Ho assistito alla presentazione di un
libro su Pasolini, “Pasolini, massacro di un poeta” di Simona
Zecchi, e ne ho ricavato una profonda emozione, sicuramente per
l’evocazione della figura di un poeta che amo ma non solo per
questo. Ho rivissuto le circostanze drammatiche della morte di
Pasolini attraverso la lettura che la deliziosa autrice ne propone
narrando il clima inquietante in cui il delitto si è consumato e
l’infamia che ha accompagnato il poeta sia in vita che dopo la
morte. E’ noto che a Pasolini non è stata perdonata l’onestà
intellettuale con cui ha combattuto l’ipocrisia delle verità
omologate e la dittatura del massimalismo etico di una certa sinistra
bacchettona che si è intestata l’esclusiva della superiorità
morale. Pasolini è stato ucciso da Pelosi, o non si sa da chi, ma è
stato ucciso soprattutto dalla gogna dei censori seduti sul trespolo
dell’intransigenza che ne hanno punito lo spirito libero con la
calunnia, bollandolo quale corruttore dei giovani, e col silenzio,
condannandolo all’oblio della damnatio memoriae. E’ la storia di
sempre, è la storia dei Gide che oggi si ripete ad opera dei guru
radical-chic del pensiero unico che decidono che cosa è
politicamente corretto e cancellano le voci fuori dal coro
nell’indifferenza di una società liquida priva di ideali e di
memoria. Senza alcuna pretesa di scomodare la cultura o di fare
accostamenti impensabili ma giusto per dare una testimonianza, so
cosa significa patire la gogna e il silenzio per averli sperimentati
sulla mia pelle. La gogna quando la macelleria mediatica si è
avventata sulla mia vicenda giudiziaria con il furore di chi non deve
rendere conto della propria ferocia e può tranquillamente
imperversare senza pagare pegno, il silenzio quando mi sono proposto
come scrittore ed era politicamente corretto ignorarmi in ossequio al
pregiudizio che mi accompagna. In verità qualche voce si è levata,
giusto per strillare indignata: ”Come si permette questo mafioso? A
chi la vuole dare a bere?”. Di questo si discuteva nella serata
della presentazione, tra un vecchio arnese libertario senza patria
come il sottoscritto e gli onesti, fieri, disillusi figli di una
ideologia che non ha perduto il vizietto della mistificazione.
Partendo da posizioni ideali agli antipodi, ci siamo ritrovati
accomunati dalla consapevolezza della sconfitta.
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mercoledì 24 febbraio 2016
mercoledì 17 febbraio 2016
Il paradiso perduto
Quando Dio cacciò l’uomo dal
Paradiso e rifletté sui castighi ai quali destinarlo, sicuramente
decise che uno di essi dovesse essere l’inferno delle nostre strade
lastricate di relitti umani. Non è infatti altro che un inferno la
realtà con cui si misurano i volontari che fanno la ronda nei vari
Bronx insediati nel cuore della nostra civiltà, dove vite alla
deriva si trascinano senza più voglia di niente altro che non sia la
fine della loro esistenza. E’ la condizione infame nella quale
versa una fetta della nostra umanità, una condizione che è un atto
d’accusa contro la società patinata dei bravi cittadini i quali,
al riparo della loro indifferenza, si girano dall’altra parte
infastiditi dallo squallore che li sfiora e sordi ai timidi vagiti
della loro coscienza. Proviamo a proporre a queste coscienze
schizzinose la galleria degli orrori che lambiscono le nostre isole
del benessere.
Angelo. Fino a pochi mesi fa era un
dignitoso piccolo borghese appartenente alla schiera di quanti
stentano ad arrivare a fine mese, uno dei tanti, uno di noi ai
confini della povertà che stringono i denti e la cinghia e non si
possono permettere il rischio dell’inciampo. Purtroppo per lui,
Angelo è inciampato, ha perduto il lavoro, ha superato il confine
che lo separava dalla povertà ed è caduto senza alcun paracadute
nell’abisso. Assieme al lavoro ha perduto l’affetto dei familiari
che non gli hanno perdonato il fallimento, ha perduto un tetto sotto
il quale dormire, ma soprattutto ha perduto la voglia di lottare.
