Gli intoccabili
Ho letto di un noto personaggio che, penetrando la guardia di un suo avversario in ginocchio, lo ha colpito con un colpo basso. E’ la metafora di una battuta infame e di pessimo gusto rivolta da uno dei nostri opinionisti più spietati ad un uomo che la stoltezza e le sfortunate vicende stanno condannando ad un tramonto inesorabile e quasi voluto, e da la misura dell’imbarbarimento dei nostri costumi e dell’impunità di certi accidiosi in servizio permanente cui tutto è permesso e che, consapevolmente o meno, tutto possono a dispetto della decenza e del rispetto umano.
Autoreferenziali, volano guidati dalle loro velleità e, ritenendosi intellettualmente e moralmente superiori, irridono, scherniscono, provocano, decidono quello che è giusto e ingiusto, alimentano l’odio della gente insufflandola con la loro verità tanto più colpevole quanto più è indirizzata a un potpourri privo di riferimenti culturali, manipolano la notizia e la trasformano in fatto autentico. Sono gli intoccabili che, sappiano o non sappiano, pontificano su tutto, parlano dell’alfa e dell’omega, trasformano la doxa in episteme non attraverso la sintesi dialettica ma attraverso la loro arroganza assiomatica.
Sono i mostri creati da tutti noi, da me per primo che certamente una colpa l’avrò se sono inciampato nella mia vicenda giudiziaria e ho fornito materia per deliri orgasmici ai sacerdoti del giustizialismo, dai politici se sono stati capaci di far nascere dalle loro viscere un Di Pietro, dalla nostra cultura se a Saviano, al di là dei suoi innegabili meriti, è stato attribuito il ruolo di oracolo dalla cui bocca può uscire tutto, dalla magistratura se ha permesso che sulla propria larga maggioranza di benemeriti servitori dello Stato che lavorano tra mille difficoltà pur di assicurare uno straccio di giustizia in un Paese vocato all’ingiustizia, si siano potuti innestare lividi personaggi maestri del pregiudizio e dell’abuso che hanno fatto del loro protagonismo una rendita di posizione, da tutti noi se ci lasciamo rappresentare da questi politici teleguidati dai santuari di appartenenza, che scorazzano sotto le lenzuola e sui tetti delle case romane, che predicano il rigore e razzolano tra prebende e privilegi, che chiedono sacrifici a chi è fuori dal giro che conta e assicurano sinecure a se stessi e ai propri familiari, che gridano al pericolo che la società corre sotto l’incalzare delle organizzazioni criminali e sono essi stessi organizzati in consorterie e oligarchiche caste chiuse.
Gli intoccabili hanno potuto scorazzare impunemente nella nostra vita perché dalla nostra vita è stata bandita l’intelligenza e la capacità di pensare, perché abbiamo accettato modelli comportamentali omologati, un vuoto che è stato colmato con la cultura dei luoghi comuni e delle verità decise altrove e calateci dall’alto.
Jennifer, Samantha, Natascia che hanno sostituito Maria, Caterina, Angela, ci parlano di radici divelte, di provincialismo, di scimmiottamento di ciò che non ci appartiene, del nostro passato che rinneghiamo, delle nostre peculiarità sostituite dalla globalizzazione del nulla.
Non c’è più niente che ci identifichi come appartenenti allo stesso ceppo e, nell’anniversario dei 150 anni dell’unità d’Italia, quando dovremmo riconoscerci in una delle tradizioni culturali più nobili della storia dell’uomo, annaspiamo, ci scopriamo impreparati a collegarci col nostro passato, a parlare a noi stessi, intrappolati come siamo nella nostra inconsistenza e guidati dalle parole d’ordine di una ovvietà drammaticamente anonima su cui imperversa la cialtroneria degli intoccabili maître à penser.
