Della natura umana si discute da sempre.
Ne ha discusso S.Agostino a proposito del male, ne hanno
discusso Hobbes e Rousseau, l’uno con considerazioni non molto tenere sulla
malvagità della natura umana tanto da indurlo a mettere l’uomo sotto la tutela
del Leviatano, l’altro all’incontrario convinto che la natura umana sia buona. Mi iscrivo
fra quelli che si fanno qualche problema a considerare l’uomo buono. Ritengo che
egli abbia perduto la sua innocenza nel momento in cui si è rivoltato contro
Dio ed è diventato autenticamente uomo rivendicando il proprio libero arbitrio.
Da quel momento è diventato padrone di se stesso con tutto quello che l’attivazione
della sua volontà gli ha portato in dote, la capacità cioè di indirizzare i
propri comportamenti e declinare di volta in volta la natura che da essi è svelata.
Certo si pone il problema del destino che sembra sfuggire alla volontà ma anche
in questo caso non si può negare il ruolo della volontà dell’uomo
nell’accompagnare le scelte del destino. Mi sovviene al riguardo il pensiero di
Socrate secondo cui basta che l’uomo conosca il bene perché sia virtuoso. Con
tutto il rispetto per Socrate, la conoscenza del bene non è sufficiente se non
è accompagnata dalla volontà del bene.
E allora come la mettiamo? La mettiamo, come teorizza
S.Agostino, che l’uomo è predestinato ma che comunque quando compie il male lo
compie perché guidato dalla sua cattiva volontà che invece di tendere al Bene
supremo tende ai beni creati e finiti preferendo la creatura a Dio? S. Agostino deve mettersi d'accordo con sé stesso, troppo comodo considerare l'uomo predestinato e al tempo stesso responsabile quando sceglie il male. Con buona
pace di S.Agostino e della sua predestinazione, cattiva o buona che sia la
volontà dell’uomo, essa è una conquista con cui bisogna fare i conti. Accettiamo
la fede di chi crede che l’uomo è padrone della sua vita grazie alla
magnanimità di Dio e che, grazie alla bontà di Dio, ha la possibilità di
riscattarla, ma, con l’aiuto di Dio o senza, siamo comunque alla mercé di noi
stessi, terribilmente responsabili delle nostre azioni, immensamente soli e
autori di comportamenti i quali però ci ammoniscono che la volontà da sola non
basta, che è monca se è priva di cuore.
Sono reduce da una visita fatta a mio figlio recluso in
regime di 41 bis. Non sto a tediarvi con la solita storia che è inumano non
poterlo abbracciare, ne ho già parlato e sappiamo tutti quali sono state le
reazioni. La volontà dell’uomo in questo caso non è stata molto caritatevole.
Vi parlo invece dello spaccato che è venuto fuori dal dialogo con mio figlio. La
prima notizia che mi ha dato è che il detenuto della cella accanto alla sua
pochi minuti prima aveva tentato il suicidio impiccandosi. E’ stato salvato
grazie alla fortunata circostanza che gli agenti si sono trovati nei paraggi
per rilevare mio figlio e accompagnarlo al colloquio con me. Lo hanno salvato
ma hanno salvato un uomo morto ormai da tempo. Mi racconta mio figlio che
quest’uomo non riceve da anni una visita dai suoi familiari, che non dispone di
provvidenze economiche e vive di ciò che, come si diceva una volta, passa il
governo e della carità dei suoi compagni, che si è lasciato andare ad una
depressione profonda e vive la sua vita a letto sotto sedativi, che l’unico
guizzo di volontà e, direi, di dignità lo ha spinto al tentativo di suicidio. La
sua volontà contro la volontà sovrana di un mondo senza cuore. Una lotta
impari.
