della buona società si fanno tribuni
del popolo e si mescolano senza imbarazzo con la plebe per conquistarne l’anima
e asservirla ai loro fini, dove giacobini in cerca di facile gloria inneggiano
ad una giustizia di comodo. Ai loro piedi un gregge di pecore bela incantato illudendosi
di far parte di un mondo che lo alliscia ancorché lo disprezzi considerandolo solo
materiale di risulta utile alla bisogna. Il consenso per i tribuni è
trasversale ed accomuna le signore dei salotti bene e il panellaro di Ballarò
in un pot pourri pieno di sapori contrastanti che i nostri incantatori di
serpenti, populisti ante litteram, sono riusciti
a mettere assieme. Pasciuto a panem, circenses e demagogia, il popolo esulta e rende eterna
la sua sudditanza al potere. E’ la Palermo cialtrona che nei giorni della
memoria si presta agli inganni di una retorica del dolore usurpato che marcia a
fianco del dolore autentico, ad opera di improbabili paladini della legalità
che si esibiscono senza ritegno nella celebrazione postuma di martiri che hanno
concorso a crocifiggere. E’ la Palermo
degli affabulatori che in questi giorni di campagna elettorale hanno smarrito
il senso della decenza producendosi in avvitamenti virtuosi che promettono mirabolanti
progetti e vantano risultati mai veramente realizzati. Una operazione di
maquillage tenta di nascondere le rughe tragiche di una città irredenta, di una
periferia degradata, della inefficienza dei servizi, della ingiustizia sociale
e della giustizia strabica, di una società che si avvia sempre più verso la
soglia di una emarginazione senza scampo e cerca invano rifugio tra le braccia di
questa disgraziata città. I templi della legge restano sbarrati a chi ha sete
di giustizia, i porticati delle chiese, i tempietti neoclassici, i portici del centro levigati ed
eleganti di giorno e lividi di notte, le sale d’aspetto delle stazioni,
brulicano di una umanità estranea al consorzio civile, degli ultimi che una borghesia
opulenta e autofaga fagocita dopo averli generati. Bella e agonizzante piuttosto
che rinata, oggi Palermo ripete la
consueta celebrazione rituale che suscita rabbia più che dolore.
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martedì 23 maggio 2017
mercoledì 10 maggio 2017
Torniamo a parlarne
Ho già affrontato il tema relativo al regime del 41 bis
applicato ai detenuti mafiosi contestandone la legittimità costituzionale, con
risultati, a dir poco, deludenti. E’ un regime che non riesce ad essere
percepito nella sua drammaticità da quanti dovrebbero avere a cuore la tutela
dei diritti fondamentali e che anzi è sentito come sacrosanto strumento per
combattere la mafia. Chi dunque come me lo combatte è in minoranza e va
incontro ad una valanga di insulti. Ma sono testardo e riprendo l’argomento non
perché stavolta mi faccia più illusioni del solito, ma perché vivo in un’età in
cui il tempo scivola via veloce, ogni momento può essere quello buono per
salutare la compagnia, e perciò sono roso dalla rabbiosa ostinazione di combattere
e vincere la battaglia che mi permetta di riabbracciare mio figlio murato vivo
da 12 anni in un carcere di massima sicurezza, prima che sia troppo tardi. E
poi perché col passare del tempo il regime si avvita in una crudeltà sempre
maggiore che sento il dovere di denunciare. Lo Stato ha deciso, al pari di
Enrico IV, che Parigi val bene una messa e che in nome della sicurezza debba
abdicare alla Costituzione ricorrendo alla tortura piuttosto che alla violenza legale
consentitagli dal patto con i cittadini, ed articolando la tortura in tal modo
da attentare alla salute della mente oltre che a quella del corpo. Non bastano
i vetri blindati, non bastano le limitazioni che riducono la vita del detenuto
allo stato vegetativo, non basta fissare il tempo a disposizione per i colloqui
in due ore mensili, non basta negare un
vitto decente, non bastano i colloqui privi di un minimo di privacy, a tutto
ciò si aggiunge la censura sulla
corrispondenza in entrata e in uscita esercitata in maniera arbitraria. Per intenderci, non è in discussione il diritto
dello Stato di controllare che non vengano trasmessi messaggi non consentiti
all’esterno, se però la censura non si trasforma in abuso. Cosa che, a quanto
pare, sta accadendo nel carcere di Ascoli Piceno dove gli zelanti censori
diventano di giorno in giorno più occhiuti del solito ed esercitano un
controllo sulle lettere con maggiore severità del passato. Non è dato sapere se
questa maggiore severità sia dovuta ad un nuovo allarme o al fatto che gli
addetti ai controlli, non capendo il senso di quello che leggono ed equivocando
sul suo significato, tagliano la testa al toro e inviano le lettere al
magistrato di sorveglianza perché sia lui ad assumersi la responsabilità di
decidere sulla liceità o meno delle lettere. C’è chi sostiene addirittura che
tutto sia riconducibile ad un rigurgito di crudeltà di secondini in preda a
spirito di vendetta. Qualunque sia il motivo, il risultato è che i detenuti
devono attendere parecchie settimane prima di entrare in possesso di lettere
assolutamente innocenti ma che debbono essere certificate come tali da un
indaffarato giudice alle prese con carichi di lavoro. Poco importa che la lunga
attesa, in un contesto in cui le lettere dei familiari sono ossigeno puro,
comporti una sofferenza ulteriore, e
sospendere per un lungo periodo la possibilità di leggere la corrispondenza
equivale a negare il diritto di respirare
l’aria di casa, prima d’ogni cosa conta la sicurezza soprattutto quando essa è messa a repentaglio da lettere innocenti. Questo
è quello che avviene in un Paese
europeo, capace di esprimere la capitale europea della cultura, ma incapace di coniugare
la propria cultura con i diritti fondamentali dei suoi cittadini, un Paese dove,
in luogo dei limoni, fioriscono personaggi osceni per senso morale e profilo
politico, che non sanno volare alto dando una dimensione degna alla loro statura di squallidi funamboli di una
politica di basso cabotaggio, e fanno l’unica cosa che riesce meglio alla loro
natura di sciacalli, quella di dare la caccia a relitti umani figli di un dio
minore, pur di guadagnarsi una ribalta. Ma anche gli sciacalli dovrebbero
avvertire un minimo di vergogna.