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giovedì 24 febbraio 2011
mercoledì 16 febbraio 2011
Il festival dei luoghi comuni
Nella manifestazione di giorno 13 le donne ( un milione dicono gli organizzatori, pardon le organizzatrici ) sono scese in tutte le piazze delle città d’Italia e dell’estero per rivendicare il diritto alla loro dignità e pronunciare slogan contro chi attenta alle loro virtù che, tanto per cambiare, si identifica con l’incorreggibile, recidivo Cavaliere campione di pruderie pecorecce. Ora, perché non ci siano equivoci, sono tra quelli che ritiene che il Cavaliere abbia fatto il suo tempo, non tanto perché si concede sbandate sessuali ma perché non è capace di dare alle sue pulsioni amatorie il riserbo che queste esigono . Il capo di un governo che non sa governare le proprie scappatelle, quali garanzie può offrire a chi gli chiede di governare il Paese? Da l’idea di uno sprovveduto pasticcione che non ha l’accortezza di mettere in atto tutte le cautele che servano a tenere separato il privato dal pubblico, specie sapendo che cosa si nasconde dietro questo privato ed evitare che sia data in pasto agli appetiti del mondo intero una realtà imbarazzante che ci fa deridere e compatire. Un discorso a parte è quello che riguarda l’accusa di suoi rapporti con minorenni, è un’accusa così grave da suggerire di tenersene alla larga aspettando l’esito del lavoro dei magistrati. Premesso questo, che c’entra la bulimia del premier con l’onore delle donne? Le donne, pur essendosi da sempre dovute confrontare con i maschi che spesso non sono stati rispettosi delle loro prerogative, non sono un universo a parte, sono un emisfero dell’umanità le cui colpe e i cui meriti si intrecciano con le colpe e i meriti dell’altro emisfero, in un gioco delle parti in cui il leitmotiv non è mai stato il predominio dell’uno sull’altra ma la convivenza, anzi la complicità, in cui ciascuno ha recitato il proprio ruolo, anche quando è sembrato che le donne soccombessero. Il tentativo del ‘68 di una guerra santa contro l’altro sesso ha fatto il suo tempo e si incarta nelle sue contraddizioni, il corpo e la sessualità rivendicati come spregiudicati e provocatori valori di riferimento nella battaglia per la conquista della dignità e dell’ autonomia della donna, oggi diventano tabù da non violare nella battaglia a difesa di un altro concetto di dignità e insospettiscono circa le reali motivazioni della protesta. Da sempre la donna ha saputo come affrontare al meglio il suo rapporto con l’uomo, con colui cioè col quale è destinata a condividere buona parte del suo tragitto terreno, che sarà padre dei suoi figli, il compagno dei giorni del crepuscolo, perché dovrebbe dunque impostare il rapporto in maniera conflittuale? Chiaramente c’è stata sempre una tendenza a privilegiare l’uomo rispetto alla donna nella gestione delle responsabilità nei vari settori della società ma essa è solo frutto di una consuetudine dura a morire che va corretta con un costante, intelligente cambio di rotta, senza dare a questo sforzo necessariamente una connotazione conflittuale. Anche quando le donne sono parse defilate rispetto agli uomini, tutti sappiamo che esse hanno avuto un ruolo importante tanto da far dire che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, si tratta di far cambiare le cose in modo da giungere a poter dire che dietro una grande donna c’è un grande uomo e il gioco è fatto. Quando si dice, con una espressione insieme suggestiva e inelegante, che la donna è seduta sulla propria fortuna, mi piace pensare che si intenda attribuire all’ esclusivo ambito della donna la gestione della sua sessualità e le scelte morali che ne conseguono. Ciascuno sceglie le vie che considera utili al raggiungimento dell’obiettivo che si prefigge e la donna che possiede gli strumenti per giudicare che cosa è giusto e cosa no, che cosa, nella valutazione del suo interesse e della sua dimensione morale, è opportuno che faccia, decide nella maniera che ritiene più consona alla propria realizzazione. La storia ci riporta a grandi donne che hanno centrato grossi obiettivi con le loro grazie, e la loro spregiudicatezza ha suscitato più ammirazione che scandalo. Certo le signorine che si propongono a Berlusconi sono degli imbarazzanti esempi di una dimensione miserabile, epigoni in sedicesimo di un mondo che ha ben altra grandezza, lucide amministratrici di un cinismo con cui non si fanno scrupolo di mirare al proprio interesse, facendo a gara a chi arraffa di più e di più irretisce un uomo in caduta libera e alle prese con le proprie debolezze. Non ci scandalizziamo certo per le condotte di queste signorine, magari ci scandalizziamo di più per la dozzinalità dei loro valori di riferimento, e comunque è affar loro, ma è anche affar loro se con queste condotte non si guadagnano il rispetto della gente e le donne che in piazza questo rispetto reclamano demonizzando Berlusconi, dovrebbero sapere che la dignità passa attraverso le condotte di ciascuno di noi, non attraverso le condotte altrui , in questo caso di Berlusconi. Valeva la pena intestare una così oceanica manifestazione ad un falso problema col rischio di apparire strumentali? Berlusconi è ormai un uomo terribilmente solo, malinconicamente solo, nonostante lo stuolo di cortigiani incapaci e avidi da cui è circondato, che evoca un sentimento di tristezza per questo suo tramonto inesorabile, ma non evoca certo l’impressione di attentare alla dignità della donna. Se a qualcosa ha attentato il Cavaliere, quella è la sua dignità e con essa la sua credibilità, l’enorme patrimonio di aspettative che aveva suscitato e che, condivise o no, costituivano l’appeal di un leader di cui si sentiva il bisogno. Avere privato la scena politica, così avara di forti figure di riferimento, di un protagonista e del suo progetto, quella si, è stata la grande colpa di Berlusconi, una colpa che non gli si può perdonare.
