Prima la signora Bachelet che ha messo nel mirino l’Italia,
adesso il signor Asselborn, ministro degli esteri del Lussemburgo che
aggredisce Salvini reo di avere
affermato che in Italia non abbiamo bisogno di schiavi e che se proprio ci
tiene sia il Lussemburgo ad accoglierli, e finisce in bellezza con un
perentorio “et merde, alors”. Sembra proprio che quando si tratta dell’Italia
tutti si scoprano dei giganti. Ce lo meritiamo perché non abbiamo mai saputo
proporci in Europa in modo credibile, abbiamo sottovalutato il nostro ruolo in
seno ad essa, abbiamo gestito i nostri conti in maniera da dovere piatire
continuamente deroghe alle regole comunitarie, ci siamo fatti la fama di Paese
poco affidabile e il risultato è che viene facile anche all’ultimo arrivato
mancarci di rispetto. La responsabilità chiaramente non è dei nuovi governanti
ma di chi li ha preceduti, di coloro cioè che, impegnati a specchiarsi nelle
acque del loro narcisismo e a darsi battaglia circumnavigando il proprio
ombelico, non hanno saputo dare alla loro azione politica un respiro
internazionale, non hanno saputo fare nulla per evitare la retrocessione
dell’Italia nella fascia dei Paesi ininfluenti e anzi hanno fatto di tutto con
la loro inadeguatezza perché ciò accadesse. Ormai fuori gioco, questi signori
sanno solo guardare scandalizzati all’avanzata dei” barbari” e tentare di
screditarli tifando per Bachelet e Asselborn, e poco importa se, così facendo,
si schierano contro il loro Paese ma soprattutto contro una onesta narrazione
dei fatti. Se parliamo dei nuovi arrivati le cose non vanno meglio. Seppure incolpevoli
del disastro che hanno ereditato, essi sono colpevoli delle conseguenze che sta
producendo il loro dilettantismo incapace di affrontare l’emergenza con il buon
senso e il pragmatismo che la situazione impone. Anche loro infatti, sudditi di
una ideologia stracciona, invece di studiare e trovare soluzioni adatte alla
bisogna, invece di fare analisi lucide e adottare decisioni che servano a
sanare il disastro che hanno trovato, non hanno saputo fare di meglio che
cavalcare la rabbia della gente inseguendo traguardi irreali e, se parliamo di
Europa, ingaggiando un braccio di ferro che non possiamo permetterci e che ci
aliena le simpatie dei più. Il risultato è che persino un signor Asselborn
qualsiasi si può permettere di trattarci come ha fatto. Perché poi? Se è vero
che Salvini ha usato il termine schiavi, è pure vero che il signor Asselborn ci
ha marciato in assoluta malafede. Quando infatti Salvini, oltre a illudersi che
le nostre donne procreeranno nuove forze lavoro, afferma che l’Italia non vuole
accogliere nuovi schiavi, non intende etichettare spregiativamente i migranti
ma fare l’ovvia considerazione che una accoglienza offerta in un contesto che
non è in grado di integrarli dignitosamente, rischia di avviare questi
disgraziati ai lavori più degradanti se non addirittura al malaffare e
all’accattonaggio, in definitiva ad una nuova forma di schiavitù. E l’invito al
Lussemburgo di accoglierli a casa propria non può suonare offensivo per un
Paese che si dice solidale. Dove è dunque lo scandalo? Si ha come l’impressione
che non si riesca a perdonare a Salvini la colpa di esistere e gliela si voglia
far pagare censurandolo anche quando dice cose ragionevoli. Non è una forma di razzismo oltre che una
mancanza di garbo istituzionale quella che il signor Asselborn riserva al
nostro ministro quando lo contesta immeritatamente e lo apostrofa con quei
toni, lanciando addirittura il microfono sul tavolo? Per una volta che Salvini riesce
a non andare fuori dal seminato ci pensa il signor Asselborg a non farci
mancare atteggiamenti da bullo. Che lezioni ci può dare poi un signore che
rivendica al Lussemburgo il merito di una della pagine più nere della
migrazione europea? Quando l’ineffabile ministro degli esteri lussemburghese si
vanta dell’accoglienza riservata dal Lussemburgo ai migranti italiani nel
dopoguerra, sembra non rendersi conto che i nostri poveri compatrioti in quelle
contrade vissero una vita disumana e molti di loro, 136 per la precisione,
morirono nell’inferno di Marcinelle. Di che cosa dunque mena vanto il signor
Asselborn e Salvini che fa? Proprio lui che ci ha abituato ad un profilo
tonitruante quando gioca in casa, non ha saputo rimbeccare questo galantuomo col
giusto piglio. Siamo messi veramente bene! Fortunatamente la spacconata del
signor Asselborn ci salva dal gradino più basso, c’è chi sta peggio di noi, ma
ciò non toglie che siamo incapaci e imbelli.
