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sabato 16 gennaio 2016

I sacerdoti del politicamente corretto

Lo scenario del politicamente corretto si arricchisce di un numero sempre maggiore di proseliti i quali, col pretesto di rivendicare ideali di giustizia, impongono un conformismo linguistico e una tirannia ideologica che limitano la libertà d’espressione. Secondo le loro categorie è politicamente scorretto, per esempio, affermare che i musulmani accolti in Europa debbano esercitare la loro cultura senza violare i principi fondamentali del Paese ospitante, e suscita scandalo, come fosse una indebita intromissione, l’idea che la donna musulmana, divenuta cittadina italiana, debba abbandonare la sudditanza al maschio e affidarsi alla sudditanza alle leggi dello Stato che l’ospita e ha il compito di garantirne la dignità. E’ invece giusto sostenere che la libertà di espressione debba essere negata a un condannato per mafia, come è accaduto al sottoscritto contestato da qualcuno per avere osato scrivere un libro fatto oggetto di una sorta di congiura del silenzio, quasi risultasse insopportabile alla sensibilità delle anime belle lo scandalo di un reietto che ha la pretesa di pensare e scrivere quello che pensa, invece di rassegnarsi alla damnatio memoriae. Viene in mente la cautela con cui la stampa maneggiò la vicenda dello sterminio di Parigi, quasi accusando Charles Hebdo si essersela cercata con la pubblicazione di vignette irriverenti. Sempre secondo queste categorie, è giusta la logica di qualche buontempone che grida allo scandalo per il presepe nelle scuole perché esso offenderebbe la sensibilità all’Islam, così elevando un monumento alla stupidità e rinunciando alla propria cultura. E ancora il goffo tentativo delle autorità di ridimensionare la gravità di quanto accaduto a Colonia la notte di Capodanno, che cosa è se non una forma di sottomissione a un malinteso senso del politicamente corretto? E che dire della iniziativa di alcuni studenti americani che hanno protestato contro una caffetteria accusandola di avere preparato dei piatti etnici non rispettandone la tradizione e intravedendo in ciò una indebita perpetrazione di “appropriazione culturale”? Nella esibizione del politicamente corretto c’è un complesso di superiorità morale e intellettuale dietro cui si celano ipocrisia e paura. C’è l’ipocrisia di una fede sentita confusamente e proclamata barando con ricatti ideologici e c’è la paura di apparire rétro. Non sia mai che immacolate vite liberal vengano macchiate dal sospetto di conservatorismo retrivo! E c’è anche la paura di incorrere nelle ire dei terroristi come è accaduto appunto a Charles Hebdo. Viene ostentato il coraggio di una critica ai limiti del blasfemo nei confronti del cristianesimo mite e tollerante, ma ci si guarda bene dallo sfoggiare lo stesso coraggio contro il fondamentalismo islamico che non ci pensa due volte a passare alle vie di fatto. Il credo del politicamente corretto è la professione di una giustizia utopica ruotante attorno ad un elitarismo autoreferenziale che promuove improbabili crociate costrette a fare i conti con le dure repliche della realtà, come per esempio quella di un multiculturalismo irrealizzabile, e si adagia nell’illusione di un buonismo che esiste solo in un mondo patinato al riparo delle crudeltà della vita, nelle rarefatte atmosfere dei “privilegiati che neppure sospettano di esserlo” (Galli Della Loggia). Ed ecco che la lotta al razzismo si trasforma in razzismo a rovescio, ecco che vengono emesse sentenze a prescindere, che sull’altare della sicurezza vengono sacrificati diritti fondamentali, che la tolleranza e la disponibilità al dialogo sono sostituite con la supponenza di certezze pregiudiziali, anche a costo di rottamare coscienze, vite e buon senso. Sono questi i frutti dei cattivi maestri, responsabili di una deriva verso lo sfascio della nostra civiltà e della nostra identità messa in crisi dalla rinuncia ai valori che ci hanno accompagnato da secoli e che rischiamo di sostituire con falsi miti.

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