venerdì 5 maggio 2017
Un popolo in marcia verso il disastro
Meritiamo tutto il peggio che ci sta accadendo, perché siamo
la mala pianta da cui esso nasce. Per averne conferma, basta percorrere alcune
tappe di un viaggio fra i nostri vizi:
la signora dall’aria distinta attraversa con il rosso e
al vecchietto che con fare preoccupato
le fa notare l’infrazione temendo che la distratta gentildonna possa essere
arrotata, risponde: “Si faccia i cazzi
suoi”;
satanassi impazziti a bordo di bolidi rombanti piombano
sulle strisce pedonali trasformandole in trappole mortali e in più sul povero
pedone che ha evitato a stento di essere travolto e accenna a una timida protesta
riversano una bordata di male parole;
automobilisti frustrati nel traffico caotico delle ore di
punta si producono in gincane folli, azzannano l’asfalto, sgommano senza via
d’uscita, sollecitano a suon di clacson chi li precede e infine sfogano la loro
rabbia ringhiando con fare minaccioso contro i malcapitati che non riescono a
superare;
imperturbabili campioni del bon ton scaracchiano per le
strade, coprono i marciapiedi di cartacce, incedono impettiti con al guinzaglio
deliziosi compagni a quattro zampe, li osservano amorevolmente mentre espletano
i loro bisogni e imperterriti proseguono la loro passerella senza curarsi di
raccogliere gli escrementi dei loro amorini, che restano a terra per la delizia
dei pedoni che seguono;
la signora carica di pacchetti giunge trafelata dopo averci
costretti a restare intrappolati per un buon quarto d’ora dietro la sua vettura
parcheggiata in seconda fila e ci gratifica con un perfido sorriso allargando le braccia e cinguettando che ha
dovuto effettuare degli acquisti improrogabili. E ci è anche andata bene,
perché può anche accadere di imbatterci nell’energumeno incazzato che ci manda
a quel paese se abbiamo l’ardire di protestare;
i bravi cittadini imprecano contro i politici, la loro
corruttela e la loro inefficienza, millantando la propria superiorità morale ma
vantandosi allo stesso tempo di come sono stati furbi a trovare la raccomandazione
giusta per assicurarsi un comodo impiego pubblico. Lamentano che i governanti hanno compromesso il futuro dei
nostri figli con scelte demenziali, fingendo di ignorare che queste scelte sono
state il frutto di una stagione folle in cui abbiamo sperperato quello che non
avevamo sotto la spinta di un consociativismo che partiva dal basso e
assicurava il benessere di noi genitori a spese del malessere delle generazioni
future;
sempre i soliti cittadini insorgono contro il dominio delle
lobby in un Paese in cui da sempre ci siamo fronteggiati per bande schierandoci
con caste e camarille a secondo del censo e della convenienza, e ancora adesso
troviamo rifugio nelle consociazioni che garantiscono i nostri interessi;
i professionisti della lotta alla mafia imperversano
ostentando un impegno di facciata ed esibendo un giacobinismo che non fa sconti a nessuno se
non alla propria parte e così costruendo carriere altrimenti impensabili. E’ il
festival dell’inganno che può avere
luogo perché siamo tutti un po’ mafiosi, con la nostra antimafiosità spregiudicata, con la nostra
indulgenza verso gli inciuci, la nostra militanza nelle zone grigie conniventi,
la nostra tendenza a evadere tutto il lecito possibile, il nostro senso di
giustizia declinato secondo l’interesse di ciascuno, con la nostra verbosità
legalitaria contraddetta da condotte borderline;
può accadere, è accaduto, che taluni nostri magistrati confondano
il peccato col reato, la vendetta con la giustizia e comminino le pene
obbedendo al pregiudizio anziché alla legge. Può accadere in un Paese in cui i
diritti fondamentali dei cittadini stanno diventando sempre più una opzione;
viviamo il male col pessimismo di Gomorra piuttosto che con
la speranza del riscatto perché ci piace piangerci addosso.
Siamo un popolo di cialtroni dedito all’antico vizio
di fottere e piangere, ci lamentiamo di
chi ci rappresenta non avendo l’onestà di
riconoscere che essi sono lo specchio dei nostri vizi, ci lagniamo dei
nostri difetti come se fossero difetti di altri ma non facciamo nulla per
emendarli, anzi ci mettiamo di traverso se appena si profila la prospettiva di un
cambiamento dello status quo che metta a rischio i nostri interessi
consociativi. Abbiamo quello che ci meritiamo ma non demordiamo, come lo
scorpione della favola di Esopo, andiamo fatalmente incontro al nostro destino
vittime della nostra natura irredimibile
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