Quando sento parlare di guerra di religione tra cristiani e
musulmani e di santuari jihadisti a Molenbeek e nelle banlieues parigine, penso
a Mazara del Vallo dove i tunisini si sono inseriti operosamente e
pacificamente convivendo con gli autoctoni senza che la loro cultura e la loro
religione diventassero vessillo di un
proclama di guerra, come invece avviene in altre parti d’Europa. Ciò è potuto
accadere perché a Mazara la comunità tunisina, pur non rinunciando alla propria
lingua, ai propri costumi, alla propria religione, non ha fatto di questa
identità uno strumento di lotta contro le regole della società che la ospita, e
non si è relegata in una sorta di autoemarginazione rancorosa. Quelle regole i
tunisini di Mazara le hanno accettate e con i mazaresi convivono in un rapporto
di fruttuosa collaborazione. Entrambi si riconoscono figli dello stesso
contesto che vivono in assoluta armonia. Gli Imam a Mazara non temono la
contaminazione ad opera dei costumi occidentali, sanno che il loro gregge è
destinato ad essere influenzato dalla cultura occidentale ma sanno anche che il
loro credo religioso non corre alcun pericolo. Nel resto d’Europa
l’integrazione è fallita e i figli di seconda generazione dell’ondata
migratoria, nati europei, non si riconoscono nella cultura europea. Confinati
nelle loro enclaves, non sono usciti mai dal perimetro del loro assolutismo
culturale e vivono idealmente nei Paesi d’origine che non hanno mai conosciuto
e di cui ignorano la lingua ma che portano nel cuore come la stigma di una
identità orgogliosa in conflitto con i costumi occidentali, coltivando con
rancore la loro emarginazione. Alla mercé del loro travaglio identitario, prede della rabbia per la loro condizione, rispondono
solo con la violenza al loro disagio e scivolano nella radicalizzazione
promossa da chi ha interesse a manipolarli. Diventano così carne da macello in
mano all’Isis che combatte lucidamente e cinicamente una guerra politica
facendo dello stendardo religioso la bandiera che gli europei islamici issano
sulle macerie delle loro vite fallite, vittime della loro incapacità di accettare
il loro status di europei e dell’Europa che non ha saputo guidarli all’appuntamento
con la loro nuova identità culturale, vittime infine dell’Islam estremista che li ha trasformati in
schegge impazzite. L’Isis dalle sue roccaforti di Raqqa, Mosul, Sirte,
ringrazia la miopia dell’Occidente che con le sue incursioni in Iraq e in Libia
e con le alleanze che ha scelto di intrecciare nel Medio Oriente in difesa di
interessi inconfessabili, si è lasciato risucchiare nel pieno di una guerra che
infuria non in nome di una identità religiosa rispetto ad un’altra ma in nome
di un potere politico che ha a cuore concretissimi interessi, e ha offerto
l’alibi per la proclamazione della guerra santa. Gli utili idioti nelle vesti
dei kamikaze mandati al macello dall’Isis e gli altrettanti utili idioti nelle
vesti dei governanti occidentali, sono due facce diverse della stessa medaglia
che gli inermi cittadini europei stanno pagando a caro prezzo.
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domenica 27 marzo 2016
mercoledì 16 marzo 2016
Carmelo Musumeci, del 41-bis e dell’ergastolo ostativo
Sul Corriere della Sera di martedì, Pietro Ichino, a
commento dei libri di Elvio Fassone “Fine pena: ora” e di Carmelo Musumeci,
coautore assieme ad Andrea Pugiotto del libro “Gli ergastolani senza scampo”, affronta il problema dell’ergastolo ostativo e
della detenzione in regime di 41-bis, denunciando la contraddizione tra pene
così dure e il recupero del reo. Finalmente una penna prestigiosa affronta due problemi
che costituiscono un vulnus della nostra democrazia e che, con l’eccezione dei
radicali, vengono ignorati dai nostri intellettuali o, quando affrontati,
liquidati con l’alibi della sicurezza. Sono problemi di cui anche io in passato
mi sono occupato tentando di sensibilizzare con alcuni post sul mio blog
l’opinione pubblica ad un approccio più equanime nei confronti di essi. Risultato:
mi sono guadagnato insulti e l’accusa di combattere una battaglia sospetta,
visto che ho un figlio all’ergastolo in regime di 41-bis e io stesso sono un
condannato per mafia. Ma non mi tiro indietro, so che cosa si nasconde dietro
la parvenza di una crudeltà necessaria che spesso si traduce in una crudeltà
gratuita. Nel mio romanzo, “La vita di un uomo”, che ha visto la luce
recentemente, descrivo il mondo di dolore in carcere con la sua epica
scellerata e le sue storie drammatiche fatte di abusi e di violenze, di
abbrutimento maturato anche grazie alla inadeguatezza dello Stato. Dopo decenni
di detenzione senza speranza cadenzati dallo spettro del “fine pena mai”, dopo
un regime inumano quale è quello del 41-bis che trancia i rapporti con il resto
