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venerdì 21 settembre 2018

L'Europa dei Rodomonte


Prima la signora Bachelet che ha messo nel mirino l’Italia, adesso il signor Asselborn, ministro degli esteri del Lussemburgo che aggredisce  Salvini reo di avere affermato che in Italia non abbiamo bisogno di schiavi e che se proprio ci tiene sia il Lussemburgo ad accoglierli, e finisce in bellezza con un perentorio “et merde, alors”. Sembra proprio che quando si tratta dell’Italia tutti si scoprano dei giganti. Ce lo meritiamo perché non abbiamo mai saputo proporci in Europa in modo credibile, abbiamo sottovalutato il nostro ruolo in seno ad essa, abbiamo gestito i nostri conti in maniera da dovere piatire continuamente deroghe alle regole comunitarie, ci siamo fatti la fama di Paese poco affidabile e il risultato è che viene facile anche all’ultimo arrivato mancarci di rispetto. La responsabilità chiaramente non è dei nuovi governanti ma di chi li ha preceduti, di coloro cioè che, impegnati a specchiarsi nelle acque del loro narcisismo e a darsi battaglia circumnavigando il proprio ombelico, non hanno saputo dare alla loro azione politica un respiro internazionale, non hanno saputo fare nulla per evitare la retrocessione dell’Italia nella fascia dei Paesi ininfluenti e anzi hanno fatto di tutto con la loro inadeguatezza perché ciò accadesse. Ormai fuori gioco, questi signori sanno solo guardare scandalizzati all’avanzata dei” barbari” e tentare di screditarli tifando per Bachelet e Asselborn, e poco importa se, così facendo, si schierano contro il loro Paese ma soprattutto contro una onesta narrazione dei fatti. Se parliamo dei nuovi arrivati le cose non vanno meglio. Seppure incolpevoli del disastro che hanno ereditato, essi sono colpevoli delle conseguenze che sta producendo il loro dilettantismo incapace di affrontare l’emergenza con il buon senso e il pragmatismo che la situazione impone. Anche loro infatti, sudditi di una ideologia stracciona, invece di studiare e trovare soluzioni adatte alla bisogna, invece di fare analisi lucide e adottare decisioni che servano a sanare il disastro che hanno trovato, non hanno saputo fare di meglio che cavalcare la rabbia della gente inseguendo traguardi irreali e, se parliamo di Europa, ingaggiando un braccio di ferro che non possiamo permetterci e che ci aliena le simpatie dei più. Il risultato è che persino un signor Asselborn qualsiasi si può permettere di trattarci come ha fatto. Perché poi? Se è vero che Salvini ha usato il termine schiavi, è pure vero che il signor Asselborn ci ha marciato in assoluta malafede. Quando infatti Salvini, oltre a illudersi che le nostre donne procreeranno nuove forze lavoro, afferma che l’Italia non vuole accogliere nuovi schiavi, non intende etichettare spregiativamente i migranti ma fare l’ovvia considerazione che una accoglienza offerta in un contesto che non è in grado di integrarli dignitosamente, rischia di avviare questi disgraziati ai lavori più degradanti se non addirittura al malaffare e all’accattonaggio, in definitiva ad una nuova forma di schiavitù. E l’invito al Lussemburgo di accoglierli a casa propria non può suonare offensivo per un Paese che si dice solidale. Dove è dunque lo scandalo? Si ha come l’impressione che non si riesca a perdonare a Salvini la colpa di esistere e gliela si voglia far pagare censurandolo anche quando dice cose ragionevoli.  Non è una forma di razzismo oltre che una mancanza di garbo istituzionale quella che il signor Asselborn riserva al nostro ministro quando lo contesta immeritatamente e lo apostrofa con quei toni, lanciando addirittura il microfono sul tavolo? Per una volta che Salvini riesce a non andare fuori dal seminato ci pensa il signor Asselborg a non farci mancare atteggiamenti da bullo. Che lezioni ci può dare poi un signore che rivendica al Lussemburgo il merito di una della pagine più nere della migrazione europea? Quando l’ineffabile ministro degli esteri lussemburghese si vanta dell’accoglienza riservata dal Lussemburgo ai migranti italiani nel dopoguerra, sembra non rendersi conto che i nostri poveri compatrioti in quelle contrade vissero una vita disumana e molti di loro, 136 per la precisione, morirono nell’inferno di Marcinelle. Di che cosa dunque mena vanto il signor Asselborn e Salvini che fa? Proprio lui che ci ha abituato ad un profilo tonitruante quando gioca in casa, non ha saputo rimbeccare questo galantuomo col giusto piglio. Siamo messi veramente bene! Fortunatamente la spacconata del signor Asselborn ci salva dal gradino più basso, c’è chi sta peggio di noi, ma ciò non toglie che siamo incapaci e imbelli.

