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martedì 12 febbraio 2013

Della natura umana


Della natura umana si discute da sempre.
Ne ha discusso S.Agostino a proposito del male, ne hanno discusso Hobbes e Rousseau, l’uno con considerazioni non molto tenere sulla malvagità della natura umana tanto da indurlo a mettere l’uomo sotto la tutela del Leviatano, l’altro all’incontrario convinto che la natura umana sia buona. Mi iscrivo fra quelli che si fanno qualche problema a considerare l’uomo buono. Ritengo che egli abbia perduto la sua innocenza nel momento in cui si è rivoltato contro Dio ed è diventato autenticamente uomo rivendicando il proprio libero arbitrio. Da quel momento è diventato padrone di se stesso con tutto quello che l’attivazione della sua volontà gli ha portato in dote, la capacità cioè di indirizzare i propri comportamenti e declinare di volta in volta la natura che da essi è svelata. Certo si pone il problema del destino che sembra sfuggire alla volontà ma anche in questo caso non si può negare il ruolo della volontà dell’uomo nell’accompagnare le scelte del destino. Mi sovviene al riguardo il pensiero di Socrate secondo cui basta che l’uomo conosca il bene perché sia virtuoso. Con tutto il rispetto per Socrate, la conoscenza del bene non è sufficiente se non è accompagnata dalla volontà del bene.  
E allora come la mettiamo? La mettiamo, come teorizza S.Agostino, che l’uomo è predestinato ma che comunque quando compie il male lo compie perché guidato dalla sua cattiva volontà che invece di tendere al Bene supremo tende ai beni creati e finiti preferendo la creatura a Dio?  S. Agostino deve mettersi d'accordo con sé stesso, troppo comodo considerare l'uomo predestinato e al tempo stesso responsabile quando sceglie il male. Con buona pace di S.Agostino e della sua predestinazione, cattiva o buona che sia la volontà dell’uomo, essa è una conquista con cui bisogna fare i conti. Accettiamo la fede di chi crede che l’uomo è padrone della sua vita grazie alla magnanimità di Dio e che, grazie alla bontà di Dio, ha la possibilità di riscattarla, ma, con l’aiuto di Dio o senza, siamo comunque alla mercé di noi stessi, terribilmente responsabili delle nostre azioni, immensamente soli e autori di comportamenti i quali però ci ammoniscono che la volontà da sola non basta, che è monca se è priva di cuore.
Sono reduce da una visita fatta a mio figlio recluso in regime di 41 bis. Non sto a tediarvi con la solita storia che è inumano non poterlo abbracciare, ne ho già parlato e sappiamo tutti quali sono state le reazioni. La volontà dell’uomo in questo caso non è stata molto caritatevole. Vi parlo invece dello spaccato che è venuto fuori dal dialogo con mio figlio. La prima notizia che mi ha dato è che il detenuto della cella accanto alla sua pochi minuti prima aveva tentato il suicidio impiccandosi. E’ stato salvato grazie alla fortunata circostanza che gli agenti si sono trovati nei paraggi per rilevare mio figlio e accompagnarlo al colloquio con me. Lo hanno salvato ma hanno salvato un uomo morto ormai da tempo. Mi racconta mio figlio che quest’uomo non riceve da anni una visita dai suoi familiari, che non dispone di provvidenze economiche e vive di ciò che, come si diceva una volta, passa il governo e della carità dei suoi compagni, che si è lasciato andare ad una depressione profonda e vive la sua vita a letto sotto sedativi, che l’unico guizzo di volontà e, direi, di dignità lo ha spinto al tentativo di suicidio. La sua volontà contro la volontà sovrana di un mondo senza cuore. Una lotta impari.
