In questi giorni si parla tanto del
reato di tortura. Come al solito il Parlamento italiano, affetto da
inguaribile provincialismo, ha avuto bisogno di essere bacchettato
dalla Corte di Strasburgo, per precipitarsi ad approvare la legge che
riconosce il reato di tortura nel nostro codice penale. I nostri
governanti dalla faccia di bronzo, incalzati dall’Europa, hanno
fatto a gara a chi proclamava con toni più o meno scandalizzati la
loro costernazione a distanza di anni da quando si è consumata la
violenza contro i giovani della scuola Diaz. Meglio tardi che mai, ma
tant’è, questo passa il convento e questo dobbiamo prenderci.
Siate certi però che, anche stavolta, all’insegna delle belle
parole, il vitto del convento gabberà lo santo. Tanto per essere
chiari, mi riferisco al pericolo dell’ennesimo raggiro ai danni dei
soliti noti con i quali si può tranquillamente barare perché sono
figli di nessuno e su di essi ogni scrupolo può essere eluso. E’
indubbio che non ci sono giustificazioni alla violenza subita dai
giovani della Diaz, anche di fronte alle manifestazioni più
provocatorie lo Stato deve saper rispondere con misura, ma non c’è
dubbio neanche che quei giovani si sono resi protagonisti a loro
volta di atti di violenza che una certa milizia ideologizzata tende a
perdonare perché proviene da ”compagni che sbagliano” e, pur
sbagliando, sono riscattati dalla nobiltà dei lombi dai quali sono
stati generati e dei loro ideali. Agli altri, no, agli altri non si
perdona nulla, ai rozzi frutti di lombi meno raffinati, che con la
loro violenza ci hanno fatto inorridire, non spetta nulla perché
alle bestie nulla è dovuto, men che meno la pretesa di essere
considerati cittadini di uno Stato di diritto. E dunque c’è da
scommettere che il 41 bis e la lunghezza dei processi non entreranno
nella fattispecie del reato di tortura, nonostante le diverse
pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia che hanno condannato l’inumana condizione in cui vivono
i detenuti in regime di 41 bis la cui integrità fisica e psichica è
a rischio, e la lunghezza del processo che condiziona la vita
dell’imputato costringendolo a convivere col marchio di una
imputazione non provata, con l’emarginazione e il disprezzo della
gente, per un tempo non dovuto. Quando un imputato, in attesa della
conclusione di una sua vicenda giudiziaria, è costretto a vivere il
proprio calvario per un tempo infinito, quando un cittadino, in cerca
di giustizia, vede il proprio diritto ad una sentenza vanificato da
tempi interminabili a causa della inettitudine dello Stato, allora
scatta la psicosi del diritto negato e può accadere di tutto. Può
accadere che il cittadino viva la sua vicenda imboccando la via della
frustrazione che si trasforma in disperazione che sfocia
nell’autodistruzione e qualche volta nella distruzione altrui come
è accaduto al Tribunale di Milano. Naturalmente non si può e non si
vuole giustificare il gesto di un folle le cui motivazione non
conosciamo e non possiamo valutare e tanto meno condividere, possiamo
solo cercare di capire il contesto in cui è maturata una tragedia
che si poteva evitare e che invece si tenta di strumentalizzare
perché, tanto per cambiare, non perdiamo il vizio della disonestà
intellettuale. Sulla vicenda infatti si sono fiondati i soliti
pretoriani in servizio permanente gridando all’isolamento dei
magistrati e alla loro esposizione al rischio di aggressioni a causa
di un presunto clima di delegittimazione attribuito ad una sorta di
“spectre” che trama nell’ombra, quando invece appare evidente
che il discredito e la tentazione di rivalsa nei confronti dei
giudici nascono dai vizi del sistema. Se c’è una cosa chiara in
questa vicenda, è che le vittime di Milano sono un magistrato ma
anche un avvocato e un cittadino comune nei confronti dei quali
l’astio dell’assassino appare parimenti distribuito.
Allora, perché l’enfasi dell’aggressione solo nei
confronti dei magistrati? E torniamo al punto.
Una logica
manichea abbastanza diffusa distingue tra cittadini di serie A ai
quali tutto è dovuto in nome di una loro pretesa superiorità
antropologica, e cittadini di serie B ai quali nulla è dovuto.
Con buona pace dello strabismo
peloso, le vite dei cittadini comuni vessati dallo Stato, degli
avvocati mortificati nel lavoro ed esposti all’ira dei clienti che
spesso attribuiscono alla loro responsabilità la causa delle
proprie traversie giudiziarie, degli sciagurati confinati nei
sottoscala della società a causa della loro scelleratezza, da una
parte, e quelle delle icone blindate e dei giovani massacrati alla
scuola Diaz, dall’altra, sul piano del diritto si equivalgono.
Purtroppo le prime non sono considerate alla pari delle seconde,
perché figlie di un dio minore.
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