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mercoledì 7 ottobre 2015

Destinati all’oblio

E’ da sempre in atto la disputa tra quanti sostengono che lo Stato di diritto, in nome della intangibilità dei diritti fondamentali dell’uomo, non debba mai essere violato, e quanti invece sostengono che esso debba essere sostituito con lo Stato di eccezione quando lo esigano le circostanze. La nostra civiltà giuridica ha da sempre sposato la prima concezione, sennonché da qualche tempo a questa parte i paladini dello Stato d’eccezione hanno avuto la meglio, hanno fatto irruzione nel terreno del diritto ed enfatizzando rischi strumentali, lo hanno piegato alle necessità che la circostanza imponeva, ora quella di superare l’immobilismo politico, ora quella di garantire la sicurezza che si pretendeva minacciata. Lo hanno fatto ricorrendo a misure eccezionali pur se esse palesavano evidenti limiti di illegittimità. Il 41 bis è una di esse. E’ illegittima perché lede diritti che sono alla base della nostra convivenza civile e perché contraddice il dettato costituzionale con buona pace dell’orientamento della Suprema Corte che con le sue pronunce ha privilegiato l’eccezionalità anziché il diritto pur di assecondare la deriva che conviene alla politica. Una vera e propria eresia. Leggo della battaglia per i diritti civili condotta da dissidenti a Cuba, in Iran, in Cina e dei nobili appelli alla mobilitazione in loro favore, leggo di come il maggior pericolo che insidia la loro battaglia è la solitudine, l’oblio e il senso di abbandono che sentono più dolorosi delle torture fisiche. Ebbene nelle celle del 41 bis e dell’ergastolo il senso di abbandono è percepito con uguale intensità. Sono luoghi nei quali ogni giorno è violato il rispetto per la dignità umana e dove il diritto è stato sospeso, in cui le giornate scorrono monotone e inutili, senza interessi e senza possibilità di riscatto, in cui la speranza si spegne nell’attesa del fine pena mai, in cui uomini fatti di carne e nutriti di sentimenti non possono abbracciare i loro cari per decenni e assaporano minuto dopo minuto il gusto amaro del tempo che non passa mai, dell’inedia che consuma il corpo e la mente poco a poco crudelmente, in compagnia della tentazione suicida che alita sul collo il suo invito accattivante, finché diventano l’ombra di quello che erano, ectoplasmi che si trascinano stancamente e sentono unicamente i loro passi, ossessionanti eppure cari, soli compagni di una solitudine assordante. E’una solitudine uguale a quella delle tante vittime della crudeltà a Cuba, in Iran, in Cina, ma ne differisce perché si appartiene ai figli di un Dio minore ed è condannata dalla nostra cattiva coscienza all’indifferenza e all’oblio. Vale la pena di vivere in queste condizioni? Qualche tempo fa si è conclusa con successo la battaglia per la moratoria della pena capitale condotta da quel personaggio straordinario che è Emma Bonino. E’ una battaglia nobile che però, pur nella sua onestà d’intenti, consegue un obiettivo inconsapevolmente crudele. Essa è combattuta invocando la sacralità della vita che nessuno, neanche lo Stato, può sopprimere, ma la sua generosità dimentica che la condanna all’ergastolo o al regime del 41 bis, pur risparmiando la vita, è un insulto ben più grave della morte perché costringe a vivere con l’ossessione del fine pena mai e nelle condizioni che ho sopra descritto. Ripeto, vale la pena di vivere in queste condizioni? O non vale piuttosto la pena che lei, signora Bonino, dolce e determinata paladina di battaglie ideali, inverta la direzione di marcia e, per i casi in cui la pietà l’impone, conduca la battaglia per la reintroduzione della pena di morte?

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