Nella manifestazione di giorno 13 le donne ( un milione dicono gli organizzatori, pardon le organizzatrici ) sono scese in tutte le piazze delle città d’Italia e dell’estero per rivendicare il diritto alla loro dignità e pronunciare slogan contro chi attenta alle loro virtù che, tanto per cambiare, si identifica con l’incorreggibile, recidivo Cavaliere campione di pruderie pecorecce. Ora, perché non ci siano equivoci, sono tra quelli che ritiene che il Cavaliere abbia fatto il suo tempo, non tanto perché si concede sbandate sessuali ma perché non è capace di dare alle sue pulsioni amatorie il riserbo che queste esigono . Il capo di un governo che non sa governare le proprie scappatelle, quali garanzie può offrire a chi gli chiede di governare il Paese? Da l’idea di uno sprovveduto pasticcione che non ha l’accortezza di mettere in atto tutte le cautele che servano a tenere separato il privato dal pubblico, specie sapendo che cosa si nasconde dietro questo privato ed evitare che sia data in pasto agli appetiti del mondo intero una realtà imbarazzante che ci fa deridere e compatire. Un discorso a parte è quello che riguarda l’accusa di suoi rapporti con minorenni, è un’accusa così grave da suggerire di tenersene alla larga aspettando l’esito del lavoro dei magistrati. Premesso questo, che c’entra la bulimia del premier con l’onore delle donne? Le donne, pur essendosi da sempre dovute confrontare con i maschi che spesso non sono stati rispettosi delle loro prerogative, non sono un universo a parte, sono un emisfero dell’umanità le cui colpe e i cui meriti si intrecciano con le colpe e i meriti dell’altro emisfero, in un gioco delle parti in cui il leitmotiv non è mai stato il predominio dell’uno sull’altra ma la convivenza, anzi la complicità, in cui ciascuno ha recitato il proprio ruolo, anche quando è sembrato che le donne soccombessero. Il tentativo del ‘68 di una guerra santa contro l’altro sesso ha fatto il suo tempo e si incarta nelle sue contraddizioni, il corpo e la sessualità rivendicati come spregiudicati e provocatori valori di riferimento nella battaglia per la conquista della dignità e dell’ autonomia della donna, oggi diventano tabù da non violare nella battaglia a difesa di un altro concetto di dignità e insospettiscono circa le reali motivazioni della protesta. Da sempre la donna ha saputo come affrontare al meglio il suo rapporto con l’uomo, con colui cioè col quale è destinata a condividere buona parte del suo tragitto terreno, che sarà padre dei suoi figli, il compagno dei giorni del crepuscolo, perché dovrebbe dunque impostare il rapporto in maniera conflittuale? Chiaramente c’è stata sempre una tendenza a privilegiare l’uomo rispetto alla donna nella gestione delle responsabilità nei vari settori della società ma essa è solo frutto di una consuetudine dura a morire che va corretta con un costante, intelligente cambio di rotta, senza dare a questo sforzo necessariamente una connotazione conflittuale. Anche quando le donne sono parse defilate rispetto agli uomini, tutti sappiamo che esse hanno avuto un ruolo importante tanto da far dire che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, si tratta di far cambiare le cose in modo da giungere a poter dire che dietro una grande donna c’è un grande uomo e il gioco è fatto. Quando si dice, con una espressione insieme suggestiva e inelegante, che la donna è seduta sulla propria fortuna, mi piace pensare che si intenda attribuire all’ esclusivo ambito della donna la gestione della sua sessualità e le scelte morali che ne conseguono. Ciascuno sceglie le vie che considera utili al raggiungimento dell’obiettivo che si prefigge e la donna che possiede gli strumenti per giudicare che cosa è giusto e cosa no, che cosa, nella valutazione del suo interesse e della sua dimensione morale, è opportuno che faccia, decide nella maniera che ritiene più consona alla propria realizzazione. La storia ci riporta a grandi donne che hanno centrato grossi obiettivi con le loro grazie, e la loro spregiudicatezza ha suscitato più ammirazione che scandalo. Certo le signorine che si propongono a Berlusconi sono degli imbarazzanti esempi di una dimensione miserabile, epigoni in sedicesimo di un mondo che ha ben altra grandezza, lucide amministratrici di un