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lunedì 24 novembre 2014

I giovani indegni


Questi giovani rampolli della mafia non la vogliono proprio capire e continuano a sfidare con la loro arroganza la Chiesa. Prima la nipote di Messina Danaro che ha preteso di sposarsi addirittura nella Cappella Palatina e adesso il figlio di Graviano che ha rischiato di profanare la Cattedrale provando a cresimarsi sotto queste sacre volte assieme ai suoi compagni di classe come se fosse un normale cristiano. Ce ne vuole di faccia tosta per sporcare con la sua presenza, lui, il figlio di un mafioso che non ha diritto all’innocenza, il clima che alita attorno alle spoglie del beato Padre Puglisi custodite nella basilica. Ma ci ha pensato il Cardinale Romeo a stoppare il colpo di mano, impedendo che si compisse un atto blasfemo che offendeva la memoria del santo prete. Il giovane si cresimerà certo, ma da solo in un clima di semiclandestinità, al riparo da occhi indiscreti, in una anonima parrocchia di serie B dove la Chiesa può fare incetta delle anime dei fedeli senza suscitare scandalo e senza offendere il palato delicato degli schizzinosi  deboli di stomaco. Ciò detto, ci chiediamo chi stoppa la demenza della Chiesa Cattolica che sta facendo una marcia forzata contro i principi di misericordia che l’hanno nutrita per duemila anni, verso una deriva rancorosa e secolare. Quale speranza è offerta a questi giovani che hanno avuto la sorte di nascere in un contesto problematico, se la Chiesa che dovrebbe accoglierli, li respinge e li abbandona alla mercé di valori negativi, senza la possibilità di conoscere un’alternativa al mito sciagurato nel quale sono cresciuti, con nell’animo il rancore per essere stati discriminati? Padre Puglisi con la cui santità amano sciacquarsi indegnamente la bocca i farisei, ha dato testimonianza di che cosa significa includere giovani problematici lottando per contendere alla mafia l’innocenza di quei giovani. Ha pagato con la morte il suo sogno e la Chiesa ha l’ardire di praticare l’esclusione di creature innocenti nel suo nome?
No Eminenza, Padre Puglisi non l’avrebbe approvata.

