I 5 Stelle e il Carroccio sono arrivati a un passo dal
governare ma non sono riusciti a varcare la soglia di Palazzo Chigi a causa di
un nome, quello di Paolo Savona. Attorno a questo nome, proposto da Giuseppe
Conte, Presidente del Consiglio incaricato, per la poltrona di ministro
dell’economia, e bocciato dal Presidente Mattarella, si è consumata la frattura
fra quest’ultimo e Di Maio e Salvini che hanno fatto della candidatura di
Savona un punto irrinunciabile per il
varo del governo. Come è possibile che per un nome si sia arrivati a tanto? La
verità è che dietro lo scontro sul nome si nasconde uno scontro su una diversa
visione politica. Il programma dei nuovi aspiranti a governare prevede un
programma economico che desta perplessità sul piano della disciplina di
bilancio con progetti realizzabili attingendo a risorse pubbliche e facendo
crescere il debito pubblico. Chi contesta questo programma sostiene che con la
sua realizzazione si determina una eterogenesi dei fini, poiché la crescita del
debito pubblico produce il risultato di fiaccare la nostra economia a scapito
proprio dei più deboli che con quei progetti si vogliono tutelare. E teorizza
che, se si vogliono veramente realizzare progetti solidali, non si può che puntare su una maggiore crescita ottenibile
riducendo, non aumentando il debito pubblico, e liberando le risorse necessarie
a promuovere le attività produttive e garantire un pur modesto ammortizzatore
sociale. Lo scenario dipinto da chi muove queste critiche lascia intravedere
addirittura il pericolo che una politica di spesa non sostenuta dalla crescita
possa condurre alla bancarotta. Questi timori, seppure non così apocalittici,
sono condivisibili ma onestà vuole che siano condivisibili anche le riserve di
Salvini e Di Maio nei confronti di una Europa la cui intransigente politica di
austerity definita da Francesco Forte “arroganza del razionalismo
tecnocratico”, gestisce il sogno europeo piegandolo agli interessi dei più
forti e tradendo la vocazione solidaristica che l’ha fatto nascere. In questa
direzione l’Italia deve far sentire la sua voce ma per farlo deve avere le
carte in regola. Certamente i nostri
conti in disordine e il programma di Salvini e Di Maio non sono un buon
viatico. Detto questo rimane il fatto che con tutte le loro contraddizioni i 5
Stelle e il Carroccio erano legittimati a governare. A questa legittimazione fa
da contraltare la legittimazione del Capo dello Stato al quale è assegnata
dalla Costituzione la prerogativa di nominare i ministri che gli vengono proposti
e quindi anche di bocciare quelli che non condivide. Nel caso del professor
Savona, il Capo dello Stato ha ritenuto che le posizioni euroscettiche di
quest’ultimo ( e, sospetta chi scrive, i programmi di Salvini e Di Maio )
potessero spaventare gli investitori e farli fuggire dagli investimenti in
Italia facendo mancare risorse indispensabili a tenere in piedi la macchina
dello Stato. Lo ha detto chiaramente, temeva un aumento del debito pubblico, un
aumento degli interessi per i mutui, un pericolo per i risparmi degli italiani.
