Sul Corriere della Sera di martedì, Pietro Ichino, a
commento dei libri di Elvio Fassone “Fine pena: ora” e di Carmelo Musumeci,
coautore assieme ad Andrea Pugiotto del libro “Gli ergastolani senza scampo”, affronta il problema dell’ergastolo ostativo e
della detenzione in regime di 41-bis, denunciando la contraddizione tra pene
così dure e il recupero del reo. Finalmente una penna prestigiosa affronta due problemi
che costituiscono un vulnus della nostra democrazia e che, con l’eccezione dei
radicali, vengono ignorati dai nostri intellettuali o, quando affrontati,
liquidati con l’alibi della sicurezza. Sono problemi di cui anche io in passato
mi sono occupato tentando di sensibilizzare con alcuni post sul mio blog
l’opinione pubblica ad un approccio più equanime nei confronti di essi. Risultato:
mi sono guadagnato insulti e l’accusa di combattere una battaglia sospetta,
visto che ho un figlio all’ergastolo in regime di 41-bis e io stesso sono un
condannato per mafia. Ma non mi tiro indietro, so che cosa si nasconde dietro
la parvenza di una crudeltà necessaria che spesso si traduce in una crudeltà
gratuita. Nel mio romanzo, “La vita di un uomo”, che ha visto la luce
recentemente, descrivo il mondo di dolore in carcere con la sua epica
scellerata e le sue storie drammatiche fatte di abusi e di violenze, di
abbrutimento maturato anche grazie alla inadeguatezza dello Stato. Dopo decenni
di detenzione senza speranza cadenzati dallo spettro del “fine pena mai”, dopo
un regime inumano quale è quello del 41-bis che trancia i rapporti con il resto
dell’umanità, il detenuto convive solo col rumore dei propri passi, perde il
senso della realtà vera e si rifugia nella realtà fittizia dei propri fantasmi,
naviga in un mondo che costruisce a seconda dei mezzi di cui dispone, è un
vegetale con la mente svuotata che arranca senza più alcun tratto della sua
originaria identità e spesso giunge all’appuntamento col suo pensiero onirico
latente, il suicidio. Altro che recupero. Sono dunque grato al professore
Ichino per avere egli colto la necessità di ripensare in una chiave più
garantista due problemi così drammatici, ma debbo dissentire da lui quando afferma
che la detenzione in regime di 41-bis non
ha una funzione punitiva bensì risponde ad esigenze di sicurezza. Certo non si
può fare a meno di ricordare da che cosa nasce l’esigenza del 41-bis, ed è
giusto rilevare che le lastre di vetro che impediscono a moglie e figli di
accarezzare il detenuto, non debbono far dimenticare le lastre di marmo che
separano le vittime di mafia dai loro cari. Però, c’è un però. A parte la
considerazione che nessuna esigenza di sicurezza può giustificare tanta
disumanità e che lo Stato non può smentire se stesso tradendo il proprio ruolo
di baluardo dei diritti fondamentali e di garante del rispetto della
Costituzione, bisogna avere l’onestà di ammettere che spesso sull’attualità di
questa esigenza si bara creando un allarme ingiustificato e con esso il
pretesto per infliggere una detenzione punitiva. Nessuno può sostenere in buona
fede che un detenuto, dopo decenni di carcere, dopo l’interruzione per tutti
questi anni di qualsiasi contatto col mondo esterno, sia ancora lo stesso uomo
di prima e costituisca ancora un pericolo per la società, specie considerando
le condizioni ambientali mutate rispetto ai decenni precedenti che rendono
improbabile il contatto del detenuto con una realtà ormai a lui estranea e
inattuali le possibilità di reiterazione del reato. E allora bisogna avere
l’onestà di riconoscere che l’ergastolo ostativo e il 41-bis applicato senza
tener conto delle mutate esigenze, contraddicono il dettato costituzionale ed hanno
una funzione punitiva, anzi vendicativa.
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