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lunedì 31 luglio 2017

I radicali


Benvenuti in Sicilia. Rivolgiamo il saluto di chi non ha voce a chi leva la propria voce per combattere la difficile battaglia in difesa del diritto e della pietà. In questi giorni è in giro per la Sicilia una pattuglia di radicali impegnati a promuovere il dibattito sul 41 bis, sull’ergastolo e sul ruolo della magistratura ed è dunque propizia l’occasione per stringere in un abbraccio ideale queste donne e questi uomini  coraggiosi che si oppongono all’intolleranza ideologica a tutela dei diritti fondamentali. Gli indomiti Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Maurizio Turco, Antonio Cerrone,  Antonella Casu, Donatella Corleo, Gianmarco Ciccarelli, M.A. Coscioni, Matteo Angioli, Elisabetta Zamparutti,  sono la speranza dei tanti che sono respinti dalla società ed emarginati con disprezzo, ai quali è negata qualsiasi visibilità che non sia negativa, ai quali è proibita la possibilità di accarezzare la carne dei propri cari per decenni, sono la spalla su cui piangono i familiari condannati assieme ai detenuti per una colpa che non hanno. Quanti schiumano di ammirazione per la Costituzione e al contempo la rinnegano tollerando la tortura del 41 bis e dell’ergastolo, consumano un falso proprio in spregio al dettato costituzionale. E’ l’ipocrisia dei giacobini che, al riparo dei loro privilegi, pontificano invocando il patibolo per gli altri senza alcun rischio di finirvi a loro volta inciampando sui loro eccessi, come accadeva ai loro antenati. Persino la Consulta e la Cassazione fanno strame del diritto allorché si rifugiano nelle pronunce della Corte europea del diritti dell’uomo che ha ritenuto non sia stata superata la soglia minima di gravità necessaria a considerare inumano e degradante il trattamento in carcere, solo in relazione ai singoli episodi presi in esame, e invece ignorano altrettante pronunce del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti (C.P.T.) che non ha esitato, riferendosi alle condizioni generali nelle carceri italiane e al 41 bis in particolare, a sollevare pesanti rilievi.  “In seguito a diverse visite nelle carceri italiane, il CP.T. ha rilevato che i detenuti sottoposti a 41 bis sono assoggettati per lunghi, talvolta lunghissimi periodi, ad un regime che per molti aspetti si avvicina all’isolamento e che il sistema è tale da provocare effetti dannosi concretatisi in alterazioni delle facoltà sociali e mentali irreversibili. E ancora ha avanzato il sospetto  che tale regime sia stato introdotto per costituire uno strumento di pressione psicologica per provocare la dissociazione o la collaborazione dei detenuti e che esso vanifichi l’attuazione di un efficace programma rieducativo. Da più parti, anche da parte di alcuni esponenti della magistratura, si è lamentata la distorsione che si realizza con l’utilizzo dell’ordinamento penitenziario per finalità di polizia preventiva, quali la tutela di esigenze di ordine e di sicurezza pubblica del tutto estranei  agli obiettivi dell’esecuzione penitenziaria” ( da La giurisprudenza della Corte Europea di Carmelo Minnella). E’ il tentativo di barare a un gioco di bussolotti che ha come posta la vita di esseri umani, è l’ossessione di chi ha assegnato a persone che hanno sbagliato il destino di vite a perdere, da estirpare come un cancro della società. Contro questa ossessione combattono donne e uomini onesti e a loro va tutta la nostra riconoscenza.