cinismo con cui non si fanno scrupolo di mirare al proprio interesse, facendo a gara a chi arraffa di più e di più irretisce un uomo in caduta libera e alle prese con le proprie debolezze. Non ci scandalizziamo certo per le condotte di queste signorine, magari ci scandalizziamo di più per la dozzinalità dei loro valori di riferimento, e comunque è affar loro, ma è anche affar loro se con queste condotte non si guadagnano il rispetto della gente e le donne che in piazza questo rispetto reclamano demonizzando Berlusconi, dovrebbero sapere che la dignità passa attraverso le condotte di ciascuno di noi, non attraverso le condotte altrui , in questo caso di Berlusconi. Valeva la pena intestare una così oceanica manifestazione ad un falso problema col rischio di apparire strumentali? Berlusconi è ormai un uomo terribilmente solo, malinconicamente solo, nonostante lo stuolo di cortigiani incapaci e avidi da cui è circondato, che evoca un sentimento di tristezza per questo suo tramonto inesorabile, ma non evoca certo l’impressione di attentare alla dignità della donna. Se a qualcosa ha attentato il Cavaliere, quella è la sua dignità e con essa la sua credibilità, l’enorme patrimonio di aspettative che aveva suscitato e che, condivise o no, costituivano l’appeal di un leader di cui si sentiva il bisogno. Avere privato la scena politica, così avara di forti figure di riferimento, di un protagonista e del suo progetto, quella si, è stata la grande colpa di Berlusconi, una colpa che non gli si può perdonare.
venerdì 11 febbraio 2011
Del giustizialismo e dintorni
Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, inaugurando a Montecitorio la mostra “ Cesare Beccaria, la civiltà dei diritti “, si è espresso così: “Un moderno sistema penale, giudiziario e penitenziale raggiunge il suo scopo fondamentale di assicurare la giustizia e tutelare la sicurezza dei cittadini quando vengono contemporaneamente garantite la effettività della pena e l’efficace rieducazione del condannato “.
Beccaria fu un uomo di eccezionale e profetica visione del diritto che impresse una svolta epocale alla concezione di giustizia e di dignità dell’individuo. In un’epoca in cui imperava la condanna a morte egli sostenne che lo Stato non aveva diritto di sottrarre la vita a un suo cittadino e, in seguito alla pubblicazione del suo trattato “Dei delitti e delle pene”, la Russia abolì la pena di morte.
Teorizzò che il reato dovesse essere valutato per il danno che esso procura alla sicurezza e all’interesse della comunità e non per l’intenzione, che il peccato dovesse essere diviso dal reato, che l’imputato dovesse essere considerato innocente fino a prova contraria, che il processo dovesse essere breve e la carcerazione preventiva andasse inflitta in casi eccezionali, che la pena dovesse essere si certa, per educare al rispetto della legge e per tutelare la sicurezza della comunità, ma anche proporzionata all’entità del delitto e soprattutto immediata, affinché apparisse evidente il rapporto di causa ed effetto tra reato e pena e non si desse l’impressione che una pena comminata dopo tanto tempo assumesse la connotazione di uno spettacolo.
Chi, leggendo il pensiero di Beccaria, si limita a porre alla base di “ un moderno sistema penale, giudiziario e penitenziale “ che assicuri la giustizia e tuteli la sicurezza dei cittadini “, l’ effettività della pena e la rieducazione attraverso di essa del condannato, non coglie appieno lo spirito del pensiero di Beccaria il quale si preoccupava, è vero, che la pena fosse certa ma anche che fosse “ pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalla legge “. Deve essere pubblica perché il giudice è “ protettore e ministro delle leggi “ e deve garantire che una pena non diventi un fatto privato e dunque una violenza del più forte nei confronti del più debole col rischio di tramutarsi in una forma di persecuzione. Deve essere pronta perché sia evidente la relazione di causa ed effetto tre reato e pena e se ne colga l’efficacia. Anche perché una pena ritardata finisce per essere una pena ingiusta inflitta ad un uomo che, dopo un processo che in Italia può durare anche decenni, non è più lo stesso uomo e ha patito un supplemento di pena connessa all’angoscia procurata da un’attesa così lunga.