All’inizio si, all’inizio ha tentato di resistere, poi è
scivolato sempre di più nel vuoto della sua volontà. Avvolto in una
coperta di fortuna su un giaciglio all’addiaccio nei pressi della
Stazione Centrale, la barba candida che contrasta con il nero degli
occhi baluginanti, Angelo rifiuta di farsi aiutare e attende paziente
che giunga la fine.
Cristina e Giorgio. Li puoi trovare sui
gradini della chiesa di San Michele, abbracciati teneramente, con un
sorriso perenne errante sulle bocche sdentate, a dispetto della loro
condizione. Loro no, loro non hanno perduto la speranza e il decoro,
si amano e tanto basta, si tengono mano nella mano guardandosi negli
occhi con tenerezza, non c’è acredine nei loro volti distesi.
Sorreggendosi a vicenda, scattano in piedi dai materassi matrimoniali
che hanno acconciato sotto le stelle, accolgono i volontari con
gentilezza, come si fa con degli amici in visita, ricevono i doni che
ricambiano con la gratitudine dipinta negli occhi, ringraziano
compunti e cerimoniosi, scambiano un abbraccio con i loto
benefattori, rimandano al prossimo appuntamento. In piedi salutano
gli amici, poi tornano al loro giaciglio perdendosi l’uno nello
sguardo dell’altra.
Sergio. Dorme in macchina. Sbuca fuori
dal suo appartamento mobile all’arrivo dei volontari e stupisce col
suo parlare forbito. Ha trentadue anni Sergio e potresti scambiarlo
per tuo figlio, uno dei tanti figli che Palermo ha ripudiato e che,
non disponendo di ammortizzatori familiari né di un lavoro, né del
coraggio per cercare altrove opportunità di vita, si è abbandonato
alla precarietà di una esistenza che si è arresa prima ancora di
dispiegarsi. Ha studiato, si è laureato, così dice, in filosofia,
si vanta di vivere come Diogene in una botte pur di non abbandonare
l’amata Palermo. L’amata Palermo, la matrigna, lo ha invece
abbandonato e lo ha lasciato alla mercé di espedienti con cui
sopravvive per il tempo necessario a ricevere l’aiuto della
prossima ronda.
Selvaggia. Selvaggia di nome e di
fatto, ha vissuto la sua precarietà con la residua rabbia degli
ultimi, combattendo la sua battaglia contro la sfrontatezza dello
Stato oltre che contro la miseria. Ha resistito fino a quando ha
potuto contro il tentativo di sfratto dall’automobile in cui viveva
e che le solerti forze dell’ordine hanno sequestrato, poi si è
arresa. Lo si è capito quando è mancata all’appuntamento con i
volontari. La legge ha trionfato!
Omar. Lo si può trovare nei pressi di
Piazzale Ungheria accampato a terra in compagnia della sua
frustrazione. Da vent’anni in Italia, narra della moglie e della
figlia partiti per la Germania inseguendo il diritto ad un dignitoso
rifugio che in Italia non sono riusciti ad ottenere. Omar, tunisino,
li seguirà quando potrà, quando avrà raccolto le elemosine che gli
consentiranno di pagarsi il viaggio in Germania e patirà il secondo
dolore del distacco dal suo nuovo Paese che ha imparato ad amare.
Perché Omar ama l’Italia e gli italiani e, con gli occhi colmi di
gratitudine, ci dice quanto deve a questo popolo generoso , capace di
slanci che non si trovano altrove, quale sarà il suo dolore quando
dovrà lasciare i suoi amici di strada, i suoi fratelli. Non riesce a
trattenere le lacrime con cui piange sulla propria sorte e sulla
nostra inadeguatezza.