venerdì 21 novembre 2014

La bella Italia

L’Italia è ormai un Paese che appartiene a quanti riescono ad appropriarsene approfittando del vuoto di potere e realizzando con l’arbitrio il proprio privilegio. Sapendo che non c’è una sovranità certa in difesa dell’interesse generale, ognuno arraffa la fetta di potere di cui è capace e la piega agli interessi che rappresenta. Convinti che non siamo più una nazione, ciascuno si arrangia come può, sapendo di potere  contare ormai solo su se stesso e di non dovere rispondere ad una autorità sovrana ma esclusivamente all’imperativo del proprio “particulare”. È così che si è innescata una corsa alle scorciatoie più o meno lecite, declinate nelle forme più o meno invasive a seconda della elasticità delle coscienze, e si è determinata una disuguaglianza che non nasce dalla diversità dei doni fornitici da madre natura ma dalla spregiudicatezza che ciascuno mette in campo senza tanti scrupoli. Si è accentuata in questo modo la distanza tra le classi sociali che assegna ai furbi e ai potenti le zone franche del privilegio e dell’impunità e confina gli onesti e i deboli nelle retrovie della lotta per la sopravvivenza. In queste contrade l’espediente la fa da padrone , chi non trova lavoro si dedica al lavoro nero o a all’attività illecita, chi non ha casa occupa quella degli altri, chi non ha nulla da offrire alla propria famiglia taccheggia al supermercato. Nelle atmosfere rarefatte del privilegio, al contrario, caste e lobby si dividono le parti più nobili dell’animale lasciando ai paria le frattaglie, tutto nell’indifferenza di uno Stato che non c’è. Il Paese va in pezzi fisicamente come dimostra l’incuria con cui vengono trattati la natura e i nostri beni culturali, e va in pezzi la fiducia nello Stato di quanti ormai non si fanno più illusioni e si abbandonano al fatalismo che li degrada o all’illecito che li degrada ancora di più o li gratifica a seconda dei punti di vista. Non c’è un potere forte che sappia abbattere i costi che alimentano il debito pubblico e l’avidità dei privilegiati a guardia di rendite di posizione che, garantendo lo status quo, frenano la ripresa, che sappia liberare gli spiriti animali di una economia che, unica in Europa, continua recedere, che sappia sconfiggere l’inedia di una classe dirigente incapace di osare perché ripiegata su se stessa e priva di idee e di sogni. Tempi lunghi, lacci e laccioli, nequizie consolidate, energie sciupate, risorse inutilizzate, sono i protagonisti negativi di un Paese senza guida. Per non parlare dello stato di salute della giustizia. Il buon mugnaio tedesco ci aveva illusi che ci fosse un giudice a Berlino ma abbiamo appreso a nostre spese che in Italia nessun giudice difende nessun mugnaio. Le decine di condanne smentite da assoluzioni successive e le altre che, seppur  scritte nella evidenza del reato, non possono essere emesse grazie a complicità corporative o a processi andati fuori tempo massimo, testimoniano di una giustizia schizofrenica che consente impunità allo stesso modo in cui incoraggia impianti accusatori costruiti sul vuoto probatorio dall’intransigenza di taluni magistrati che hanno sostituito il libero convincimento con il libero arbitrio. Succede se nessuno paga e si fa strada la convinzione dell’onnipotenza con l’alibi dell’indipendenza, unita alla insipienza di un sistema giudiziario allo sbando, debole con i forti e forte con i deboli. E a proposito di deboli, un capitolo a parte è quello che riguarda la giustizia che colpisce i mafiosi. A scanso di equivoci e prevedendo le solite sortite in malafede dei “pasionari” del giustizialismo, dico che la giustizia deve essere severa nei confronti di un fenomeno che va combattuto senza tentennamenti, ma dico altresì che il rispetto delle regole deve valere anche per i mafiosi.  Accuse generiche che si fondano sul pregiudizio e colpiscono  comportamenti ritenuti moralmente discutibili ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in azioni illecite, non possono avere patria in un sistema che poggi autenticamente sulla certezza del diritto. Processare la reputazione anziché il reato, significa processare il fumus, e di fumus il diritto muore. Siamo sempre là, tutto può avvenire perché non c’è uno Stato autentico che vigili ed eviti che mafia e antimafia regolino i loro conti come in una sfida personale.  Ho raccolto lo sfogo di un condannato per mafia che, dopo avere scontato la sua pena, attende di essere assegnato alle misure di prevenzione. Affinché le misure vengano adottate, occorre che il magistrato disponga di una relazione delle forze dell’ordine  sulla condotta dell’indagato, sulle sue frequentazioni, sui suoi contatti. I carabinieri incaricati di fare la relazione non hanno riscontrato nulla di illecito nel comportamento di costui, ma non si sono arresi di fronte all’apparenza di quella vita anonima e piatta, e hanno approfondito le indagini, scoprendo che il tizio … non lavorava. I solerti  carabinieri, ai quali, come è noto, non la si fa, hanno subodorato che qualcosa non quadrava, sicuramente c’era sotto qualcosa di illecito, e sennò come faceva questo signore a mantenersi non lavorando? E si sono precipitati a segnalare l’anomalia al magistrato. Peccato che il tizio abbia 75 anni, è pensionato e vive, seppure stentatamente, con la sua pensione e quella di sua moglie. Non solo ma, giusto per aggiungere carne al fuoco, nel fascicolo di questo signore è spuntata come per incanto una condanna che egli non ha mai riportato. Evidentemente la verità è una discriminante che vale in un modo o nell’altro a seconda che riguardi l’un cittadino o l’altro e, come si vede, in questo caso il nostro mafioso si è dovuto accontentare della verità apparecchiata con lo scopo di raggiungere l’obiettivo prefissato. Tanto chi volete che prenda le difese di un mafioso? Certo può accadere di più e di peggio, può accadere che un giovane entri in carcere e ne esca cadavere dopo avere subito una bella ripassata. La colpa viene accertata, i colpevoli no. I familiari strepitano ma sono destinati a farsene una ragione, in definitiva quel giovane se l’è cercata, non poteva che finire così uno che ha condotto una vita dissoluta, secondo la felice uscita di un funzionario dello Stato.
A questo punto la domanda è lecita: c’è qualcuno che sanzioni la disinvoltura dell’apparato investigativo con i suoi discutibili, conseguenti provvedimenti, che paghi per la morte di un ragazzo preso in consegna dallo Stato, che risponda delle speranze tradite di quanti si sono arresi alla rassegnazione e dell’innocenza perduta di quanti si sono ribellati rivolgendosi  al crimine e dedicandosi alla prepotenza di grande e piccolo cabotaggio, che si contrapponga all’arroganza dei potenti che si sono sostituiti allo Stato e scoraggiano ogni riforma, che sappia semplicemente guidare il Paese? Dove è il giudice a Berlino, dove è lo Stato autentico?
A questo Stato può accadere persino il paradosso di farsi bacchettare da un condannato per mafia. È  il segno dei tempi!