Deve essere necessaria e proporzionata ai delitti. Qui Beccaria opera una distinzione, fondamentale in diritto, tra reato e peccato, affermando che “ l’unica vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errano coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi li commette “. Il reato proprio perché si traduce in un danno per la società va punito dallo Stato, mentre il peccato va confinato in un ambito puramente privato e di esso l’uomo deve rispondere alla propria coscienza e a Dio. Beccaria si esprime esattamente così : “ Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l’Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? “. E ancora: “ La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da essere finiti non può senza rivelazione sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini punire quanto Iddio perdona, e perdonare quanto Iddio punisce? “. Nonostante Beccaria pare proprio di si, vista la confusione che oggi viene fatta tra peccato e reato, tra giustizia e virtù con vere e proprie invasioni di campo nel regno del privato che pur non “ procurando danno alla nazione “, è portato sul banco degli imputati e offerto alla gogna pubblica. E vista la disinvoltura con cui vengono confezionate nuove figure di reato allorché l’appartenenza ad un contesto di valori eticamente censurabili ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in atti penalmente rilevanti, è considerata reato e come tale perseguita.
A che cosa si riferisce Beccaria a proposito di reato lo si evince quando egli parla del ”processo informativo” dove il misfatto deve essere individuato senza alcun dubbio, l’indagato deve essere ritenuto colpevole del delitto ascrittogli attraverso una raccolta obiettiva e indifferente delle prove, la pena deve essere certa ma irrorata nella giusta misura e nel giusto modo, non come avviene purtroppo spesso in Italia dove essa è ritenuta certa anche quando è incerta la colpa, dove all’imputato viene fatta pagare, oltre alla colpa del reato, la colpa del suo modo d’ essere per il solo torto d’essere, l’intenzione piuttosto che l’azione, una maggiore pena rispetto al dovuto come nel caso di chi subisce anni di carcere preventivo in conto a sentenze che possono essere anche di assoluzione o nel caso di chi è costretto ad attendere in carcere che si realizzi lo status di definitivo per poter godere dei benefici di legge. O come avviene quando il compito attribuito da Beccaria alla pena di educare il condannato a rispettare la legge è vanificato da una carcerazione vendicativa in cui si perde il valore di riferimento di uno Stato credibile e maturano le condizioni perché il detenuto sia indotto a perseverare nella sua vocazione a delinquere anziché educato a rispettare la legge. E infine come avviene quando uomini costretti a vivere venti ore su ventiquattro tra le mura di una cella senza poter contare su strutture culturali, sociali e ludiche alternative alla inflessibile monotonia di giornate sempre uguali, maturano e mettono in atto propositi suicidi.
Chi parla di giustizia e in nome di essa invoca un inasprimento della pena e la rieducazione del condannato che le nostre strutture carcerarie non sono in grado di garantire, sappia di che cosa parla e non scambi giustizialismo per giustizia.
Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, inaugurando a Montecitorio la mostra “ Cesare Beccaria, la civiltà dei diritti “, si è espresso così: “Un moderno sistema penale, giudiziario e penitenziale raggiunge il suo scopo fondamentale di assicurare la giustizia e tutelare la sicurezza dei cittadini quando vengono contemporaneamente garantite la effettività della pena e l’efficace rieducazione del condannato “.
Beccaria fu un uomo di eccezionale e profetica visione del diritto che impresse una svolta epocale alla concezione di giustizia e di dignità dell’individuo. In un’epoca in cui imperava la condanna a morte egli sostenne che lo Stato non aveva diritto di sottrarre la vita a un suo cittadino e, in seguito alla pubblicazione del suo trattato “Dei delitti e delle pene”, la Russia abolì la pena di morte.
Teorizzò che il reato dovesse essere valutato per il danno che esso procura alla sicurezza e all’interesse della comunità e non per l’intenzione, che il peccato dovesse essere diviso dal reato, che l’imputato dovesse essere considerato innocente fino a prova contraria, che il processo dovesse essere breve e la carcerazione preventiva andasse inflitta in casi eccezionali, che la pena dovesse essere si certa, per educare al rispetto della legge e per tutelare la sicurezza della comunità, ma anche proporzionata all’entità del delitto e soprattutto immediata, affinché apparisse evidente il rapporto di causa ed effetto tra reato e pena e non si desse l’impressione che una pena comminata dopo tanto tempo assumesse la connotazione di uno spettacolo.