dell’umanità, il detenuto convive solo col rumore dei propri passi, perde il
senso della realtà vera e si rifugia nella realtà fittizia dei propri fantasmi,
naviga in un mondo che costruisce a seconda dei mezzi di cui dispone, è un
vegetale con la mente svuotata che arranca senza più alcun tratto della sua
originaria identità e spesso giunge all’appuntamento col suo pensiero onirico
latente, il suicidio. Altro che recupero. Sono dunque grato al professore
Ichino per avere egli colto la necessità di ripensare in una chiave più
garantista due problemi così drammatici, ma debbo dissentire da lui quando afferma
che la detenzione in regime di 41-bis non
ha una funzione punitiva bensì risponde ad esigenze di sicurezza. Certo non si
può fare a meno di ricordare da che cosa nasce l’esigenza del 41-bis, ed è
giusto rilevare che le lastre di vetro che impediscono a moglie e figli di
accarezzare il detenuto, non debbono far dimenticare le lastre di marmo che
separano le vittime di mafia dai loro cari. Però, c’è un però. A parte la
considerazione che nessuna esigenza di sicurezza può giustificare tanta
disumanità e che lo Stato non può smentire se stesso tradendo il proprio ruolo
di baluardo dei diritti fondamentali e di garante del rispetto della
Costituzione, bisogna avere l’onestà di ammettere che spesso sull’attualità di
questa esigenza si bara creando un allarme ingiustificato e con esso il
pretesto per infliggere una detenzione punitiva. Nessuno può sostenere in buona
fede che un detenuto, dopo decenni di carcere, dopo l’interruzione per tutti
questi anni di qualsiasi contatto col mondo esterno, sia ancora lo stesso uomo
di prima e costituisca ancora un pericolo per la società, specie considerando
le condizioni ambientali mutate rispetto ai decenni precedenti che rendono
improbabile il contatto del detenuto con una realtà ormai a lui estranea e
inattuali le possibilità di reiterazione del reato. E allora bisogna avere
l’onestà di riconoscere che l’ergastolo ostativo e il 41-bis applicato senza
tener conto delle mutate esigenze, contraddicono il dettato costituzionale ed hanno
una funzione punitiva, anzi vendicativa.
venerdì 4 marzo 2016
Il caso Panebianco
Una certa Italia conformista e ipocrita
che nega l’evidenza e sembra non avvertire il senso del ridicolo,
ama gingillarsi col pacifismo ad oltranza a dispetto dei pericoli che
incombono ai nostri confini. I latini, che qualcosa avevano capito di
come va la vita, solevano ammonire: “Si vis pacem, para bellum” e
non potevano immaginare che i loro discendenti ribaltassero un
concetto così lapalissiano pretendendo di combattere contro le
avanguardie dell’Isis alle porte di Lampedusa a suon di slogan
buonisti. I sacerdoti dell’imbecillità autolesionistica che
gridano allo scandalo, riescono ad essere combattivi solo quando c’è
da aggredire un inerme cattedratico, il professore Panebianco, per
avere egli espresso il suo punto di vista sulla demenziale tendenza
tutta italiana a rimuovere il concetto di guerra dal nostro scenario
mentale e linguistico, quando tutti sappiamo che la guerra è una
maledetta costante sempre in agguato data la natura hobbesiana
dell’uomo, ed è combattuta in ogni angolo della terra
continuamente. Preparare la guerra, parlarne come di una eventualità
sciagurata da scongiurare con ogni mezzo ma che a volte è
inevitabile, non significa essere guerrafondai ma attenti alla
propria sicurezza. E poi il modo. Possiamo anche dissentire e, in
preda a un masochismo tafazziano, combattere utopiche battaglie di
retroguardia facendoci ridere appresso da chi non dimentica le nostre
passate ambiguità, ma il diritto a dire la nostra non ci autorizza a
tacciare di assassino chi non la pensa come noi. Il punto è che,
come giustamente sostiene Ernesto Galli della Loggia, in Italia manca
la capacità di dibattere civilmente e costruttivamente. Abituati
alle risse dei talk show in cui il buon senso è quasi sempre
latitante, in cui è legittimato il trionfo delle ovvietà e viene
demonizzato chi osa dissentire dal politicamente corretto, non
riusciamo non solo a venir fuori dalla omologazione del nostro modo
di pensare ma neanche a rispettare l’estetica dei nostri
comportamenti, come accade quando pretendiamo di imporre le verità
preconfezionate dal pensiero dominante, di pontificare che tutto il
buono è dalla nostra parte e tutto il male dall’altra parte, di
individuare le categorie del male convenzionalmente stabilite e
ignorare i propri scheletri nell’armadio, ricorrendo alla violenza
non solo fisica ma morale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti
ed hanno trovato degna espressione nelle contestazioni all’università
di Bologna.
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