Come era prevedibile “La vita di un
uomo” sta provocando fibrillazioni presso le beghine della
sacrestia forcaiola indignate perché a un “boss” è stata data
la possibilità di esprimersi. Non sia mai che gli appestati escano
dal lebbrosario nel quale sono stati cacciati. E’ allora che i
sacerdoti del conformismo morale aprono le cateratte del loro
sdegno e con aria spiritata pronunciano le loro fatwe contro chi
tenta la fuga dall’emarginazione. Avverso il mio romanzo è in
corso la crociata dei soliti campioni delle verità omologate che
strillano i loro refrain demenziali ricalcando le orme dei censori di
sempre che dalle barricate dell’intolleranza hanno tuonato contro
il diritto di scrivere e di pensare. Il bello è che questi trafelati
paladini della legalità e del bavaglio non hanno letto il libro né
avvertono l’incongruenza di una simile omissione, convinti come
sono che non ci si debba contaminare con l’opera di un mafioso e
che tutto quello che egli esprime debba finire al rogo. Ma tant’è,
è così che la lotta alla mafia diventa l’occasione per gli
sciacalli di issare la bandiera dell’intransigenza morale e fare
della bassa macelleria banchettando con le altrui vite pur di
guadagnare carriere immeritate. Non ci sono strumenti legali per
impedire che il romanzo di un “mafioso” venga pubblicato ma i
custodi della purezza antimafiosa non demordono e avvelenano l’acqua
in rete mandando allarmati messaggi con cui tentano di fare il vuoto
attorno all’autore e all’editore e mettere il libro all’indice.
Purtroppo per loro il libro ormai c’è, appartiene ai lettori e
solo a loro spetta il giudizio non sulla dignità o indegnità
dell’autore ma sul valore della sua fatica.
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