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venerdì 5 settembre 2014

Le sindromi del carcere e della società civile

Vivere il carcere e piangersi addosso.
È la sindrome che vivono alcuni detenuti quando, a contatto con la sofferenza, si abbandonano alla facile tentazione del vittimismo e confondono la giusta pretesa di una carcerazione dignitosa con la fuga dalle proprie responsabilità.
Una sindrome di segno opposto è quella dei sacerdoti del moralismo arrembante schierati su posizioni intransigenti, i quali negano qualsiasi concessione a chi ha sbagliato e fanno della detenzione un cordone sanitario che separa il peccato dentro le carceri dalla virtù fuori dalle carceri.
È la somatizzazione, da una parte della propria innocenza, dall'altra dell'altrui colpevolezza, con la differenza che, mentre i detenuti dispongono di armi spuntate, i Savonarola del giustizialismo possono imperversare a loro piacimento. Ne è un esempio la reazione del signor Gaspare Agnello, componente della giuria che assegna il premio letterario “Recalmare - Leonardo Sciascia”, il quale si è dimesso dal suo incarico lamentando che si sia osato assegnare il premio a Giuseppe Grassonelli, ergastolano pluriomicida, invece che a Caterina Chinnici figlia del giudice Rocco, ucciso da Cosa Nostra.
Per il signor Agnello i trascorsi giudiziari sono una discriminante quando si deve giudicare una opera letteraria il cui valore, secondo il suo punto di vista, va misurato con il lindore o meno della fedina penale e passa attraverso il riscatto del suo autore.
Non c'è dubbio che l'opera letteraria di un detenuto nasce anche dalla sensibilità guadagnata attraverso una presa di coscienza e un percorso di riscatto, ma non c'è dubbio neanche che essa ha un suo valore intrinseco che prescinde da implicazioni di carattere sociale e morale e non deve necessariamente avere potere salvifico. E senno' il dissoluto Baudelaire e il “depravato” Rimbaud non dovrebbero figurare nell'Olimpo dei poeti.
Di ciò che passa per il cuore dei detenuti ho una discreta esperienza. Ho scritto un diario durante la mia ultima recente esperienza in carcere in cui ho cercato di rendere le dimensioni di un dramma che non può essere liquidato con semplicistiche prese di distanza avendo a cuore esclusivamente la sicurezza della cosiddetta società civile. La società è fatta anche di chi ha sbagliato e se pretendiamo di dirci uomini, non possiamo girarci dall'altra parte e ignorare la sorte di una umanità che, con tutti i suoi errori, ci appartiene. Ignorare questo spicchio di umanità significa rinnegare noi stessi e fare un passo indietro rispetto al traguardo di un mondo più civile.
Invito a leggere la corrispondenza ospitata in un blog “Le urla dal silenzio” (urladalsilenzio.wordpress.com) da sempre impegnato a dar voce a quelli che un ergastolano, Carmelo Musumeci, ha definito “uomini ombra”.
Dalla lettura di quella corrispondenza emerge uno spaccato che non ha niente da spartire con il luogo comune secondo cui il detenuto è merce avariata sui cui non vale la pena investire. È una realtà insospettabile dove uomini che si è soliti pensare colpevoli e intrappolati nella riserva degli irrecuperabili, hanno da tempo valicato i confini dei loro errori e sono solo prigionieri dei limiti dei “benpensanti”.
Nel mio diario uno di questi uomini, Gerti Gjenerali, un giovane ergastolano albanese, si erge in tutta la sua straordinaria statura. E “Urla dal silenzio” ci propone una galleria di personaggi i quali ci dicono che il tempo ha fatto giustizia di certi stereotipi, che la sofferenza ha reso questi uomini migliori dei tanti che guardano alla detenzione col sopracciglio inarcato.
Sono uomini che in carcere si sono riscattati e hanno affidato la loro sofferenza a pagine struggenti che colpiscono per la loro drammaticità, il loro lirismo, la loro delicatezza. Leggete la prosa maschia di Carmelo Musumeci nel suo libro “L'urlo di un uomo ombra”, le poesie di Tommaso Amato, il diario di Pasquale De Feo, la scrittura intensa di Pierdonato Zito, e saprete di cosa parlo.
Nei confronti di una simile realtà, l'indifferenza, l'accanimento di chi dovrebbe affrontare il problema della detenzione e delle sue aberrazioni, l'ergastolo ostativo e il 41 bis, in una ottica più laica, ispirandosi peraltro al dettato costituzionale, e' colpevolezza.

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