E temeva anche l’uscita dell’Italia dall’euro con le conseguenze che è
pleonastico elencare. Alcune avvisaglie si erano cominciate a palesare con lo
spread in salita e i mercati in picchiata. L’allarme del Presidente dunque si
può capire e la sua decisione appare legittima sul piano istituzionale perché
fa riferimento ad una prerogativa prevista dalla costituzione e si preoccupa
degli interessi del Paese, ma desta perplessità sul piano della opportunità in
chi vede nella sua decisione una invasione di campo. Due posizioni, come si
vede, altrettanto legittime anche se attestate su visioni diverse, che
avrebbero dovuto essere conciliate con senso di responsabilità, e che invece
sono state avvelenate da accuse reciproche. I 5 Stelle e il Carroccio accusano
Mattarella di obbedire ai diktat di alcune cancellerie europee e di avere
indebitamente impedito un legittimo percorso democratico intervenendo a gamba
tesa su una decisione politica di chi ha vinto le elezioni, il Presidente
sostiene di avere esercitato una sua correttissima prerogativa e di avere messo
sull’avviso per tempo sulla sua decisione contraria al nome di Savona, senza
ricevere obiezioni, offrendo la sua disponibilità a prendere in considerazione
un altro nominativo e dimostrando così di non avere voluto ostacolare la
formazione del governo. Nell’entourage
del Presidente della Repubblica si guarda con stupore e amarezza al mistero
della strana intransigenza di Salvini sul nome di Savona che da molti viene
letta come uno stratagemma per fare saltare il banco e andare a elezioni
anticipate. Da una parte dunque l’accusa che il Capo dello Stato non abbia
fatto gli interessi dell’Italia, dall’altra il sospetto che si sia cercato il
casus belli per meschini calcoli elettoralistici, ma, diciamolo chiaramente,
quello che sgomenta è l’arroganza e la mancanza di rispetto che viene riservata
alla più alta carica dello Stato e
l’assenza del senso di responsabilità, nel momento forse più delicato della
nostra storia repubblicana, da parte di chi si riempie la bocca con proclami
sull’interesse della collettività. Come si vede un bel quadro in cui la sola a
fare le spese è l’Italia precipitata in una crisi politica e, con la richiesta
di impeachment, in una crisi istituzionale. Non c’è che dire, siamo in buone
mani
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lunedì 28 maggio 2018
martedì 22 maggio 2018
Il linciaggio, nuova frontiera della giustizia
Nei giorni scorsi sono stati celebrati gli anniversari delle morti di Enzo Tortora e del commissario
Calabresi, due date tragiche che evocano due casi analoghi di linciaggio
giudiziario e mediatico. Tortora fu giustiziato moralmente dal PM Marmo che lo
accusò di collusione con la camorra ottenendone la condanna in primo grado
sulla base delle dichiarazioni dei pentiti Barra e Pandico alle quali non si
preoccupò di trovare riscontri oggettivi. Come finì lo sappiamo tutti, per Tortora con l’assoluzione piena e
definitiva dopo un calvario di diversi
anni che lo condusse alla morte prematura per crepacuore, per Marmo in modo
inglorioso, con la smentita del suo impianto accusatorio ma soprattutto con il
peso di quella terribile affermazione da lui fatta durante la requisitoria
quando chiamò Tortora “cinico mercante di morte”. Il caso Tortora non è il solo
svarione nel quale è incorso il PM Marmo visto che fu ancora lui a sostenere
l’accusa per traffico di stupefacenti contro il soldato Raiola il quale fu assolto
ma non poté evitare che la sua vita andasse a rotoli prima che venisse
riconosciuta la sua innocenza. L’arrembante disinvoltura non ha impedito al giudice
Marmo di fare carriera in magistratura senza che i superiori organi si
preoccupassero di disinnescare questa mina vagante.
Caso pressoché analogo quello del commissario Calabresi
vittima del giornalismo manettaro e ideologicamente schierato che non esitò ad
accusarlo della morte dell’anarchico Pinelli consegnandolo al mirino dei militanti di Lotta
Continua che punirono la sua presunta responsabilità assassinandolo. Anche in questo caso sappiamo
come finì, Calabresi fu riconosciuto estraneo alla morte di Pinelli e le icone
giornalistiche dell’epoca non mostrarono di avere alcun soprassalto di
coscienza né di nutrire alcun dubbio sul ruolo salvifico del loro giacobinismo.