Cristina e Giorgio. Giungono al
dormitorio comunale reduci dalla messa pomeridiana cui hanno
assistito nella vicina chiesa di Santa Lucia. Mischiati alla
moltitudine dei fedeli domenicali, con i loro abiti decorosi, non li
immagineresti mai mendicanti della solidarietà altrui. Anche perché
hanno ancora una loro fierezza con cui dissimulano il loro stato e si
ostinano a sentirsi parte di una comunità di cittadini che non
debbono chiedere nulla ma che sono stati costretti ad abbandonare
poche settimane fa. Dialogano con i confratelli come nulla fosse, si
intrattengono con loro parlando con disinvoltura del più e del meno,
forse chissà delle vacanze che stanno progettando o dei figli con i
quali sono stati a pranzo. Si accomiatano con la compitezza che non
hanno ancora perduto, sostano un po’ in attesa che la folla si
diradi, si guardano attorno furtivi, poi si avvicinano guardinghi al
furgone dei volontari, incassano il pasto serale e si rifugiano nel
dormitorio.
Il resto alla prossima puntata, e
comunque chi vuol mettersi in gioco può andare di notte in giro per
la città, basta avere lo stomaco forte. Avrà pane per i suoi denti.
domenica 7 febbraio 2016
Bernard-Henri Lévy
Bernard-Henri Lévy, voce autorevole
dell’élite intellettuale francese, non manca mai l’appuntamento
con la provocazione. L’ultima è che la missione degli ebrei è di
capire, non di credere. In un estratto del suo libro che sta vedendo
la luce in questi giorni, L’esprit du judaisme, ci racconta come
nasce il libro e ci fornisce alcune anticipazioni su come va
declinata la fede degli ebrei, o, meglio, su come non va declinata.
Scrive infatti: “….se il Talmud è proprio quel getto di
scintille che continuano a sfavillare fra coloro che hanno mantenuto
il gusto di accostarsi alla parola di Mosè accantonata e riattivata
a colpi di enigmi, di paradossi, di parole limpide o ingannevoli, di
sensi costruiti o decostruiti, di enunciati ben articolati o
bruscamente aberranti, allora tutto questo significa che gli Ebrei
sono venuti al mondo meno per credere che per studiare; non per
adorare, ma per comprendere; e significa che il più alto compito al
quale li convocano i libri santi non è di ardere d’amore, né di
estasiarsi davanti all’infinito, ma di sapere e di insegnare”. Al
netto della sua prosa per iniziati, il nostro in buona sostanza ci
dice che “il pensiero ebraico è ostile al mistero, al sacro, alla
mistica della presenza, alla religiosità”, e ammonisce contro “il
grande errore che sarebbe dare ai nostri doveri verso Dio la
precedenza sugli obblighi verso gli altri, all’indiscrezione nei
confronti del divino la precedenza alla sollecitudine verso il
prossimo”. Quale campione di sollecitudine verso il prossimo, cita
Giona, il suo profeta di riferimento, che parla al popolo più
lontano, il più ostile, che predica agli abitanti di Ninive
ammonendoli sul pericolo della punizione divina, che mette
sull’avviso i nemici e li salva. Ma, ci chiediamo, forse che Giona,
pur col suo carattere inquieto che lo tenta alla ribellione nei
confronti di Dio, non si arrende alla fine e predica a Ninive
obbedendo al comando divino e dunque compiendo un atto di fede?
Ancora il nostro filosofo ricorre ad una citazione scomodando
Maimonide per affermare che la conoscenza è il primo dei
comandamenti, rimandando “per questa storia del credere ad un’altra
storia, quella della fede che salva, tipica dei cristiani”. Ma, ci
chiediamo ancora, forse che Abramo non si accinge a sacrificare il
figlio Isacco perché glielo chiede Dio, senza cercare di capire, e
Mosè non accetta le tavole della legge solo perché dettate da Dio,
anche lui senza domandarsi se sono giuste? E lo stesso Bernard-Henri
Levy che ha mosso i suoi primi passi nel mondo dell’esistenzialismo
il quale con Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche ha rinunciato
alla ragione quale cuore della realtà e l’ha sostituita con
qualcosa di misterioso, con l’irrazionalismo che parla di fede, di
volontà di vivere e di volontà di potenza, come mai, proprio lui,
ci parla di capire anziché di credere? Come si fa a capire il
mistero se non credendo ciecamente col “terribile cadere nelle mani
di Dio vivente laddove l’acqua ha la profondità di settantamila
piedi” ( Kierkegaard )? Non ha forse ragione Jean Luc Marion quando
afferma che la ragione si deve arrestare sulla soglia del mistero,
zona nella quale l’unico modo per capire è credere?
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