sabato 15 settembre 2018

Totò Cuffaro e la sua nuova coscienza


Presso l’aula dell’ARS intestata a Piersanti Mattarella si è svolto nei giorni scorsi un convegno sul sistema carcerario e sul disagio dei familiari dei detenuti, promosso dall’on. Figuccia, relatori Salvatore Cuffaro, ex detenuto, come recitava la locandina, il prof. Fiandaca ed altri che si sono succeduti con i loro interventi. Sia il parterre che il tavolo della presidenza offrivano un bel colpo d’occhio. La gente era tanta, come accade quando scende in pista l’ex presidente della Regione Siciliana, e confesso che una così folta presenza mi ha fatto dubitare della sincerità di quella partecipazione. In un Paese come l’Italia in cui i benpensanti, bene che vada, storcono la bocca quando si parla di carcere e, se sono in vena di giustizia sommaria, chiedono che la cella diventi la tomba del detenuto, non c’è da farsi molte illusioni. Cuffaro gode tuttora di parecchio seguito ed era difficile distinguere tra l’affetto che gli ancora numerosi seguaci nutrono per lui e l’interesse sincero per l’argomento oggetto del dibattito. La materia non è facile da affrontare, bisogna essersi sporcati veramente le mani per sapere di cosa si parla, bisogna avere sudato lacrime e sangue per sapere esprimere appieno l’idea di che cosa è la condizione del detenuto. Non è solo il corpo che viene imprigionato, è l’anima la vera vittima di una necrosi che uccide lo spirito giorno per giorno e ti trascina in un abisso senza ritorno se una mano pietosa non ti soccorre. Ebbene i relatori del convegno hanno saputo rendere il senso di questa tragedia, hanno preso per mano l’uditorio e l’hanno guidato passo passo nei sentieri  di un percorso accidentato narrandone tutte le asperità e ricevendone in cambio una partecipazione attenta e commossa. Sul versante strettamente tecnico il prof. Fiandaca ha messo l’accento su alcune storture del sistema carcerario denunciando l’uso strumentale della legalità e la mancanza di coraggio della politica che si guarda bene dal prendere il toro per le corna e affrontare come si deve un problema tanto serio, temendo una ricaduta negativa in termini elettorali. Il prof. Vitale e la prof.ssa Lo Curto ci hanno esortato a non dimenticare che i detenuti sono delle persone, che la solidarietà è una moneta che rende più di quanto non pretenda, che tutti siamo colpevoli, persino i magistrati i quali, invece che nell’eremo delle loro coscienze, a volte decidono secondo categorie ideologiche e di appartenenza, che la detenzione non può essere fatta scontare in modo afflittivo ma deve sapere afferrare per i capelli uomini che possono essere redenti e a volte salvati da se stessi prima che decidano di farla finita. I toni sono stati toccanti e hanno avuto l’apogeo nell’intervento di una ragazza disabile che dalla sua carrozzina ci ha ammoniti contro il demone del pregiudizio. E naturalmente la chiusura è stata tutta per Totò Cuffaro al quale nessuno deve insegnare quali sono le corde da toccare. Ha descritto la sua sofferenza ma soprattutto la sofferenza dei suoi ex compagni di pena che non ha dimenticato e ai quali offre il contributo del suo impegno e della sua testimonianza mettendosi in gioco anche a rischio di essere azzannato dai forcaioli di turno. Chi come me ha vissuto lo stesso destino di Cuffaro si è sentito a casa, al riparo dalla damnatio, risarcito dopo anni di emarginazione, in quell’aula che porta il nome di un martire, ha percepito che quel martire da lassù approvava, che in quell’aula si stava onorando la pietà mentre fuori da essa andava in scena il  siparietto di una sparuta pattuglia di irriducibili che si esibiva nel solito, logoro copione all’insegna dell’intolleranza.      