Visualizzazioni totali
venerdì 21 settembre 2018
sabato 15 settembre 2018
Totò Cuffaro e la sua nuova coscienza
Presso l’aula dell’ARS intestata a Piersanti Mattarella si è
svolto nei giorni scorsi un convegno sul sistema carcerario e sul disagio dei
familiari dei detenuti, promosso dall’on. Figuccia, relatori Salvatore Cuffaro,
ex detenuto, come recitava la locandina, il prof. Fiandaca ed altri che si sono
succeduti con i loro interventi. Sia il parterre che il tavolo della presidenza
offrivano un bel colpo d’occhio. La gente era tanta, come accade quando scende
in pista l’ex presidente della Regione Siciliana, e confesso che una così folta
presenza mi ha fatto dubitare della sincerità di quella partecipazione. In un
Paese come l’Italia in cui i benpensanti, bene che vada, storcono la bocca quando
si parla di carcere e, se sono in vena di giustizia sommaria, chiedono che la
cella diventi la tomba del detenuto, non c’è da farsi molte illusioni. Cuffaro
gode tuttora di parecchio seguito ed era difficile distinguere tra l’affetto
che gli ancora numerosi seguaci nutrono per lui e l’interesse sincero per
l’argomento oggetto del dibattito. La materia non è facile da affrontare, bisogna
essersi sporcati veramente le mani per sapere di cosa si parla, bisogna avere
sudato lacrime e sangue per sapere esprimere appieno l’idea di che cosa è la
condizione del detenuto. Non è solo il corpo che viene imprigionato, è l’anima
la vera vittima di una necrosi che uccide lo spirito giorno per giorno e ti
trascina in un abisso senza ritorno se una mano pietosa non ti soccorre. Ebbene
i relatori del convegno hanno saputo rendere il senso di questa tragedia, hanno
preso per mano l’uditorio e l’hanno guidato passo passo nei sentieri di un percorso accidentato narrandone tutte
le asperità e ricevendone in cambio una partecipazione attenta e commossa. Sul
versante strettamente tecnico il prof. Fiandaca ha messo l’accento su alcune storture
del sistema carcerario denunciando l’uso strumentale della legalità e la
mancanza di coraggio della politica che si guarda bene dal prendere il toro per
le corna e affrontare come si deve un problema tanto serio, temendo una
ricaduta negativa in termini elettorali. Il prof. Vitale e la prof.ssa Lo Curto
ci hanno esortato a non dimenticare che i detenuti sono delle persone, che la
solidarietà è una moneta che rende più di quanto non pretenda, che tutti siamo
colpevoli, persino i magistrati i quali, invece che nell’eremo delle loro
coscienze, a volte decidono secondo categorie ideologiche e di appartenenza, che
la detenzione non può essere fatta scontare in modo afflittivo ma deve sapere afferrare
per i capelli uomini che possono essere redenti e a volte salvati da se stessi
prima che decidano di farla finita. I toni sono stati toccanti e hanno avuto
l’apogeo nell’intervento di una ragazza disabile che dalla sua carrozzina ci ha
ammoniti contro il demone del pregiudizio. E naturalmente la chiusura è stata
tutta per Totò Cuffaro al quale nessuno deve insegnare quali sono le corde da
toccare. Ha descritto la sua sofferenza ma soprattutto la sofferenza dei suoi
ex compagni di pena che non ha dimenticato e ai quali offre il contributo del
suo impegno e della sua testimonianza mettendosi in gioco anche a rischio di
essere azzannato dai forcaioli di turno. Chi come me ha vissuto lo stesso
destino di Cuffaro si è sentito a casa, al riparo dalla damnatio, risarcito
dopo anni di emarginazione, in quell’aula che porta il nome di un martire, ha
percepito che quel martire da lassù approvava, che in quell’aula si stava onorando
la pietà mentre fuori da essa andava in scena il siparietto di una sparuta pattuglia di
irriducibili che si esibiva nel solito, logoro copione all’insegna
dell’intolleranza.
