Siamo impegnati a strapparci le vesti piangendo la sorte di
un clochard bruciato vivo e ci interroghiamo con tardiva angoscia come sia
potuta accadere una simile tragedia. Tanta ferocia risulta incomprensibile a
chi non ha dovuto fare i conti con la spietatezza della vita riservata agli
ultimi. Pare che vittima e carnefice appartenessero allo stesso contesto di
emarginazione e riesce difficile pronunciare un giudizio che non abbia pietà
anche per il carnefice. Caino ha il volto inespressivo di chi non sembra
rendersi conto dell’enormità del suo gesto, ha la connotazione di chi non è
attraversato da nessun sussulto etico, è un uomo non uomo che sembra non avere
mai coltivato la consapevolezza di certi valori, un relitto né più né meno
della sua vittima. Vittima e carnefice sono i frutti infelici di una società
che ha permesso il verificarsi di una tragedia senza disinnescarla prima che
deflagrasse. Quando ci strappiamo le vesti e recitiamo la pantomina
dell’indignazione di circostanza, rimuoviamo le nostre colpe, dimentichiamo l’indifferenza
con cui ignoriamo i mali del mondo, facciamo finta di non sapere, o forse non
lo sappiamo in buona fede perché abbiamo perduto la capacità di percepire il
disagio altrui, che noi siamo i veri artefici delle tragedie che si consumano
quotidianamente tra le pieghe della nostra società mentre ci giriamo dall’altra
parte. In parecchi si sono proposti per fare giustizia sommaria dell’assassino.
Dov’erano costoro mentre maturava la tragedia e saranno ancora così inflessibili
quando qualcuno, alzando l’asticella dell’intransigenza, farà giustizia
sommaria dei loro diritti?
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