Mi ha raccontato tante altre cose mio figlio, di come, per
esempio, si combatte una battaglia quotidiana e anche essa impari, fra la
debolezza del detenuto e l’imperio del regolamento penitenziario. Chi è stato
in carcere sa che il regolamento è sovrano. Chi lo ha redatto si è preoccupato
di renderlo severo, in alcune parti stupidamente severo, anche se lo ha fatto
precedere ipocritamente dalla pomposa proclamazione che la detenzione ha il
compito di redimere. Io dico che ha il compito di rendere ancora più crudele la
già innaturale condizione del detenuto. La volontà in questo caso si
materializza nel delirio d’onnipotenza del direttore del carcere o anche di un
semplice agente che hanno l’occasione di misurare il proprio potere sulla pelle
del detenuto applicando un regolamento, già di per se in alcune parti
demenziale, ad libitum. Certo c’è il Tribunale di sorveglianza che vigila sulla
sua corretta applicazione. Ma quanti sono i detenuti in grado di ricorrere al
magistrato di sorveglianza e quanta la disponibilità del direttore del carcere
a rispettare l’ordinanza del giudice? Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da
piangere, ma proprio mio figlio che ha vinto un ricorso al tribunale di
sorveglianza e ha ottenuto una disposizione che lo autorizzava a dialogare con
i suoi compagni, si è visto trasferire in altra sezione e si è sentito intimare
di non parlare con i suoi compagni perché….. non erano gli stessi compagni ai
quali si riferiva la disposizione del giudice. Ingegnoso, no? Ed esemplare
della cattiveria cui può giungere la volontà umana specie se c’è da
prevaricare.
La vita in carcere è fatta anche di questi episodi, di
queste squallide ripicche, ma è fatta soprattutto della disperazione di uomini
che non hanno prospettive rispetto alla consuetudine di una vita sempre uguale
che si trascina giorno dopo giorno con gli stessi riti di sempre ed è destinata
a perpetuarsi fino a fine pena o, peggio, fino alla fine della vita quando il
fine pena è mai, di uomini che giungono al capolinea della loro vita diversi da
come sono partiti e finiscono per subire da innocenti una condanna che non li
riguarda più. A questa vita non è offerta alcuna alternativa, non in carcere
dove non c’è la possibilità che il detenuto sia impegnato in forme di vita che
lo facciano sentire utile e lo distolgano dalla stupidità che si impossessa di
una psiche condannata alla noia, che lo allontanino dalla tentazione di odiare
se stessi e la loro vita, di odiare lo Stato e sentirlo nemico, altro che redenzione.
Non fuori dal carcere, dove giungono accompagnati dal pregiudizio e dalla
mancanza di ammortizzatori che li aiutino a non ricadere nella colpa. Altro che
volontà lungimirante e misericordiosa!
Ma le insidie alla nostra volontà sono in agguato in ogni
momento della nostra vita. La nostra volontà si dispiega in tante forme di
bontà e di cattiveria in cui, ahinoi, la bontà è una navicella fragile in balia
di un mare in tempesta. Assistiamo agli esempi di splendida solidarietà di un
volontariato che mette la propria vita a disposizione del prossimo, ma
assistiamo purtroppo ad una più massiccia offensiva di cattiveria. E’ più
facile essere cattivi perché non ci si deve impegnare nello sforzo di
fronteggiare le mille insidie della vita, basta lasciarsi andare senza doversi
sottoporre alla fatica di dar conto al fastidioso imperativo morale o alla
nostra coscienza. La saggezza e la carità impongono dei sacrifici e delle
rinunce delle quali la passione può fare a meno. E’ così facile fare del male,
per esempio inveire contro un uomo in disgrazia ed è così inebriante! Roberto
Puglisi, con la sua penna straordinaria, ci ha narrato della canea scatenatasi
in rete contro Gianfranco Micciché colpito da angina, ma la sua indignazione è
destinata all’oblio. Assistiamo ogni giorno alle manifestazioni di ferocia e di
sciacallaggio di anonimi in libera uscita ai quali non par vero di potere
scatenare il loro livore senza pagare pegno, è solo la punta dell’iceberg di un
mondo sotterraneo e infelice che non deve sottoporsi alla fatica dell’onestà
intellettuale e morale ma può lasciarsi andare agli istinti più ferini anziché
alla volontà buona.
Assistiamo ogni giorno agli squilibri di un mondo in cui la
ferocia dei vincenti si abbatte sulla debolezza dei perdenti. Mi piace ripetere
spesso l’episodio citato da Tucidide nel libro V° de “La guerra del
Peloponnese” che narra di come i Melii siano dovuti soccombere alle ragioni
degli ateniesi i quali ammantavano con l’appellativo di diritto le loro
convenienze. E’ un copione che si ripete da sempre e che vede i deboli
soccombere nei confronti dei forti in una lotta impari in cui la volontà è
priva di cuore.