L’ingiustizia in Italia dà il peggio
di sé quando marca la differenza tra la sorte degli ultimi che
pagano fino in fondo il fio delle loro colpe e quella dei
privilegiati che navigano nel mare dell’impunità. L’elenco dei
casi di potenti che, nonostante condanne pesanti, si sottraggono alle
pene grazie al censo che permette loro di imboccare costose
scorciatoie, si spreca, come si spreca la lista dei poveri cristi che
affollano le patrie galere. A parole sono in molti a denunciare
questa evidente disparità, mostrando di ispirarsi a principi di
equità e producendosi in esternazioni accorate con un’enfasi pari
alla sfrontatezza con la quale alcuni di essi difendono la loro
impunità. E’la doppiezza morale di sempre denunciata da Trasimaco
quando definisce la giustizia l’interesse del più forte, non
immaginando che persino nella stesura dell’elenco dei colpevoli
vessati dai rigori della legge avrebbe fatto capolino una buona dose
di classismo. Quanti infatti insorgono in difesa di Caino facendo un
discrimine tra chi merita misericordia e chi no, operano una
distinzione classista nel mondo di disperati che non fa alcuna
considerazione di merito. Gli emigranti, gli spacciatori, i
delinquenti di piccolo cabotaggio che non possono contare sulle
scorciatoie riservate ai potenti, possono contare sulla solidarietà
dei sacerdoti del politicamente corretto perché si prestano ad
essere pretesto di un buonismo a buon mercato esibito più che
sentito sinceramente, giusto per lustrare il pedigree del buon
samaritano. E’ una solidarietà pelosa espressa per lo più da
cialtroni in marsina che si riempiono la bocca con proclami
inneggianti a nobili concetti puntualmente traditi sull’altare
dell’interesse personale, una solidarietà nella quale non trovano
posto mafiosi e affini, merce avariata inutilizzabile per
masturbazioni moraleggianti. Persino il Papa che ha fatto della
misericordia la cifra del suo apostolato, li discrimina. Ad essi
tocca d’essere confinati nel recinto dei reietti dove non valgono
le regole, d’essere considerati ectoplasmi privi dei diritti
fondamentali nell’indifferenza della cosiddetta società civile.
Relegati nel girone degli orrori, oggetto del disprezzo della gente,
godono in compenso dell’attenzione dello Stato che su di loro
infierisce con spirito di vendetta. E’ il tramonto dell’epica
sciagurata della mafia costretta a subire il discrimine persino
rispetto ai malacarne di bassa lega, ma è anche l’eclissi dello
Stato di diritto che ha rinunciato ai propri principi fondanti in
nome della sicurezza, e delle coscienze libere che hanno rinnegato la
lezione dei lumi decidendo chi ha diritto o meno ad essere
considerato uomo.
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mercoledì 28 settembre 2016
domenica 18 settembre 2016
I gattopardi
In un suo editoriale di qualche tempo
fa sulla Sicilia Aldo Cazzullo lamentava la condizione in cui versa
l’isola, interrogandosi su come sia possibile che una terra che ha
dato i natali a Verga, Pirandello, Sciascia e altri straordinari
protagonisti che hanno connotato quasi per intero la letteratura
italiana del Novecento, sia la stessa terra che ha dato i natali a
Lombardo, Crocetta e Cuffaro. Non riusciva a darsi una spiegazione.