giovedì 13 settembre 2018
L'ONU ovvero dell'improntitudine
La signora Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’ONU
di recente nomina, ha esordito col
botto. Secondo lei l’Italia sarebbe un Paese razzista al punto da dovere
essere sottoposto alla verifica degli ispettori dall’ONU. Da che mondo è mondo
il bue chiama cornuto l’asino e allo stesso modo la signora Bachelet, rappresentante
di un organismo che ha perduto la sua credibilità avvitandosi in imbarazzanti
contraddizioni proprio sul tema dei diritti civili, pretende di impartire
lezioni ad un Paese come l’Italia. Non sempre si possono condividere le sparate
di Salvini ma stavolta non si può non essere d’accordo con lui quando afferma
che l’ONU non si può permettere di accusare di razzismo un Paese che è in testa
alla lista delle nazioni che prestano opera di volontariato in tutti gli angoli
del mondo e che sul proprio suolo ha fatto approdare e in parte accolto più
migranti di qualsiasi altro Paese europeo. Né noi italiani possiamo essere
liquidati come razzisti solo perché qualche idiota, che rappresenta solo una
infinitesima parte di quel caritatevole popolo che è il popolo italiano, si
abbandona a qualche gesto di intolleranza. La signora Bachelet ha tutto il
diritto di esprimere il suo dissenso sul provvedimento che ha bloccato a bordo
della Diciotti 177 migranti per diversi giorni, ma non quello di disporre una
ispezione sul nostro territorio trattandoci alla stregua di uno dei tanti Paesi
dall’incerta connotazione democratica di cui trabocca l’ONU e contro cui
proprio l’ONU, chissà perché, si guarda bene dall’intervenire. Da noi, grazie
al cielo, gli anticorpi funzionano, esiste una magistratura che vigila e che nella
fattispecie si è mossa prontamente agendo contro quello che, a torto o a
ragione, ha ritenuto un reato, non c’è dunque bisogno di gendarmi esterni,
abbiamo le nostre istituzioni che funzionano egregiamente e sanno essere un
efficace baluardo dei diritti. Evidentemente gli occhiuti commissari dello
strabico organismo internazionale si sono distratti e hanno colpito il
bersaglio sbagliato rivolgendo all’Italia accuse che dovrebbero rivolgere
all’Europa per il cinismo con cui essa ignora il problema dell’emigrazione riversandolo
tutto sulle spalle dell’Italia. E’ bene chiarire che un conto è la disposizione
discutibile di trattenere per giorni centinaia di migranti sulla Diciotti, un
altro conto è correre ai ripari chiudendo i nostri porti alle navi che
soccorrono i migranti esattamente come fanno tanti altri Paesi affacciati nel
Mediterraneo e quelli dell’entroterra che chiudono le loro frontiere. Il nostro
giro di vite serve proprio a risolvere nell’interesse dei migranti un problema
che da soli non siamo in grado di affrontare o che rischiamo di affrontare male
e non può diventare pretesto per mettere in dubbio la nostra umanità e la nostra
proverbiale disponibilità all’accoglienza. In base a quale principio i migranti
dovrebbero approdare tutti sulle nostre coste e perché, se tentiamo di
impedirlo, siamo accusati di razzismo, mentre invece gli altri Paesi possono tranquillamente
adottare una politica di respingimento senza dovere temere nulla? E’ una domanda
che poniamo alla solerte signora Bachelet
rappresentante di un organismo che ha eletto alla presidenza del
Comitato Consultivo del Consiglio dei diritti umani nientemeno che l’Arabia
Saudita paladina, come tutti sappiamo, dei diritti umani. Ed è una domanda alla
quale dovrebbero rispondere certi personaggi della nostra sinistra i quali,
come al solito, hanno perduto una buona occasione per tacere.
Iscriviti a:
Post (Atom)