E’ da sempre in atto la disputa tra
quanti sostengono che lo Stato di diritto, in nome della
intangibilità dei diritti fondamentali dell’uomo, non debba mai
essere violato, e quanti invece sostengono che esso debba essere
sostituito con lo Stato di eccezione quando lo esigano le
circostanze. La nostra civiltà giuridica ha da sempre sposato la
prima concezione, sennonché da qualche tempo a questa parte i
paladini dello Stato d’eccezione hanno avuto la meglio, hanno fatto
irruzione nel terreno del diritto ed enfatizzando rischi strumentali,
lo hanno piegato alle necessità che la circostanza imponeva, ora
quella di superare l’immobilismo politico, ora quella di garantire
la sicurezza che si pretendeva minacciata. Lo hanno fatto ricorrendo
a misure eccezionali pur se esse palesavano evidenti limiti di
illegittimità. Il 41 bis è una di esse. E’ illegittima perché
lede diritti che sono alla base della nostra convivenza civile e
perché contraddice il dettato costituzionale con buona pace
dell’orientamento della Suprema Corte che con le sue pronunce ha
privilegiato l’eccezionalità anziché il diritto pur di
assecondare la deriva che conviene alla politica. Una vera e propria
eresia. Leggo della battaglia per i diritti civili condotta da
dissidenti a Cuba, in Iran, in Cina e dei nobili appelli alla
mobilitazione in loro favore, leggo di come il maggior pericolo che
insidia la loro battaglia è la solitudine, l’oblio e il senso di
abbandono che sentono più dolorosi delle torture fisiche. Ebbene
nelle celle del 41 bis e dell’ergastolo il senso di abbandono è
percepito con uguale intensità. Sono luoghi nei quali ogni giorno è
violato il rispetto per la dignità umana e dove il diritto è stato
sospeso, in cui le giornate scorrono monotone e inutili, senza
interessi e senza possibilità di riscatto, in cui la speranza si
spegne nell’attesa del fine pena mai, in cui uomini fatti di carne
e nutriti di sentimenti non possono abbracciare i loro cari per
decenni e assaporano minuto dopo minuto il gusto amaro del tempo che
non passa mai, dell’inedia che consuma il corpo e la mente poco a
poco crudelmente, in compagnia della tentazione suicida che alita sul
collo il suo invito accattivante, finché diventano l’ombra di
quello che erano, ectoplasmi che si trascinano stancamente e sentono
unicamente i loro passi, ossessionanti eppure cari, soli compagni di
una solitudine assordante. E’una solitudine uguale a quella delle
tante vittime della crudeltà a Cuba, in Iran, in Cina, ma ne
differisce perché si appartiene ai figli di un Dio minore ed è
condannata dalla nostra cattiva coscienza all’indifferenza e
all’oblio. Vale la pena di vivere in queste condizioni? Qualche
tempo fa si è conclusa con successo la battaglia per la moratoria
della pena capitale condotta da quel personaggio straordinario che è
Emma Bonino. E’ una battaglia nobile che però, pur nella sua
onestà d’intenti, consegue un obiettivo inconsapevolmente crudele.
Essa è combattuta invocando la sacralità della vita che nessuno,
neanche lo Stato, può sopprimere, ma la sua generosità dimentica
che la condanna all’ergastolo o al regime del 41 bis, pur
risparmiando la vita, è un insulto ben più grave della morte perché
costringe a vivere con l’ossessione del fine pena mai e nelle
condizioni che ho sopra descritto. Ripeto, vale la pena di vivere in
queste condizioni? O non vale piuttosto la pena che lei, signora
Bonino, dolce e determinata paladina di battaglie ideali, inverta la
direzione di marcia e, per i casi in cui la pietà l’impone,
conduca la battaglia per la reintroduzione della pena di morte?
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