Una spiegazione invece se l’è data Ernesto Galli della Loggia
quando anche egli, in un articolo di fondo apparso sul Corriere, ha
denunciato lo stato comatoso in cui versa il Sud. In questo articolo
egli descrive il quadro desolante di una realtà in disfacimento
caratterizzata da una classe dirigente e politica imbarazzante (porta
l’esempio del penoso intervento dell’onorevole Barbagallo
nell’aula dell’Assemblea Regionale Siciliana), dall’assenza di
prospettive di sviluppo, dall’elevatissimo tasso di disoccupazione,
dalla carenza di servizi e infrastrutture, dall’inefficienza
dell’elefantiaca burocrazia e naturalmente dalla presenza invasiva
della criminalità organizzata. La causa di questo sfascio è dovuta,
secondo Galli della Loggia, ad una antica indigenza, a secoli di
malgoverno ma soprattutto alla latitanza dello Stato. Lo Stato in
verità, secondo la sua analisi, ha tentato di correggere questa
tendenza facendo da omogeneizzante culturale e sociale, favorendo lo
scambio fecondo delle diverse sensibilità, conoscenze, usi, culture,
idee che hanno arricchito il tessuto sociale dell’intera Nazione e
l’hanno reso più coeso. Purtroppo, dopo gli anni 70, per una serie
di motivi legati al mutato quadro politico e sindacale, è venuta
meno questa funzione collante e lo Stato ha fatto un passo indietro
rinunciando al suo ruolo di guida del Paese in settori strategici,
delegando alle istituzioni periferiche una serie di prerogative
importanti e lasciando campo libero all’autarchia, al familismo, al
clientelismo, ai miserabili interessi localistici, in definitiva ai
guasti che affliggono il Sud. La causa dei mali del Sud secondo Galli
della Loggia è dunque da attribuire alla sopravvenuta latitanza
dello Stato, non certo a “qualche malformazione genetica dei nostri
concittadini di quelle regioni”. Dice proprio così, “concittadini
di quelle regioni” e “quelle regioni” danno la misura della
distanza che l’autore percepisce inconsciamente da terre lontane
abitate da una umanità di cui fatica a decifrare l’indole. Se
Galli della Loggia avesse consapevolezza di come siamo fatti
veramente noi meridionali e i siciliani in particolare, eviterebbe
giudizi frettolosamente assolutori, saprebbe che è vero il contrario
di quanto egli afferma, che siamo irrimediabilmente malformati. Lo
siamo da quando, alle prese con gli eventi che hanno attraversato la
nostra storia, abbiamo dovuto fare i conti con essa e schivarne le
insidie in un contesto in cui già allora latitava un potere centrale
garante dei diritti di ognuno, da quando abbiamo dovuto imparare a
contare solo su di noi e siamo diventati per questo motivo
individualisti privi di illusioni, asociali guardinghi e sospettosi,
levantini, padreterni alle prese col nostro smisurato ego, in guerra
con tutto ciò che interferisce con esso. E’ così che ci siamo
formati, con i molti vizi e le poche virtù che sono diventati il
nostro patrimonio genetico. Prigionieri dei nostri geni, animali
bradi privi di un sentire comune, rifiutiamo qualsiasi tentativo di
inclusione. Ci è mancato uno Stato nel quale identificarci, e di
conseguenza il senso dello Stato, e sbaglia, a mio avviso, Galli
della Loggia quando afferma che lo Stato ha rinunciato a svolgere il
suo ruolo negli anni 70. Lo Stato dalle nostre parti è sempre stato
assente, persino in tempi recenti, quando una parvenza di unità ce
ne ha regalato uno patrigno contro il quale abbiamo coltivato
diffidenza e rancore. Capaci di dare il peggio di noi persino nelle
grandi battaglie ideali che riusciamo a insozzare con secondi
miserabili fini o, bene che vada, di esprimere personaggi patetici
come l’onorevole Barbagallo, andiamo incontro al nostro destino
senza sforzarci di imboccare la via per evitarlo, tranne che non
prendiamo il largo dalle acque limacciose del nostro brodo di coltura
e guadagniamo l’antica via dell’esilio. A mio figlio che si è
visto costretto a riporre i suoi sogni nel cassetto e ha dovuto
emigrare in Francia col cuore colmo dell’amore per la sua terra e
il proposito di tornarvi, ho raccomandato di scordarsi di Palermo e
non permettere a questa città infelice di sporcargli l’anima.
