Sono stato troppo ottimista quando, apprendendo della sospensione dello sciopero della fame e della sete di Peppe Fontana, ho tirato un sospiro di sollievo perché convinto che un epilogo drammatico fosse stato scongiurato. E invece no, le conseguenze dell’iniziativa di Peppe, seppure non sono deflagrate nella violenza della morte, si stanno consumando nello stillicidio di una quotidianità spietata inflitta allo spirito prima ancora che al fisico.
Ho notizia che Peppe Fontana, in coincidenza con la cessazione dello sciopero della fame e della sete, è stato tradotto nel carcere punitivo di Badu e Carros.
Peppe ha fatto pervenire quello che egli chiama un “Comunicato di lotta e denuncia da Guantanamo” in cui con la solita prosa arrembante e colorita descrive la sofferenza della traduzione e ne denuncia le motivazioni disegnando scenari apocalittici, temendo progetti oscuri e prefigurando epiloghi inquietanti. Non posso condividere la denuncia di “un occulto programma che mi vuole eliminare” perché mi rifiuto di pensare che anche in un sistema carcerario ottuso e vendicativo come quello italiano si possa giungere fino a tanto.
Comprendo lo stato d’animo di Peppe, la sua frustrazione e so che cosa avviene nell’animo di un uomo in carcere da 16 anni, ho sperimentato di persona che una sensibilità particolare attanaglia il cuore ed enfatizza le vicende e dunque la prudenza è d’obbligo ma posso testimoniare e sottoscrivere il contesto denunciato da Peppe Fontana. Posso testimoniare che lo sciopero della fame è una sfida impari dall’esito scontato, fosse anche il decesso dello scioperante, perché due scioperi della fame mi hanno condotto sulle soglie dell’aldilà senza che l’amministrazione carceraria se ne preoccupasse più di tanto, posso testimoniare che in carcere si può morire di una patologia trascurata non per dolo ma per sciatteria e insensibilità, perché sono rimasto preda della mia polimiosite per venti giorni giungendo alla quasi paralisi degli arti infiammati, al digiuno per impossibilità di deglutire, al soffocamento per impossibilità di respirare, alla tumefazione del mio organismo piagato sia all’interno che all’esterno, prima di essere sottoposto a visita specialistica che ha diagnosticato la gravità della mia patologia e raccomandato il ricovero immediato, ho sperimentato la crudeltà non so se casuale o voluta di una traduzione durata dodici ore inflittami in luogo del ricovero immediato e con totale disprezzo per la mia condizione. Vorrei dire a Peppe che il carcere è un luogo che si può affrontare nei modi più disparati e che il suo modo di affrontarlo è il più nobile, è un luogo dove persino la sua cultura può apparire irritante e farlo sentire come un corpo estraneo e che se egli ha deciso di combattere deve mettere in bilancio una maggiore sofferenza e saperla accettare. Ma dico anche che persino in carcere la sofferenza, se gratuita e procurata, non si giustifica. Io non so se la direttrice del carcere di Pagliarelli è il demonio descritto da Peppe Fontana, anche se della sua intransigenza ho avuto contezza in occasione della mia ultima permanenza a Pagliarelli, ma so che in un confronto tra i due la peggio tocca a Peppe, perché così vanno le cose del mondo come ci insegna Trasimaco secondo cui “la giustizia non è niente altro che l’interesse del più forte”. E so anche che in questa vicenda ci sono coincidenze che destano sospetti, episodi poco chiari e che la traduzione a Badu e Carros, carcere che inquieta le notti di chi lo ha vissuto, immediatamente succeduta ad uno sciopero della fame letto dall’amministrazione carceraria come una sfida portata alla propria autorità, sa tanto di rappresaglia, di occasione colta per un regolamento di conti nei confronti di un detenuto che ha osato portare fuori dalle mura del carcere le problematiche della detenzione. Non voglio fare dietrologia né cacce alle streghe ma rivendicare l’opportunità di un indagine sulla vicenda e, come suggerito da qualcuno, di una segnalazione alla Corte Europea per i diritti dell’Uomo.
Intanto a Peppe va tutta la mia solidarietà e il mio affetto, lo sprone a tenere duro e l’invito a viaggiare negli spazi che egli ben conosce e di cui abbiamo tante volte parlato:anche se non è credente gli sta toccando in sorte di vivere la Pasqua nel suo spirito più alto.
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