La sentenza di assoluzione
emessa a favore di Berlusconi dalla Cassazione, ha rimarcato un principio sul
quale vale la pena riflettere. Le piccanti notizie emerse sulle abitudini
pecorecce di Berlusconi non hanno condizionato la sentenza dei giudici della
Suprema Corte i quali si sono limitati ad esercitare la loro funzione senza
indulgere a tentazioni moraleggianti, hanno verificato se nelle condotte di
Berlusconi si ravvisassero illeciti passibili di condanna penale e, non trovandoli,
hanno confermato la sentenza di assoluzione della Corte d’appello, bocciando il
tentativo dell’accusa di confondere peccato e reato. Sul piano penale, se non
c’è reato non può esserci condanna, con buona pace dei pruriti moralistici
delle solite beghine. Certo sconcerta il fatto che un uomo politico del calibro
di Berlusconi si dedichi in maniera così smaccata a certe licenze, ma questo
riguarda il senso etico ed estetico dell’uomo e la sua incapacità di valutare
che cosa è opportuno per un personaggio che ha alte responsabilità nei confronti
della Nazione. E riguarda l’elettore quando dovrà fare le sue scelte, non certo
il giudice. Bene ha fatto dunque l’avvocato Coppi a citare i processi ai boss
di Cosa nostra affermando: “Qui si pretende
di condannare un potente non perché ha abusato dei propri poteri ma solo
perché è un potente, così come si puniscono i mafiosi non per quello che hanno
fatto ma solo perché appartengono alla mafia”. Ha centrato il punto ma ha anche
tradito una sua riserva mentale, perché è chiaro ciò che Coppi intendeva sottintendere: essere potenti non è reato mentre lo è essere
mafiosi.
Non è comodo prendere le parti
dei mafiosi, nel mio caso poi è sospetto visto che io sono istituzionalmente un
mafioso, ma correttezza vuole che venga fatta chiarezza su una materia che
induce ad un pressappochismo con cui si fa strame del diritto. Si è discusso
tanto sulla singolarità di un reato, il 416 bis, che fa riferimento alla
cultura criminale piuttosto che al fatto delittuoso che ne può derivare,
concreto, circostanziato e provato. Se passa il principio che far parte di Cosa
nostra è un reato che va punito in sé, pur in assenza di una attivazione della
teorica capacità criminale, se, per dirla con Aristotele, si mischia potenza e atto,
io, giusto per fare un esempio, essendo stato condannato per mafia e di conseguenza
essendo ritenuto affiliato a Cosa nostra, in virtù del mio status dovrei morire
in carcere. Siamo come si vede alla solita confusione tra peccato e reato.
Indubbiamente non si possono non condannare, dal punto di vista etico e
culturale, atteggiamenti che si ispirano a valori negativi, ma non si possono
neanche perseguire e condannare penalmente condotte che non hanno fatto in
tempo a tradursi in fatti delittuosi. E ciò vale non soltanto per i potenti ma
anche per i mafiosi.
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