mercoledì 7 settembre 2016
Charlie Hebdo
Le popolazioni colpite dal terremoto
nel Lazio e nella Marche sono costrette a subire non solo l’affronto
della natura ma anche quello dell’uomo allorché questi si impegna
in una delle azioni più ripugnanti, lo sciacallaggio. E non parlo
solo degli sciacalli che si aggirano tra le macerie cercando di
rubare le povere cose che si sono salvate, parlo soprattutto di
quanti, in nome della libertà di espressione, esercitano impunemente
il diritto all’indegnità. Mi riferisco a Charlie Hebdo che non ha
esitato a sfregiare il buon gusto ancor prima che il buon senso,
ironizzando sulla vicenda del terremoto che avrebbe prodotto, secondo
il discutibile humour del vignettista Felix, italiani disegnati quali
“penne al pomodoro”, “penne gratinate” e persino “lasagne”
in forma di corpi ammucchiati a strati e grondanti di salsa-sangue.
Si sono scatenate, come era prevedibile, reazioni pro e contro la
vignetta di Charlie Hebdo e, pur definendola infelice, in tanti
l’hanno difesa nel nome della libertà di satira e del diritto di
ciascuno di dire anche le cose più infami. Giusto, la libertà di
pensiero è sacrosanta e quindi va bene il diritto di Charlie Hebdo
di sproloquiare, ma è altrettanto sacrosanto il diritto di
dissentire e di chiamare chi è capace di esprimere schifezze del
genere col nome che merita: farabutto. E non solo perché come in
questo caso il farabutto offende il senso estetico ed etico, ma anche
perché è disonesto. Infatti di rimando alle critiche di cui è
stato oggetto, Charlie Hebdo ha pubblicato una seconda vignetta con
la quale ha chiamato in causa la mafia. La toppa peggiore del buco,
perché credo si possa dire che nel caso specifico la mafia c’entra
come il cavolo a merenda. Se infatti è vero che le esperienze
passate ci hanno abituato a forme di corruzione e ci fanno temere che
esse si possano ripetere anche nella ricostruzione di Amatrice,
Accumoli, Arquata del Tronto, Pescara del Tronto, è altrettanto vero
che parliamo appunto di corruzione, un fenomeno nel quale noi
italiani certamente eccelliamo ma che prolifera sotto tutte le
latitudini ed è chiamata col suo nome senza scomodare la mafia. In
Italia invece no, la corruzione, secondo Charlie Hebdo, è mafia e
dunque non solo ci becchiamo l’epiteto di “lasagne”, “penne
gratinate e al pomodoro”, ma veniamo spicciativamente liquidati
come mafiosi, secondo l’equazione abusata che ci vuole tali in
quanto italiani e perciò capaci di esprimerci solo obbedendo a
categorie criminali. Per questa miserabile semplificazione che non è
esagerato definire razzismo, sappiamo chi ringraziare. Se i campioni
della morale a buon mercato che proliferano in casa (non “cosa”)
nostra e che hanno fatto della lotta alla mafia una professione
redditizia non facendosi scrupolo di barare, fanno sventolare il
vessillo di un Paese in cui il peggio è riconducibile sempre e solo
alla mafia e propongono teoremi improbabili secondo cui se in Alto
Adige abbattono un camoscio, se quattro gaglioffi si fanno complici
in attività corruttive nel comune di Pizzighettoni, se a Orgosolo
rubano una mandria di pecore, dietro ci sono interessi mafiosi ma
ignorano e, in alcuni casi, addirittura coprono patologie molto più
gravi nel cui elenco interminabile svetta al primo posto, appunto, la
corruzione che ci affligge da sempre e non certo grazie alla mafia
che semmai se ne serve come qualsiasi cittadino disonesto, non ci
dobbiamo poi lamentare se Charlie Hebdo maramaldeggia sulla nostra
mafiosità. La mafia è un bubbone che affligge il corpo della
società italiana e va combattuta, senza però dilatarne la portata e
inflazionarne il termine secondo la logica totalizzante del
politicamente corretto che erige il feticcio e se ne serve per
confondere le acque con forme di sciacallaggio che sono fuorvianti e
costituiscono un pericolo serio quanto quello della mafia.
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