Vivere il carcere e
piangersi addosso.
È la sindrome che vivono
alcuni detenuti quando, a contatto con la sofferenza, si abbandonano
alla facile tentazione del vittimismo e confondono la giusta pretesa
di una carcerazione dignitosa con la fuga dalle proprie
responsabilità.
Una sindrome di segno
opposto è quella dei sacerdoti del moralismo arrembante schierati su
posizioni intransigenti, i quali negano qualsiasi concessione a chi
ha sbagliato e fanno della detenzione un cordone sanitario che separa
il peccato dentro le carceri dalla virtù fuori dalle carceri.
È la somatizzazione, da
una parte della propria innocenza, dall'altra dell'altrui
colpevolezza, con la differenza che, mentre i detenuti dispongono di
armi spuntate, i Savonarola del giustizialismo possono imperversare a
loro piacimento. Ne è un esempio la reazione del signor Gaspare
Agnello, componente della giuria che assegna il premio letterario
“Recalmare - Leonardo Sciascia”, il quale si è dimesso dal suo
incarico lamentando che si sia osato assegnare il premio a Giuseppe
Grassonelli, ergastolano pluriomicida, invece che a Caterina Chinnici
figlia del giudice Rocco, ucciso da Cosa Nostra.
Per il signor Agnello i
trascorsi giudiziari sono una discriminante quando si deve giudicare
una opera letteraria il cui valore, secondo il suo punto di vista, va
misurato con il lindore o meno della fedina penale e passa attraverso
il riscatto del suo autore.
Non c'è dubbio che
l'opera letteraria di un detenuto nasce anche dalla sensibilità
guadagnata attraverso una presa di coscienza e un percorso di
riscatto, ma non c'è dubbio neanche che essa ha un suo valore
intrinseco che prescinde da implicazioni di carattere sociale e
morale e non deve necessariamente avere potere salvifico. E senno' il
dissoluto Baudelaire e il “depravato” Rimbaud non dovrebbero
figurare nell'Olimpo dei poeti.
Di ciò che passa per il
cuore dei detenuti ho una discreta esperienza. Ho scritto un diario
durante la mia ultima recente esperienza in carcere in cui ho cercato
di rendere le dimensioni di un dramma che non può essere liquidato
con semplicistiche prese di distanza avendo a cuore esclusivamente la
sicurezza della cosiddetta società civile. La società è fatta
anche di chi ha sbagliato e se pretendiamo di dirci uomini, non
possiamo girarci dall'altra parte e ignorare la sorte di una umanità
che, con tutti i suoi errori, ci appartiene. Ignorare questo spicchio
di umanità significa rinnegare noi stessi e fare un passo indietro
rispetto al traguardo di un mondo più civile.
Invito a leggere la
corrispondenza ospitata in un blog “Le urla dal silenzio”
(urladalsilenzio.wordpress.com) da sempre impegnato a dar voce a
quelli che un ergastolano, Carmelo Musumeci, ha definito “uomini
ombra”.
Dalla lettura di quella
corrispondenza emerge uno spaccato che non ha niente da spartire con
il luogo comune secondo cui il detenuto è merce avariata sui cui non
vale la pena investire. È una realtà insospettabile dove uomini che
si è soliti pensare colpevoli e intrappolati nella riserva degli
irrecuperabili, hanno da tempo valicato i confini dei loro errori e
sono solo prigionieri dei limiti dei “benpensanti”.
Nel mio diario uno di
questi uomini, Gerti Gjenerali, un giovane ergastolano albanese, si
erge in tutta la sua straordinaria statura. E “Urla dal silenzio”
ci propone una galleria di personaggi i quali ci dicono che il tempo
ha fatto giustizia di certi stereotipi, che la sofferenza ha reso
questi uomini migliori dei tanti che guardano alla detenzione col
sopracciglio inarcato.
Sono uomini che in carcere
si sono riscattati e hanno affidato la loro sofferenza a pagine
struggenti che colpiscono per la loro drammaticità, il loro lirismo,
la loro delicatezza. Leggete la prosa maschia di Carmelo Musumeci nel
suo libro “L'urlo di un uomo ombra”, le poesie di Tommaso Amato,
il diario di Pasquale De Feo, la scrittura intensa di Pierdonato
Zito, e saprete di cosa parlo.
Nei confronti di una
simile realtà, l'indifferenza, l'accanimento di chi dovrebbe
affrontare il problema della detenzione e delle sue aberrazioni,
l'ergastolo ostativo e il 41 bis, in una ottica più laica,
ispirandosi peraltro al dettato costituzionale, e' colpevolezza.
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