La stampa ha riportato con toni scandalizzati la notizia che
due giovani sposi, parenti di mafiosi, hanno osato sposarsi nientedimeno che
alla Cappella Palatina, la basilica situata all’interno del Palazzo dei
Normanni, “varcando il portone della
reggia popolata dai 90 deputati dell’Assemblea regionale, e così provando ad
ostentare potere” ( Felice Cavallaro-Corriere della Sera di lunedì 15 settembre
).
Mi pare di capire che si voglia condannare l’arroganza dei
due sfrontati che si sono permessi di profanare con la loro intrusione i luoghi
sacri dove espletano la loro elevata funzione 90 gentiluomini impegnati a
tenere alte le sorti della Sicilia. I due sciagurati avrebbero dovuto avere il
buon gusto di celebrare la loro unione di cittadini di serie B in maniera meno
provocatoria, accontentandosi di una anonima cappella sperduta nelle campagne
di Castelvetrano, e così evitando di urtare la sensibilità degli onesti
cittadini.
L’episodio si salda allo scandalo suscitato dall’assegnazione
del premio “Recalmare-Leonardo Sciascia” al pluriomicida Grassonelli anziché a Caterina Chinnici figlia del
magistrato Rocco assassinato dalla mafia, ed è paradigmatico della stupidità
umana oltre che della presunzione morale priva del senso della misura che scade
nel moralismo a basso prezzo.
Nello stesso numero del Corriere potrete leggere la lettera
con cui il ministro Alfano suggerisce di combattere l’ISIS ricorrendo alla
normativa antimafia fiore all’occhiello dell’Italia, Paese dell’Occidente che
ha “come pilastro fondativo la libertà della persona nel nome della
democrazia”. Ora, la faccia tosta ci può stare e a volte può essere anche simpatica, ma non
quando a parlare di libertà della persona in nome della democrazia è un personaggio
che ha inasprito il 41 bis infischiandosi delle garanzie previste dalla
Costituzione e condannando degli infelici a vivere la carcerazione da murati
vivi. Allora è irridente e, in questo caso, si, provocatoria. Come può questo
signore parlare di democrazia a proposito di un Paese che nega i diritti
fondamentali ai suoi cittadini e non tollera che due giovani si sposino dove
cavolo gli pare? E come si permette il signor Alfano di salire in cattedra, lui
che è uno dei massimi rappresentanti di quella classe politica responsabile dei
tanti guasti la cui casistica è eloquente:
la corruzione diffusa, un Parlamento che
non riesce ad eleggere i membri della Consulta e del CSM, l’ammontare della
spesa pubblica fuori controllo, la disperazione dei giovani senza futuro,
l’estorsione fiscale, le corporazioni che lottizzano il potere e ne fanno
strumento di interessi particolari contro l’interesse generale, mentre gli
organi di garanzia che dovrebbero tutelare l’inerme cittadino convivono con gli
autori degli abusi perché i loro componenti provengono dagli stessi salotti
frequentati dai personaggi che dovrebbero perseguire? Questa classe politica e
i sodali che ad essa si rifanno non sono forse più pericolosi della mafia, non
solo perché si annidano nei gangli vitali della società e ne condizionano la
vita in maniera capillare e diffusa con buona pace della democrazia del signor
Ministro, ma perché molto spesso coincidono con le istituzioni e godono di una
impunità di cui certo non gode la mafia?
Siamo stanchi di assistere alla fiera del perbenismo di
facciata che, mentre l’Italia cola a picco per motivi che nulla hanno a che
fare con la mafia, hanno come unico leitmotiv il frustro refrain della lotta alla mafia utilizzata come rampa
di lancio di un nuovo professionismo che garantisce laute prebende e da l’aire
a sfrenate ambizioni. Perché i nostri accigliati Catoni si ostinano a fare dei
mafiosi carne da macello tenendo alta la
soglia d’allarme e agitando lo spettro di un pericolo ormai pressoché
rientrato, pur di tenere vivo un clima di emergenza e garantire i santuari dei
Vysinskij assetati di protagonismo e arroccati in difesa di un carrierismo
intriso di intransigenza ideologica? Perché invece non sperimentano un
approccio diverso nei confronti di un fenomeno che ha dimostrato di sapere
esprimere personaggi di spessore, capaci
di conversioni insospettabili che non vanno confuse con la squallida offerta
della propria disponibilità in cambio di benefici, bensì intese come autentico percorso
di ravvedimento? Perché non imparano a
capire con che cosa hanno a che fare e non combattono la mafia con lo strumento
del perdono ( non, beninteso, come remissione delle colpe ma come concessione
di una carcerazione più umana e volta al
recupero ) che un ergastolano ha definito
la migliore vendetta di una società, perché innesca il senso di colpa per il
male fatto e può portare alla redenzione?
Il carcere più che un luogo è una condizione che rende la
vita non vita e la confina in un limbo dove tutto è sfocato e incerto. Anche i
più forti in carcere vengono privati di qualcosa, la loro volontà è erosa da
quello che è stato definito l’ozio senza riposo, da un logorio metodico e
costante che lima la resistenza e la piega alla monotonia di consuetudini
sempre uguali, sempre obbedienti ad una logica che ha nella demenzialità la sua
ragion d’essere. Quando le albe e i tramonti salutano giornate fatte degli
stessi rituali di sempre che hanno nelle quattro pareti di una cella i confini
del loro mondo, la prospettiva si accorcia impercettibilmente e inesorabilmente
giorno dopo giorno, e le coscienze
tramortiscono. Oppure si ribellano e gli animi si inaspriscono fino alla
crudeltà o alla pazzia e, nel caso degli ergastolani, fino alla tentazione del
gesto estremo.
Ma ce ne sono, io lo so, specie tra i pezzi da novanta
sepolti nelle patrie galere, ultimi epigoni di un mondo al tramonto, che
possono essere recuperati e dare corpo alla speranza di un futuro diverso nell’opera
di affrancamento da valori negativi. Ci sono coscienze provate che hanno
abdicato al mito di una mafia idealizzata e fanno i conti, sconfortati, con le
macerie lasciate in eredità da stagioni folli. Il recupero di esse è la vera
sfida che lo Stato si deve imporre, invece di ricorrere ai soliti strumenti che
incattiviscono piuttosto che redimere.
I tempi sono maturi e i Torquemada hanno ormai concluso il
loro compito.
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