giovedì 13 settembre 2018

L'ONU ovvero dell'improntitudine


La signora Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’ONU di recente nomina, ha esordito col  botto. Secondo lei l’Italia sarebbe un Paese razzista al punto da dovere essere sottoposto alla verifica degli ispettori dall’ONU. Da che mondo è mondo il bue chiama cornuto l’asino e allo stesso modo la signora Bachelet, rappresentante di un organismo che ha perduto la sua credibilità avvitandosi in imbarazzanti contraddizioni proprio sul tema dei diritti civili, pretende di impartire lezioni ad un Paese come l’Italia. Non sempre si possono condividere le sparate di Salvini ma stavolta non si può non essere d’accordo con lui quando afferma che l’ONU non si può permettere di accusare di razzismo un Paese che è in testa alla lista delle nazioni che prestano opera di volontariato in tutti gli angoli del mondo e che sul proprio suolo ha fatto approdare e in parte accolto più migranti di qualsiasi altro Paese europeo. Né noi italiani possiamo essere liquidati come razzisti solo perché qualche idiota, che rappresenta solo una infinitesima parte di quel caritatevole popolo che è il popolo italiano, si abbandona a qualche gesto di intolleranza. La signora Bachelet ha tutto il diritto di esprimere il suo dissenso sul provvedimento che ha bloccato a bordo della Diciotti 177 migranti per diversi giorni, ma non quello di disporre una ispezione sul nostro territorio trattandoci alla stregua di uno dei tanti Paesi dall’incerta connotazione democratica di cui trabocca l’ONU e contro cui proprio l’ONU, chissà perché, si guarda bene dall’intervenire. Da noi, grazie al cielo, gli anticorpi funzionano, esiste una magistratura che vigila e che nella fattispecie si è mossa prontamente agendo contro quello che, a torto o a ragione, ha ritenuto un reato, non c’è dunque bisogno di gendarmi esterni, abbiamo le nostre istituzioni che funzionano egregiamente e sanno essere un efficace baluardo dei diritti. Evidentemente gli occhiuti commissari dello strabico organismo internazionale si sono distratti e hanno colpito il bersaglio sbagliato rivolgendo all’Italia accuse che dovrebbero rivolgere all’Europa per il cinismo con cui essa ignora il problema dell’emigrazione riversandolo tutto sulle spalle dell’Italia. E’ bene chiarire che un conto è la disposizione discutibile di trattenere per giorni centinaia di migranti sulla Diciotti, un altro conto è correre ai ripari chiudendo i nostri porti alle navi che soccorrono i migranti esattamente come fanno tanti altri Paesi affacciati nel Mediterraneo e quelli dell’entroterra che chiudono le loro frontiere. Il nostro giro di vite serve proprio a risolvere nell’interesse dei migranti un problema che da soli non siamo in grado di affrontare o che rischiamo di affrontare male e non può diventare pretesto per mettere  in dubbio la nostra umanità e la nostra proverbiale disponibilità all’accoglienza. In base a quale principio i migranti dovrebbero approdare tutti sulle nostre coste e perché, se tentiamo di impedirlo, siamo accusati di razzismo, mentre  invece gli altri Paesi possono tranquillamente adottare una politica di respingimento senza dovere temere nulla? E’ una domanda che poniamo alla solerte signora Bachelet  rappresentante di un organismo che ha eletto alla presidenza del Comitato Consultivo del Consiglio dei diritti umani nientemeno che l’Arabia Saudita paladina, come tutti sappiamo, dei diritti umani. Ed è una domanda alla quale dovrebbero rispondere certi personaggi della nostra sinistra i quali, come al solito, hanno perduto una buona occasione per tacere.