Epigoni di quell’intellighenzia supponente che ha dominato la cultura del
dopoguerra, questi campioni della superiorità morale che Pareto chiamava
“virtuisti”, hanno continuato a imperversare e, per dirla sempre con Pareto,
hanno preteso di “raccontarci che solo
un uomo disonesto può avere un’opinione contraria alla loro”, lasciandoci in
eredità discepoli livorosi e
intransigenti che, seduti sulle loro certezze, ripercorrono ancora oggi la
strada dei cattivi maestri. Ancorati al dogma della primazia della morale questi
rampolli esagitati, figli del furore etico, negano al diritto qualsiasi
ragionevolezza, alla giustizia la prudenza, all’applicazione della legge
l’attenzione necessaria a evitare, per quanto è possibile, l’errore sempre in
agguato e, obbedendo alla loro vocazione forcaiola, sentenziano che il
cittadino raggiunto da un avviso di garanzia è presuntivamente colpevole.
Quando ci esibiamo nei soliti rituali che accompagnano
anniversari tragici, non una voce si leva a denunciare il farisaismo dei
sepolcri imbiancati che continuano a pontificare stritolando la vita delle
persone, forti della loro impunità e dei poteri che rappresentano.
venerdì 18 maggio 2018
Libertà e uguaglianza
La Costituzione italiana all’articolo 1 recita: ”L’Italia è
una repubblica democratica fondata sul lavoro” . La dizione risente di una
impostazione ideologica che connota lo Stato in base all’identità di una parte sociale
piuttosto che a quella dell’intero tessuto sociale. L’idea del lavoro come
fondamento della democrazia assume in questo modo le sembianze di un discrimine
che cozza contro il principio sancito proprio dalla Costituzione che
all’articolo 3 recita: ”Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
uguali davanti alla legge”. Ed è una impostazione che si scontra con il
pensiero liberale da sempre assertore del principio secondo cui un’autentica
democrazia debba fondarsi sulla libertà senza disparità e senza limitazioni che
non siano quelle previste dalla legge, principio solennemente proclamato già nel
lontano 1789 nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” che è
il testamento della nostra civiltà moderna e che all’articolo 2 pone in testa
all’elenco dei diritti fondamentali, appunto, la libertà. Libertà e uguaglianza
sono dunque i due principi in base ai quali tutti i cittadini hanno la
possibilità di esercitare i loro diritti in condizioni di parità, ma ciascuno in
base alle proprie capacità, e di affrontare nel giusto modo le disuguaglianze che
la natura, assai meno equanime della legge, decreta assegnando doti diverse e
spesso diseguali. La libertà fa di queste disuguaglianze delle opportunità se
lo Stato permette alla libera iniziativa di dispiegarsi, non imponendo
dall’alto l’omologazione artificiosa di una uniformità che finisce per realizzare
la più iniqua delle disuguaglianze, non opponendo alla creatività delle idee
l’ineluttabilità della materia che relega gli elementi ideali nella soffitta della
sovrastruttura (materialismo storico), non negando a nessuno il diritto di
starsene alla finestra a guardare o invece di sprigionare i propri spiriti
animali, l’estro, la fantasia, l’ingegno, di sfidare i rischi per proprio conto
e produrre maggiori opportunità per gli altri. Il profitto di chi si mette in
gioco reinvestito in attività produttive assume la funzione di propellente
della crescita e dell’occupazione piuttosto che le sembianze della farina del
diavolo, e il lavoro con le ricadute in termini di giustizia sociale si rende
possibile non per decreto ma grazie al talento creativo legittimamente espresso
che obbedisce alla propria vocazione e al contempo col suo dinamismo promuove i
diritti dei meno dotati. Allo Stato spetta
il compito di vigilare affinché le diversità non diventino privilegi gratuiti, non si creino sacche di impunità e
caste voraci, il profitto non diventi selvaggio, e di esercitare la giusta
rappresentanza delle istanze dei cittadini come si conviene ad una autentica
democrazia. La democrazia liberale, è bene ricordarlo, ha reso possibili le
conquiste di cui godiamo ed è un patrimonio prezioso da tutelare contro le
tentazioni qualunquistiche di quanti scrivono libri dei sogni facendo promesse impossibili
da realizzare. Il pragmatismo che ha preso per mano il liberalismo
contemporaneo e lo ha accompagnato verso la realizzazione di un riformismo
sociale sostenibile, è uno strumento che non possiamo mandare in soffitta.
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