domenica 2 novembre 2014


La sentenza Cucchi

La sentenza della Corte d’Appello del Tribunale di Roma ha assolto tutti gli imputati nel processo per la morte di Stefano Cucchi.  Il reato è stato indubbiamente consumato ma la sentenza non è riuscita a individuare i colpevoli, dunque nessuna condanna. Non solo, ma alla incapacità di rendere giustizia al povero Cucchi, si aggiunge lo scherno di affermazioni di dubbio gusto del tipo: “La sua fine è frutto di una vita dissoluta” ( Tonelli, segretario del sindacato di polizia ). Dunque, se uno ha condotto una vita dissoluta merita di essere massacrato!                                                                                                                                                                          Ma l’oscenità non si ferma qui. Basta leggere le dichiarazioni con cui gli imputati e i loro difensori hanno salutato la sentenza di assoluzione.  “Insieme ai miei colleghi sono stato accusato di barbarie………non auguro a nessuno di subire quello che abbiamo subito noi…….ma io, noi siamo innocenti” ( l’agente Minichini ), “Il punto nodale era ed è che esistono dubbi sulla causa della morte di Cucchi, e questo esclude la responsabilità dei medici” ( l’avvocato Gaetano Scalise, difensore del primario Fierro ), “L’effetto mediatico che qualcuno ha voluto portare alla ribalta non ha sortito alcun effetto, se avessero avuto più coraggio i primi giudici avrebbero emesso la sentenza di assoluzione” ( Corrado Oliviero, legale di uno degli agenti ). Tutti per bene, tutti innocenti!  Ora, che un imputato proclami la propria innocenza ci può stare, io stesso ho contestato la sentenza che mi ha condannato per mafia ritenendola ingiusta, ma ho pagato il mio conto. Qua, non solo nessuno paga niente ma gli imputati che in qualche modo hanno avuto a che fare con questa vicenda e ne sono responsabili ( qualcuno sicuramente lo è anche se non è stato individuato ), hanno, come si dice a Napoli, la spudoratezza di fottere e piangere, incassano l’assoluzione e frignano, con l’aria di cadere dalle nuvole, perché la loro reputazione di galantuomini è stata messa a repentaglio, gridando al torto subito e dimenticando che l’unico ad avere subito un torto è stato Stefano Cucchi, con l’aggravante che il torto non ha autori. Le immagini  di Stefano in tutta la loro crudezza sono lì a parlare di un delitto e, nonostante ciò, nessun colpevole, tutti a negare le loro responsabilità a dispetto della decenza. I signori imputati erano in tutt’altre faccende affaccendati e quel povero ragazzo pestato e lasciato morire dentro le mura delle istituzioni è un accidente del caso che non sfiora le loro coscienze.                                                                                                                                                                               I soli colpevoli restano Cucchi vittima della sua “vita dissoluta” e della sorte avversa che lo ha condannato ad una morte senza autori, e lo Stato, vittima della propria impotenza, nel cui seno si annidano uomini alcuni dei quali hanno sicuramente mentito nel più puro stile mafioso, obbedienti ad uno  spirito di corpo omertoso.