La società giudiziaria, figlia di un
giacobinismo che ha alimentato una certa cultura giustizialista, sta
conoscendo una nuova stagione sulla spinta del populismo
imperversante. E' un fenomeno che Luciano Violante ha denunciato in
una sua lectio magistralis temendone la deriva autoritaria. Essa ha
dato prova di sé già all'epoca di mani pulite e non si è
risparmiata tutte le volte che se ne è presentata l'occasione. Una
delle battaglie che l'ha vista più impegnata è la lotta alla mafia
condotta con un approccio fideistico talmente smaccato da eludere il
diritto e ignorare i fatti punendo piuttosto che il reato lo status,
una condizione nuova e infamante che marchia a fuoco definitivamente
la pelle del malcapitato.
La società giudiziaria è dunque
innanzitutto lo Stato che opera nei confronti dell'imputato mafioso
una vera e propria sospensione dei diritti e crea la figura del
reietto. E' una figura che viene costruita già in carcere con una
detenzione punitiva e vendicativa che contravviene il dettato
costituzionale secondo cui la pena non deve essere disumana e deve
tendere alla rieducazione. Quanto invece essa sia disumana e
diseducativa è testimoniato dal regime del 41 bis, una infamia che
con l'alibi della sicurezza, nega al detenuto i diritti elementari
dovuti ad un essere umano e ogni possibilità di riscatto. L'enormità
di questa infamia è descritta nella lettera con cui un detenuto mi
ha raccontato il suo colloquio con il figlioletto di pochi anni:
“....questo dolcissimo figlio di tre anni non voleva saperne di
lasciarmi dopo i dieci minuti durante i quali la legge mi consente di
tenerlo in braccio. Il bambino si ribellò e l'agente, mosso a
compassione, mi permise di tenerlo ancora un poco abbracciato al mio
petto, dopo di che la madre riuscì a strapparmelo e ad attiralo al
di là del vetro divisorio. Egli mi sorrise e tese le braccia verso
di me, incontrò il vetro e batte le mani credendo in un gioco,
sorrise ancora e ancora batté le mani, poi il sorriso si tramutò in
singulto, le mani continuarono a battere e ancora a battere sempre
più freneticamente contro il vetro fino a quando un pianto dirotto
accompagnato dall'invocazione del mio nome sgorgò dai suoi occhioni
sgomenti.”
La società giudiziaria siamo noi
cittadini che diventiamo il luogo dell'intolleranza laddove il
reietto, anche se non è ancora provata la sua colpevolezza, è
sottoposto al giudizio del magistrato della porta accanto che lo
condanna sulla base degli spifferi che fuoriescono dalle segrete
carte della Procura. Siamo noi che neghiamo la possibilità di
riscatto a chi ha scontato la pena e deve fare i conti con il
sospetto, l'emarginazione e l'impossibilità di trovare
un'alternativa che lo affranchi dalla tentazione del crimine. Ed è
così che la legge del contrappasso finisce per presentare il conto.
Con la legge sulla legittima difesa la Società giudiziaria ha
intonato il canto del cigno e in una sorta di Termidoro ha
ghigliottinato la magistratura non perché spaventata dalla
spietatezza di Robespierre ma al contrario perché ha ritenuto che
essa non si fosse sufficientemente dispiegata. Ha rivendicato a sé
il diritto di fare giustizia e ha rivoluzionato il concetto di
valore: il patrimonio vale una vita e va difeso anche a costo di
essa. Ha operato una rivoluzione copernicana che ha invertito i
valori e, mai sazia dei suoi eccessi, tenta ad ogni piè sospinto di
soddisfare la sua bulimia alzando sempre più l'asticella dei suoi
appetiti. Stiamo precipitando verso una inciviltà giuridica che ci
fa tornare al Pentateuco, dimentichi del patrimonio dei lumi
sciaguratamente relegati in soffitta.
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