Il nuovo codice antimafia approvato recentemente in
Parlamento estende le misure di prevenzione dai mafiosi ai corrotti. Le misure,
per chi non lo sapesse, vengono comminate in presenza di un sospetto di
condotta illecita senza l’obbligo da parte dello Stato di portare prove a
sostegno del provvedimento. Col nuovo
codice lo stravolgimento di un principio del diritto che vuole l’onere della
prova a carico di chi muove l’accusa, in passato imposto ai mafiosi, adesso
viene inflitto indiscriminatamente a chiunque odori di corruttela. Un vulnus
che finora ha riguardato solo i figli di
un dio minore e che non ha suscitato alcuna reazione di protesta, provoca
allarme nel momento in cui alza l’asticella e investe indiscriminatamente l’intera
società. Si è inaugurata una nuova stagione di caccia alle streghe e nel mirino
sono finiti tutti coloro che, ladri di
polli o capitani d’industria, prosseneti o frequentatori dei piani alti della
finanza, piccoli impiegati del catasto o grand commis, sono sfiorati dal
sospetto che vadano all’assalto della morale comune secondo le categorie del GA
(Grande Accusatore). Col nuovo editto bulgaro siamo affidati alle cure
amorevoli di uno Stato al quale è impossibile farla in barba, che monitora ogni
nostra azione e vigila contro l’arroganza di chi ha la faccia tosta di esigere
il rispetto di uno straccio di coerenza giuridica. Ci lasciamo alle spalle il
tempo del lassismo e andiamo festosamente incontro al tempo dell’efficienza
poliziesca. Adesso non si può, come in passato, intraprendere una qualsiasi
attività con la pretesa di farla franca, e ai buontemponi che rivendicano la
liceità delle loro condotte, i moralisti replicano che qualsiasi attività non
può dirsi lecita fino a quando non supera il test dell’illibatezza. Fino ad
allora, fino a quando non hai assolto all’onere della prova, sei un malfattore
potenziale da guardare con sospetto e perseguire con la severità dovuta agli
impudenti sostenitori della libertà di fare i propri comodi senza incorrere
nelle maglie della censura. E a chi protesta che fare impresa non significa
fare i propri comodi, la risposta è pronta, fare impresa è un attentato alla
pubblica moralità e alla sicurezza della società se non obbedisce a
imprescindibili canoni etici, alla vulgata del politicamente corretto, alla
crociata a favore dei miti sacralizzati dai sepolcri imbiancati. Da questo
momento in poi gli spericolati avventurieri che hanno il vizietto di fare
impresa sono avvertiti, debbono sapere che le categorie alle quali attenersi
non sono la competenza e la lungimiranza, non l’oculatezza della gestione e il
senso di responsabilità, non l’onestà e l’integrità ma l’obbedienza ad un
simulacro di legalità formale che pretende di profumare d’incenso ma che in
effetti ha l’afrore nauseabondo della demonizzazione ideologica. Debbono sapere
che in caso contrario saranno costretti a fare i conti con gli scherani di
Stato che vigilano contro l’assurda pretesa di chi rivendica diritti
fondamentali e imbrigliano la volontà di libertà con le provvidenziali misure
di prevenzione fondate sul nulla ammantato di legalitarismo. Siamo tutti
avvertiti, da oggi in poi, chi vuole dormire sonni tranquilli si iscriva all’albo
dei bacchettoni, si arruoli nell’esercito della salvezza dei pretoriani
d’assalto alla cittadella del diritto, stringa un patto che li preservi dalle
rappresaglie con chi ha il monopolio della giusta causa e viva serena la sua
miserabile esistenza nella casa del Grande Fratello di orwelliana memoria.
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