Chi, leggendo il pensiero di Beccaria, si limita a porre alla base di “ un moderno sistema penale, giudiziario e penitenziale “ che assicuri la giustizia e tuteli la sicurezza dei cittadini “, l’ effettività della pena e la rieducazione attraverso di essa del condannato, non coglie appieno lo spirito del pensiero di Beccaria il quale si preoccupava, è vero, che la pena fosse certa ma anche che fosse “ pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalla legge “. Deve essere pubblica perché il giudice è “ protettore e ministro delle leggi “ e deve garantire che una pena non diventi un fatto privato e dunque una violenza del più forte nei confronti del più debole col rischio di tramutarsi in una forma di persecuzione. Deve essere pronta perché sia evidente la relazione di causa ed effetto tre reato e pena e se ne colga l’efficacia. Anche perché una pena ritardata finisce per essere una pena ingiusta inflitta ad un uomo che, dopo un processo che in Italia può durare anche decenni, non è più lo stesso uomo e ha patito un supplemento di pena connessa all’angoscia procurata da un’attesa così lunga.
Deve essere necessaria e proporzionata ai delitti. Qui Beccaria opera una distinzione, fondamentale in diritto, tra reato e peccato, affermando che “ l’unica vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errano coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi li commette “. Il reato proprio perché si traduce in un danno per la società va punito dallo Stato, mentre il peccato va confinato in un ambito puramente privato e di esso l’uomo deve rispondere alla propria coscienza e a Dio. Beccaria si esprime esattamente così : “ Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l’Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? “. E ancora: “ La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da essere finiti non può senza rivelazione sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini punire quanto Iddio perdona, e perdonare quanto Iddio punisce? “. Nonostante Beccaria pare proprio di si, vista la confusione che oggi viene fatta tra peccato e reato, tra giustizia e virtù con vere e proprie invasioni di campo nel regno del privato che pur non “ procurando danno alla nazione “, è portato sul banco degli imputati e offerto alla gogna pubblica. E vista la disinvoltura con cui vengono confezionate nuove figure di reato allorché l’appartenenza ad un contesto di valori eticamente censurabili ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in atti penalmente rilevanti, è considerata reato e come tale perseguita.
A che cosa si riferisce Beccaria a proposito di reato lo si evince quando egli parla del ”processo informativo” dove il misfatto deve essere individuato senza alcun dubbio, l’indagato deve essere ritenuto colpevole del delitto ascrittogli attraverso una raccolta obiettiva e indifferente delle prove, la pena deve essere certa ma irrorata nella giusta misura e nel giusto modo, non come avviene purtroppo spesso in Italia dove essa è ritenuta certa anche quando è incerta la colpa, dove all’imputato viene fatta pagare, oltre alla colpa del reato, la colpa del suo modo d’ essere per il solo torto d’essere, l’intenzione piuttosto che l’azione, una maggiore pena rispetto al dovuto come nel caso di chi subisce anni di carcere preventivo in conto a sentenze che possono essere anche di assoluzione o nel caso di chi è costretto ad attendere in carcere che si realizzi lo status di definitivo per poter godere dei benefici di legge. O come avviene quando il compito attribuito da Beccaria alla pena di educare il condannato a rispettare la legge è vanificato da una carcerazione vendicativa in cui si perde il valore di riferimento di uno Stato credibile e maturano le condizioni perché il detenuto sia indotto a perseverare nella sua vocazione a delinquere anziché educato a rispettare la legge. E infine come avviene quando uomini costretti a vivere venti ore su ventiquattro tra le mura di una cella senza poter contare su strutture culturali, sociali e ludiche alternative alla inflessibile monotonia di giornate sempre uguali, maturano e mettono in atto propositi suicidi.
Chi parla di giustizia e in nome di essa invoca un inasprimento della pena e la rieducazione del condannato che le nostre strutture carcerarie non sono in grado di garantire, sappia di che cosa parla e non scambi giustizialismo per giustizia.
venerdì 4 febbraio 2011
Il Paese reale
In questi giorni mi sono sorpreso a ricordare momenti vissuti in un periodo della mia vita ricca di progetti che in tanti contavamo di realizzare. Era il periodo in cui si affacciava la speranza che finalmente si riuscissero a concretizzare le condizioni di una nuova stagione coltivata nella mente di tanti sognatori e mai venuta alla luce.
