La verità
Sul concetto di verità si sono cimentate le più belle menti della storia del pensiero umano. Esiste la verità parmenidea e quella protagoriana, quella assiomatica che vive nell’iperuranio e quella aristotelica che va sottoposta a verifica. Da sempre l’uomo si è interrogato sull’autentico significato della verità nella presunzione che la verità esista. E, grazie a questa presunzione, ha provato via via a impegnarsi in una ricerca così ardua. La filosofia ha fondato il cosiddetto senso comune su principi universali, l’”episteme”, pretendendo di fissarli in una dimensione immutabile. Ma i principi universali non sono forse essi stessi il risultato di quello che è stato convenuto nel corso dei secoli dall’uomo e non hanno dunque la precarietà propria dei limiti dell’uomo? La nostra presunzione ci porta ad avventurarci laddove non è possibile scoprire niente di certo dimenticando la lezione di Pitagora che, nonostante predicasse di non sapere nulla, aveva capito tutto più degli altri.
Giustamente Emanuele Severino ci ricorda che la natura, come hanno convenuto persino filosofi di diversa impostazione ideologica come i realisti e gli idealisti, esiste indipendentemente dalle singole coscienze degli individui umani e che la sua sola dipendenza è legata alla coscienza trascendentale. Ha avviato inoltre con il suo solito acume una riflessione sulla nascita di un nuovo concetto di verità dei nostri giorni. Ha illustrato il nuovo realismo che si rivolge alla scienza moderna e che non è più il senso comune dell’episteme, ma ha giustamente fatto notare che “la realtà, che per la scienza esisterebbe egualmente anche se l’uomo non esistesse, è per definizione ciò che non è osservato dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa esperienza”. Non essendoci esperienza umana di ciò che esiste, conclude Severino, affermare che la realtà esiste indipendentemente dall’uomo è un atto di fede. Ed ecco dunque che anche il realismo della scienza moderna ci rimanda alla coscienza trascendentale.
Mentre riflettevo sulla “lezione” di Severino mi sono imbattuto nella lettura di quell’autentico contenitore di buon senso che è Ostellino. E’, questo concretissimo intellettuale, un liberale che ha un senso humiano della realtà e che ancora una volta non si è smentito. Egli scrive: “ Guardo al mondo con gli strumenti della cultura liberale: verificabilità, nella realtà, delle asserzioni politiche (teoria empirica della conoscenza); convinzione che nessuno possieda la Verità, e tanto meno la possa imporre ad altri, ma che le “tante verità” siano disperse fra milioni di uomini che, perseguendo i propri interessi, realizzano, “inconsapevolmente”, un beneficio comune ( pluralismo di valori e loro mediazione attraverso il processo politico democratico); fiducia nelle libertà e nell’autonomia dei singoli individui ad esercitarle, in un quadro di regole la cui sola funzione sia di evitare che si arrechino danno l’un l’altro (Stato di diritto)”. Ecco, Ostellino ci indica le sole verità di cui possiamo disporre, le uniche adatte a governare la nostra vita, seppure con il dubbio costantemente accucciato ai piedi della nostra ragione. Di queste verità ci ha parlato Aristotele con la sua virtù dianoetica, la “phronesis”, la saggezza protesa a ispirare le virtù necessarie per realizzare il giusto mezzo della vita, lo stesso Aristotele che ci ha parlato anche di un’altra virtù dianoetica, la “sophia”, la sapienza che ci proietta verso una dimensione trascendentale alla ricerca di una realtà divina attraverso l’unico mezzo che si può permettere l’uomo nella sua ricerca di verità: la fede. Purché sia chiaro che quella che cerchiamo con la fede è una verità che non imponiamo a nessuno e che non pretende di essere assoluta se non nell’ambito dello spirito di ciascun individuo coltivato attraverso le imperscrutabili vie dell’anima.
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