L’unità d’Italia
Ricorrono spesso gli inviti ad uno scatto di reni di noi
italiani, a prendere coscienza delle nostre potenzialità e della nostra
condizione tutto sommato felice rispetto al resto del mondo. Ci si chiede
perché non siamo capaci di amare sufficientemente la nostra patria, la sua
cultura, le sue bellezze naturali, i suoi siti archeologici, persino i suoi
brand imposti all’attenzione del mondo intero con il lavoro, l’ingegno,
l’industriosità, perché non abbiamo l’orgoglio del nostro passato e in nome di
esso l’aspirazione a costruire un destino comune. Azzardo una risposta:
probabilmente perché l’Italia è una incompiuta, o meglio, l’Italia intesa come
consapevolezza della propria identità, non è mai esistita. Già al momento della
sua nascita essa fu il frutto di circostanze fortuite e favorevoli, non già di un
moto di popolo spontaneo né di un progetto diffuso. Lo stesso Cavour,
considerato il geniale artefice dell’unità d’Italia, aveva un altro progetto
rispetto a quello che si ritrovò realizzato tra le mani. Aveva in animo
l’ampliamento dei confini del regno sabaudo e guardava con sospetto ai matti
come Garibaldi e Mazzini che, a suo vedere, rischiavano di scompaginare i suoi
progetti. L’idea d’Italia fu l’utopia di mille idealisti spiantati, armati ed
equipaggiati alla bell’e meglio, che veleggiarono verso Marsala incuranti della
preponderanza di un esercito che sulla carta appariva imbattibile. Lo stesso
Garibaldi probabilmente, in cuor suo, sapeva di andare incontro ad una impresa
dall’esito incerto se non disperato e solo il suo fegataccio avvezzo a gesta
temerarie in Sudamerica, poteva avventurarsi in quel salto nel buio che era la
spedizione verso una terra sconosciuta a sud di Napoli. Dove accadde di tutto
al di là di ogni più rosea aspettativa, la fellonìa delle truppe e il
tradimento dei generali borbonici, il gioco degli interessi delle cancellerie
francesi e inglesi, lo rabbia contro il potere costituito gettata sulle
barricate da servi della gleba, lazzaroni e picciotti, l’apatia della nobiltà,
l’insussistenza di una borghesia che non aveva coscienza di alcun ruolo, l’alleanza
della criminalità organizzata con chi brigava contro il Borbone, tutto tranne
lo spirito patriottico.
Ad unità compiuta dall’una e dall’altra parte ci si rese conto
del risultato ottenuto. Gli ex sudditi del regno delle Due Sicilie, divenuti
sudditi del regno d’Italia, si resero conto del pessimo affare fatto e di come
erano caduti dalla padella nella brace, e i nuovi padroni si dovettero
confrontare con una realtà medioevale che non sapeva neanche in quale
dimensione era stata traghettata. La guerra civile, i contadini scambiati per
briganti e trucidati o in alcuni casi divenuti autenticamente briganti in
presenza di nuove ingiustizie, la normativa che penalizzava l’economia del sud
a favore di quella del nord, lo stravolgimento delle sia pur poche
testimonianze di dissenso, la dicono tutta sul clima dell’epoca e sul piglio
coloniale che animava i nuovi governanti. Altro che unità d’Italia! Fu un
imbroglio che condizionò il futuro della nostra Nazione. Come tutte le fusioni
a freddo l’unione non avvenne, anzi si
radicò maggiormente il senso di appartenenza a più patrie, tante quante sono le
contrade d’Italia e col passare del tempo è sempre più cresciuta nella mente
della maggior parte degli italiani la convinzione di essere vittime di due
realtà inconciliabili lette col livore delle parti contrapposte, un nord avido
e rapace e un sud sprecone e parassita. Ancora oggi fatica a realizzarsi
quell’identità che dovrebbe spingerci se non all’amor di patria, almeno alla
coscienza della comune appartenenza. Siamo ancora guelfi contro ghibellini, polentoni
contro terroni. Siamo fermi all’Italia dei comuni e di quel tempo abbiamo
conservato la genialità, lo spirito d’iniziativa e l’amore per l’ignoto, il
gusto del bello, uno stile di vita gaudente e non impegnativo, un individualismo
esasperato e naturalmente una inguaribile litigiosità. Non ci si può chiedere
quello che non abbiamo, l’orgoglio della nostra appartenenza e la capacità di
andare oltre il particolare per costruire un destino comune che non è nelle
nostre corde perché da sempre siamo un’accozzaglia di campanili.
Allorché invochiamo la riforma dello Stato sembriamo
dimenticare che lo Stato nasce dal patto tra i cittadini, che i nostri
cittadini sono irredimibili come i loro vizi e non hanno la coscienza civica
per tenere fede agli impegni presi e che dunque il patto che hanno sottoscritto
era destinato ad essere tradito. E infatti l’interesse comune al centro del patto
sociale è stato puntualmente travolto dall’interesse privato, la cura del
particolare incoraggiata da una coscienza elastica e il malaffare conseguente
sono diventati una pratica diffusa, alle corporazioni che guidano il Paese e
che hanno gonfiato la spesa pubblica per garantire le loro prebende, risponde
l’esercito degli evasori fiscali, il
disavanzo pubblico è cresciuto per saziare la fame dei nostri notabili ed è
destinato a crescere in un rincorrersi perverso di tasse e spesa fino a quando
tale fame non sarà saziata, cioè mai. La spesa pubblica è fuori controllo
proprio perché chi dovrebbe por mano alla sua riduzione, dovrebbe ridurre i
propri privilegi, figuriamoci! Qualcuno sostiene che ci è mancata la
rivoluzione protestante e che non siamo forgiati al senso del dovere. Qualunque
sia il motivo, è un fatto che siamo come siamo e non è facile addomesticarci,
che la politica e l’antipolitica che oggi si contrappongono con faccia feroce
valgono per quello che sono, l’inutile esercizio di due categorie che vengono
declinate nelle estreme espressioni di due eccessi negativi, il solo esercizio
di cui siamo capaci. Facciamo politica nei modi e con gli esiti che sono sotto
gli occhi di tutti, rispondiamo con un’antipolitica inconcludente che
partorisce un populismo velleitario. E’ inutile dolersi di come siamo e
pretendere di redimerci. Siamo fatti a modo nostro e non è detto che sia il
modo peggiore, ma non è il caso di farci illusioni sventolando propositi che
non sappiamo realizzare, facendo appello al superamento del nostro particolare
che resta il solo obiettivo di cui siamo capaci, attribuendoci patenti di un
moralismo improbabile che reclama dai nostri potenti una etica adamantina che
noi cittadini comuni per primi non possediamo. Quello che riusciamo a realizzare
è solo un inganno, il brontolio intollerabile e ipocrita di un nuovo sovrano,
l’opinione pubblica rancorosa e diseducata al diritto, che straparla di buoni
propositi e di morale, che agita un giustizialismo con cui tacita la propria
coscienza e crocifigge il prossimo, che liquida l’avversario di turno attraverso
la scorciatoia giudiziaria, che rinnega il patto fondativo dello Stato di
diritto a favore della giustizia ideologica.