Le delusioni accumulate avevano tenuto questi uomini lontani dalla partecipazione e li avevano esiliati in una sorta di Aventino dall’alto del quale guardavano con rassegnata disapprovazione a quello che accadeva sotto di loro, assordati e confusi dal clamore degli arrembanti tribuni che reclamavano a gran voce la distribuzione di una ricchezza sottratta ai nostri figli in nome di un welfare che non potevamo permetterci. Rannicchiati nelle loro utopie assistevano allo straripamento di una retorica sociale che faceva a pugni con una realtà che esigeva rigore e onestà intellettuale e subivano impotenti la sinecura dei privilegiati e l’esempio di una classe politica che aveva dimenticato gli insegnamenti dei padri del pensiero cattolico e liberale. Già all’epoca del Risorgimento l’ispirazione a superiori ideali albergava sia nella Chiesa cattolica che in laici come Mazzini e Cavour. Pio IX, seppure strumentalmente, in una sua enciclica si doleva: “ Chi non vede e pienamente capisce come l’umana società, sciolta dai vincoli della religione e della vera giustizia, non possa certamente prefiggersi altro, fuorché lo scopo di procacciare ed aumentare ricchezze né seguire altra legge nelle sue azioni, se non l’indomita cupidigia dell’animo di servire ai propri comodi e piaceri “. Papa Mastai lamentava che i vizi della società derivassero dall’assenza di vincoli religiosi e riteneva che il ritorno ai giusti valori si realizzasse con il ritorno all’assolutismo temporale della Chiesa, rivendicazione la quale sminuiva la credibilità della fonte ma non la portata della denuncia che possiamo far rientrare a pieno titolo nel patrimonio morale dei nostri uomini migliori e si salda con l’etica degli Sturzo, dei De Gasperi e degli Einaudi. La Chiesa con la sua dottrina sociale ha saputo superare l’ oscurantismo ideale che l’affliggeva riconoscendo che i valori religiosi e laici possono convivere, che il profitto non è scandaloso ed ha una sua funzione sociale e l’individuo che si attiva per creare ricchezza personale, se la reimpiega in progetti produttivi, svolge un ruolo di solidarietà e di realizzazione del bene comune.
La risposta liberale a questo messaggio è stata purtroppo balbettante fino a quando la nascita di nuove formazioni politiche non fece rifiorire le speranze degli esuli dell’utopia e li indusse a scendere dal loro Aventino, a ritenere che l’Italia si sarebbe finalmente affrancata dai vincoli che ne avevano frenato la maturazione e che un sano pragmatismo liberale si sarebbe finalmente affermato. Sennonché, ahinoi, le cose sono andate come tutti sappiamo e i disvalori lamentati da Pio IX sono tragicamente rimasti attuali presentando un panorama di rovine che ci consegna ad un tramonto economico e sociale.
Il futuro dei giovani, razziato dai padri, è senza speranza, gli stessi padri faticano a sopravvivere, i valori etici hanno subito un degrado mai conosciuto prima testimoniato dalla disinvoltura delle signorine che si offrono al Principe e dalla disponibilità dei genitori che le spingono a concedersi, la classe politica, senza distinzioni, offre di se un’immagine che è insieme vuota di contenuti e priva del senso della vergogna allorché ostenta una sfrontatezza cui non ha diritto, i diversi poteri dello Stato hanno perso la bussola in una corsa a invadere campi altrui, il diritto è diventato una variabile interpretata secondo le convenienze delle diverse parti e la giustizia è concessa agli appartenenti alle giuste consorterie. Una simile Italia ha la sua foto di famiglia in uomini come Padoa-Schioppa che ci rimandano ai personaggi migliori della nostra storia, alle testimonianze della nostra arte, alle bellezze di una terra senza pari, agli esempi splendidi e isolati di una generosa solidarietà, ma anche negli squallidi funamboli della morale comune che ci rimandano ad una società marcia, irredimibile e stratificata nei suoi difetti che non sa riconoscersi nei suoi uomini migliori e ci propone l’antica contrapposizione tra Cesare e suburra.
Il parterre dell’Aula Magna della Bocconi che rende omaggio a Padoa-Schioppa non è, giusto quanto afferma De Bortoli, “ la proiezione ambiziosa ed esclusiva di una elite distaccata dal Paese reale “, ma non è nemmeno, come sempre sostiene De Bortoli, l’immagine che meritiamo noi italiani, è semmai la proiezione del Paese reale distaccato dalla sua elite, perché il contributo di cultura e di intelligenza offerto da uomini come Padoa-Schioppa rientra nella tradizione di un Paese che riesce ad esprimere splendide individualità di cui non è all’altezza.
Non c’è motivo per essere ottimisti.
In questi giorni mi sono sorpreso a ricordare momenti vissuti in un periodo della mia vita ricca di progetti che in tanti contavamo di realizzare. Era il periodo in cui si affacciava la speranza che finalmente si riuscissero a concretizzare le condizioni di una nuova stagione coltivata nella mente di tanti sognatori e mai venuta alla luce.