giovedì 20 luglio 2017

Luigi Di Maio


L’onorevole Di Maio, indagato dalla procura di Genova per diffamazione, ha reagito lamentandosi di sentirsi trattato come un mafioso. Dunque il vice presidente della Camera, epigono di un mondo duro e puro che impicca all’albero dell’intransigenza chiunque sia lambito da un sospetto di illiceità, protesta di sentirsi vittima di ingiustizia, scomodando addirittura la mafia, quando una indagine riguarda la sua persona.  Ma forse l’essere vice presidente della Camera  lo esime dall’essere soggetto alla legge come un comunissimo cittadino? Un minimo di decenza dovrebbe sconsigliare squittii da verginella offesa nell’onore, a chi, come l’onorevole Di Maio, rappresenta ai massimi livelli uno Stato come il nostro. Uno Stato che ha permesso il massacro dei suoi figli migliori avendo nel suo seno i mandanti di quelle stragi, che, a conclusione delle indagini sulla strage di via D’Amelio, non ha saputo fare di meglio che dare in pasto all’opinione pubblica 11 imputati condannandoli all’ergastolo grazie a un depistaggio e facendoli marcire in carcere per 15 anni da innocenti, senza che i responsabili di questo abominio abbiano pagato, che ha dovuto incassare una lezione di civiltà giuridica ai suoi massimi livelli giurisdizionali dalla Corte di Strasburgo sulla vicenda Contrada, senza avvertire alcun sussulto di vergogna e anzi producendosi, attraverso i soliti officianti di un’antimafia accecata dal livore, in cori di proteste contro quella che viene considerata una sorta di lesa maestà, come vogliamo definirlo? E visto che ci siamo, come vogliamo definire uno Stato che confina al di sotto della soglia della povertà un numero sempre maggiore di suoi cittadini, non più in grado di soddisfare i più elementari bisogni, vittime di una condizione di prostrazione psichica ancor più che fisica, incapaci come sono di sopportare la nuova condizione di disagio esistenziale nella quale sono precipitati? Come vogliamo definire uno Stato che detiene il record europeo della povertà infantile e tollera che bambini  innocenti vivano nel limbo di una condizione senza futuro, che vanta il primato europeo dei giovani inattivi costretti ad emigrare e così impoverire di risorse umane la nazione o, in alternativa, a bivaccare in casa dei genitori in compagnia della loro frustrazione e con l’incubo di restare in balia della loro precarietà quando gli ammortizzatori familiari verranno a mancare? Come vogliamo definire uno Stato che contro una deriva sempre più inarrestabile di miseria economica e morale, foraggia una minoranza di privilegiati che imperversano dall’alto della loro spocchia morale, intellettuale ed economica imponendo il politicamente corretto ad un popolo di sprovveduti? Siamo alla mercé di personaggi senza scrupoli che utilizzano lo Stato come comoda copertura per le loro malefatte e al cui confronto persino i mafiosi impallidiscono. E allora dove è la differenza tra un simile Stato e la mafia? Ce lo spieghi, dall’alto del suo scranno, il nostro vice presidente della Camera, scandalizzato all’idea che possa essere trattato come un mafioso.  

sabato 8 luglio 2017

Marcello Dell'Utri


L’appello lanciato da qualcuno che invita a trattare la vicenda Dell’Utri dimenticando il nome e avendo considerazione solo per l’uomo, contiene in sé i limiti di una proposta impraticabile. Una notizia di cronaca balza con maggiore o minore evidenza al centro della ribalta proprio in virtù del nome più o meno noto, e prescindere da esso è illusorio. Lo si vede proprio con la vicenda Dell’Utri. Vicende drammatiche in carcere se ne consumano parecchie in un silenzio assordante, quella di Dell’Utri al contrario è esplosa proprio grazie ad una notorietà che la pone al centro del dibattito e la privilegia. Perché Salvatore Meloni è stato fatto morire in carcere dopo 66 giorni di sciopero della fame e un mio compagno di detenzione con entrambe le gambe amputate  continua ad arrancare su una sedia a rotelle in carcere (non ne ho più notizie, non so se intanto è morto), perché un altro mio compagno consumato dall’aids ha dovuto subire l’insulto del carcere fino all’ultimo giorno della sua vita trascinando a fatica i poveri resti del suo povero corpo, senza che si sia levata una sola voce in loro difesa? E perché invece gli appelli a favore di Dell’Utri si sprecano col risultato che gli è stata concessa l’anticipazione da settembre a luglio della data dell’udienza in cui si deciderà sulla sospensione della sua pena per motivi di salute? Sia chiaro che la notizia non può che rallegrarci, chi ha vissuto l’esperienza del carcere non può che essere solidale con gli sventurati compagni di pena, ma ciò non toglie che la decisione che anticipa la data dell’udienza, nel momento stesso in cui procura una sensazione di sollievo, ha un sapore amaro. Perché a Dell’Utri si e agli altri no? Semplice, perché poniamo al centro del dibattito non un principio di civiltà giuridica che stabilisca un valore universale ma il nome cui assegniamo il riconoscimento dei diritti in rapporto al suo spessore. E’ così che funziona fino a quando non ci doteremo di una giustizia migliore che valga per tutti e continuerà a fare notizia solo l’ingiustizia di una detenzione incompatibile con il carcere quando essa riguarda la sorte del Dell’Utri di turno.