La giustizia
Si suole dire che le sentenze vanno accettate. E’ questa una
affermazione pleonastica perché non si può scegliere di non accettare le
sentenze senza contravvenire alla legge. Uno dei caratteri della norma è la sua
coazione che ci obbliga a scontare la pena.
Si dice anche che le sentenze non vanno commentate e qui si
esagera come succede sempre quando si vuol fare professione di zelo
impegnandosi in esercizi di piaggeria nei confronti di un tabù che non si osa
mettere in discussione.
Già mi figuro la reazione di chi fa le pulci a queste
considerazioni ritenendole frutto del mio malanimo contro una giustizia che con
me non è stata tenera. Chi conosce le mie vicende giudiziarie potrebbe dirmi
che non ho motivo di lamentarmi perché, tutto sommato, mi è andata bene: su tre
procedimenti ho incassato due assoluzioni ormai definitive e una condanna che
ancora deve passare al vaglio della Cassazione. In effetti non mi lamento delle
assoluzioni, ci mancherebbe, mi lamento però del fatto che, per ottenerle, ho
dovuto sottostare, con costi che non mi sono mai stati rimborsati e ansie che
hanno minato la mia serenità, a due processi ai quali non si doveva arrivare.
E mi lamento della sentenza di condanna riportata in primo e
secondo grado perché la ritengo ingiusta nel merito e frutto di pregiudizio, ma
anche perché essa ancora dopo quindici anni non è giunta a conclusione
definitiva e quando vi giungerà, se sarà confermata, punirà un innocente che
non è più lo stesso uomo di quindici anni fa e che ha pagato un conto salato
quanto e più della pena in essa contenuta, l’emarginazione durante questi
lunghi, interminabili anni nel ghetto dei cittadini immeritevoli. A tutto ciò
si aggiungano sei anni di carcere preventivo già scontati prima di sapere se
sono veramente colpevole. Si può ben dire che il mio è un caso di malagiustizia
che va ad aggiungersi ai tanti casi, e sono la maggioranza, che costellano il
panorama giudiziario italiano.
Quando diciamo “lex dura lex sed lex, intendiamo che tutti
siamo sudditi della legge, che essa è cogente nei confronti dei cittadini
colpevoli che ne subiscono la pena ma anche nei confronti dei giudici che hanno
l’obbligo di applicarla con onestà ed equità. Ma, ahinoi, la positività della
legge è nelle mani degli uomini, risente dei limiti dell’azione umana e per
questo motivo non sempre i nostri giudici sono all’altezza del loro compito,
ubbidendo spesso a pulsioni che con il rigore della legge non hanno nulla da
spartire e ne mettono in crisi la credibilità. Può accadere che, compresi della
loro funzione terribile e solitaria, essi trasformino la loro indipendenza in
delirio d’onnipotenza, si convincano che a loro è affidata la missione di
salvare il mondo, si adagino su ancoraggi ideologici che ne minano
l’equidistanza, diventino cattivi giudici.
Bisogna allora avere il coraggio di denunciare l’ipocrisia
della sacralità di alcune sentenze quando, al di là dell’onesto errore umano,
in esse si annida una disonestà intellettuale ( in presenza della quale riesce
difficile non condividere con Capogrossi la considerazione che il principio di
effettività avalutativo è una mera esaltazione di forza ), che è sorda al
richiamo del vincolo morale e al contempo vi ricorre facendo proprie
valutazioni etiche per condannare la reputazione anziché la colpa. Non è
ammissibile che il positivismo giuridico prescinda dalla legge di natura che
Locke teorizzava quale presidio della libertà dell’individuo e si traduca in
assolutismo e arbitrio, che all’autonomia del magistrato manchi la coscienza
morale di una Antigone che rivendichi il primato dei valori etici, beninteso
non contro l’autorità della legge ma contro l’autoreferenzialità di una
corporazione arroccata in un fortilizio consortile e indifferente alle garanzie
dell’habeas corpus.
A proposito dei magistrati Calamandrei diceva: “Il vostro
potere è così grande che l’umiltà per voi è il prezzo dovuto perché siate
legittimati a esercitarlo”, umiltà che, in alcuni casi, è mancata.
Basta frequentare le aule dei tribunali
per imbattersi in giudici dall’aspetto malmostoso e l’aria di chi ha in
odio il mondo e lo vuole redimere riversando nelle sentenze la propria furia
giacobina.
Il problema è che in gioco ci sono delle vite umane.
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