Le delusioni accumulate avevano tenuto questi uomini lontani dalla partecipazione e li avevano esiliati in una sorta di Aventino dall’alto del quale guardavano con rassegnata disapprovazione a quello che accadeva sotto di loro, assordati e confusi dal clamore degli arrembanti tribuni che reclamavano a gran voce la distribuzione di una ricchezza sottratta ai nostri figli in nome di un welfare che non potevamo permetterci. Rannicchiati nelle loro utopie assistevano allo straripamento di una retorica sociale che faceva a pugni con una realtà che esigeva rigore e onestà intellettuale e subivano impotenti la sinecura dei privilegiati e l’esempio di una classe politica che aveva dimenticato gli insegnamenti dei padri del pensiero cattolico e liberale. Già all’epoca del Risorgimento l’ispirazione a superiori ideali albergava sia nella Chiesa cattolica che in laici come Mazzini e Cavour. Pio IX, seppure strumentalmente, in una sua enciclica si doleva: “ Chi non vede e pienamente capisce come l’umana società, sciolta dai vincoli della religione e della vera giustizia, non possa certamente prefiggersi altro, fuorché lo scopo di procacciare ed aumentare ricchezze né seguire altra legge nelle sue azioni, se non l’indomita cupidigia dell’animo di servire ai propri comodi e piaceri “. Papa Mastai lamentava che i vizi della società derivassero dall’assenza di vincoli religiosi e riteneva che il ritorno ai giusti valori si realizzasse con il ritorno all’assolutismo temporale della Chiesa, rivendicazione la quale sminuiva la credibilità della fonte ma non la portata della denuncia che possiamo far rientrare a pieno titolo nel patrimonio morale dei nostri uomini migliori e si salda con l’etica degli Sturzo, dei De Gasperi e degli Einaudi. La Chiesa con la sua dottrina sociale ha saputo superare l’ oscurantismo ideale che l’affliggeva riconoscendo che i valori religiosi e laici possono convivere, che il profitto non è scandaloso ed ha una sua funzione sociale e l’individuo che si attiva per creare ricchezza personale, se la reimpiega in progetti produttivi, svolge un ruolo di solidarietà e di realizzazione del bene comune.
La risposta liberale a questo messaggio è stata purtroppo balbettante fino a quando la nascita di nuove formazioni politiche non fece rifiorire le speranze degli esuli dell’utopia e li indusse a scendere dal loro Aventino, a ritenere che l’Italia si sarebbe finalmente affrancata dai vincoli che ne avevano frenato la maturazione e che un sano pragmatismo liberale si sarebbe finalmente affermato. Sennonché, ahinoi, le cose sono andate come tutti sappiamo e i disvalori lamentati da Pio IX sono tragicamente rimasti attuali presentando un panorama di rovine che ci consegna ad un tramonto economico e sociale.
Il futuro dei giovani, razziato dai padri, è senza speranza, gli stessi padri faticano a sopravvivere, i valori etici hanno subito un degrado mai conosciuto prima testimoniato dalla disinvoltura delle signorine che si offrono al Principe e dalla disponibilità dei genitori che le spingono a concedersi, la classe politica, senza distinzioni, offre di se un’immagine che è insieme vuota di contenuti e priva del senso della vergogna allorché ostenta una sfrontatezza cui non ha diritto, i diversi poteri dello Stato hanno perso la bussola in una corsa a invadere campi altrui, il diritto è diventato una variabile interpretata secondo le convenienze delle diverse parti e la giustizia è concessa agli appartenenti alle giuste consorterie. Una simile Italia ha la sua foto di famiglia in uomini come Padoa-Schioppa che ci rimandano ai personaggi migliori della nostra storia, alle testimonianze della nostra arte, alle bellezze di una terra senza pari, agli esempi splendidi e isolati di una generosa solidarietà, ma anche negli squallidi funamboli della morale comune che ci rimandano ad una società marcia, irredimibile e stratificata nei suoi difetti che non sa riconoscersi nei suoi uomini migliori e ci propone l’antica contrapposizione tra Cesare e suburra.
Il parterre dell’Aula Magna della Bocconi che rende omaggio a Padoa-Schioppa non è, giusto quanto afferma De Bortoli, “ la proiezione ambiziosa ed esclusiva di una elite distaccata dal Paese reale “, ma non è nemmeno, come sempre sostiene De Bortoli, l’immagine che meritiamo noi italiani, è semmai la proiezione del Paese reale distaccato dalla sua elite, perché il contributo di cultura e di intelligenza offerto da uomini come Padoa-Schioppa rientra nella tradizione di un Paese che riesce ad esprimere splendide individualità di cui non è all’altezza.
Non c’è motivo per essere ottimisti.
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