Mi ha raccontato tante altre cose mio figlio, di come, per esempio, si combatte una battaglia quotidiana e anche essa impari, fra la debolezza del detenuto e l’imperio del regolamento penitenziario. Chi è stato in carcere sa che il regolamento è sovrano. Chi lo ha redatto si è preoccupato di renderlo severo, in alcune parti stupidamente severo, anche se lo ha fatto precedere ipocritamente dalla pomposa proclamazione che la detenzione ha il compito di redimere. Io dico che ha il compito di rendere ancora più crudele la già innaturale condizione del detenuto. La volontà in questo caso si materializza nel delirio d’onnipotenza del direttore del carcere o anche di un semplice agente che hanno l’occasione di misurare il proprio potere sulla pelle del detenuto applicando un regolamento, già di per se in alcune parti demenziale, ad libitum. Certo c’è il Tribunale di sorveglianza che vigila sulla sua corretta applicazione. Ma quanti sono i detenuti in grado di ricorrere al magistrato di sorveglianza e quanta la disponibilità del direttore del carcere a rispettare l’ordinanza del giudice? Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere, ma proprio mio figlio che ha vinto un ricorso al tribunale di sorveglianza e ha ottenuto una disposizione che lo autorizzava a dialogare con i suoi compagni, si è visto trasferire in altra sezione e si è sentito intimare di non parlare con i suoi compagni perché….. non erano gli stessi compagni ai quali si riferiva la disposizione del giudice. Ingegnoso, no? Ed esemplare della cattiveria cui può giungere la volontà umana specie se c’è da prevaricare.
La vita in carcere è fatta anche di questi episodi, di queste squallide ripicche, ma è fatta soprattutto della disperazione di uomini che non hanno prospettive rispetto alla consuetudine di una vita sempre uguale che si trascina giorno dopo giorno con gli stessi riti di sempre ed è destinata a perpetuarsi fino a fine pena o, peggio, fino alla fine della vita quando il fine pena è mai, di uomini che giungono al capolinea della loro vita diversi da come sono partiti e finiscono per subire da innocenti una condanna che non li riguarda più. A questa vita non è offerta alcuna alternativa, non in carcere dove non c’è la possibilità che il detenuto sia impegnato in forme di vita che lo facciano sentire utile e lo distolgano dalla stupidità che si impossessa di una psiche condannata alla noia, che lo allontanino dalla tentazione di odiare se stessi e la loro vita, di odiare lo Stato e sentirlo nemico, altro che redenzione. Non fuori dal carcere, dove giungono accompagnati dal pregiudizio e dalla mancanza di ammortizzatori che li aiutino a non ricadere nella colpa. Altro che volontà lungimirante e misericordiosa!
Ma le insidie alla nostra volontà sono in agguato in ogni momento della nostra vita. La nostra volontà si dispiega in tante forme di bontà e di cattiveria in cui, ahinoi, la bontà è una navicella fragile in balia di un mare in tempesta. Assistiamo agli esempi di splendida solidarietà di un volontariato che mette la propria vita a disposizione del prossimo, ma assistiamo purtroppo ad una più massiccia offensiva di cattiveria. E’ più facile essere cattivi perché non ci si deve impegnare nello sforzo di fronteggiare le mille insidie della vita, basta lasciarsi andare senza doversi sottoporre alla fatica di dar conto al fastidioso imperativo morale o alla nostra coscienza. La saggezza e la carità impongono dei sacrifici e delle rinunce delle quali la passione può fare a meno. E’ così facile fare del male, per esempio inveire contro un uomo in disgrazia ed è così inebriante! Roberto Puglisi, con la sua penna straordinaria, ci ha narrato della canea scatenatasi in rete contro Gianfranco Micciché colpito da angina, ma la sua indignazione è destinata all’oblio. Assistiamo ogni giorno alle manifestazioni di ferocia e di sciacallaggio di anonimi in libera uscita ai quali non par vero di potere scatenare il loro livore senza pagare pegno, è solo la punta dell’iceberg di un mondo sotterraneo e infelice che non deve sottoporsi alla fatica dell’onestà intellettuale e morale ma può lasciarsi andare agli istinti più ferini anziché alla volontà buona.
Assistiamo ogni giorno agli squilibri di un mondo in cui la ferocia dei vincenti si abbatte sulla debolezza dei perdenti. Mi piace ripetere spesso l’episodio citato da Tucidide nel libro V° de “La guerra del Peloponnese” che narra di come i Melii siano dovuti soccombere alle ragioni degli ateniesi i quali ammantavano con l’appellativo di diritto le loro convenienze. E’ un copione che si ripete da sempre e che vede i deboli soccombere nei confronti dei forti in una lotta impari in cui la volontà è priva di cuore.




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