Il giardino dei giusti si è trasferito da Gerusalemme a
Palermo e ci ha consegnato lo scenario di un mondo di eroi senza macchia che
lottano, i soli moralmente immacolati, contro l’ingiustizia e il malaffare. E’ questa
l’impressione che ho ricavato partecipando ad un evento che ha fatto da cornice
alla presentazione di un libro. L’ambiente e il clima erano quelli in cui si
spreca la retorica dell’impegno civile rivendicato in esclusiva da pochi intimi
contro l’indifferenza colpevole del resto del mondo. Vi erano radunati i rappresentanti
di quella società che si è intestata più o meno legittimamente la lotta al
malaffare e alla mafia ma che, ahinoi, spesso traduce la passione ideale in
furore ideologico, in ostentazione di superiorità morale e nella intransigente
professione di un manicheismo che non concede alternative alle verità
sentenziate da un minoritario zoccolo duro e puro. Viene in mente la volontà
generale teorizzata da Rousseau, infallibile e indistruttibile, che decide in perfetta
solitudine che cosa è il bene comune, che non tollera molteplicità d’opinioni e
dissensi e alla quale la volontà popolare deve sottomettersi, pena la
scomunica. La serata si è presto connotata d’integralismo con la proclamazione
di un discrimine invalicabile tra il
mondo dei buoni e quello dei cattivi, con
il solito spartito che colloca al centro della scena una certa intellighènzia
autoreferenziale con i giusti quarti di nobiltà e demonizza chi non ha i titoli
per essere ammesso alla ristretta élite del cerchio magico, e con in più
l’annuncio che i fascisti sono usciti dalle tombe e, a braccetto con i mafiosi,
si apprestano ad attentare all’integrità dello Stato. Quella del pericolo
fascista è una ossessione che ricorda quella berlusconiana del pericolo
comunista, con la differenza che Berlusconi
veniva liquidato come un magliaro che rifilava patacche, mentre le vestali
della purezza democratica cadono in estasi al cospetto delle loro certezze
oracolari e non tollerano che esse siano messe in discussione. Non hanno per
esempio dubbi sulle magnifiche sorti e progressive della loro parte che pure ha
espresso terroristi sanguinari, definiti con indulgenza compagni che sbagliano,
che è figlia di una ideologia la quale ha segnato il destino tragico di intere
generazioni, né più e né meno, o forse più, del vituperato nazionalsocialismo,
e che ancora continua a nutrire le menti e i cuori di irriducibili maestri del
pensiero. Questi teorici del pensiero unico politicamente corretto che
delegittimano chiunque non sia allineato, con l’alibi della lotta alle mafie e
la presunzione di essere i soli abilitati a condurla, si siedono in cattedra
per narrarci le loro verità contraffatte e, con la prosopopea di una
intransigenza che non concede sconti, disseminano il loro percorso di privilegi
castali e di avvoltoi appollaiati sui poveri resti di vittime cui, oltre al
sacrificio della vita, tocca in sorte lo sciacallaggio.
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domenica 24 gennaio 2016
sabato 16 gennaio 2016
I sacerdoti del politicamente corretto
Lo scenario del politicamente corretto
si arricchisce di un numero sempre maggiore di proseliti i quali, col
pretesto di rivendicare ideali di giustizia, impongono un conformismo
linguistico e una tirannia ideologica che limitano la libertà
d’espressione. Secondo le loro categorie è politicamente
scorretto, per esempio, affermare che i musulmani accolti in Europa
debbano esercitare la loro cultura senza violare i principi
fondamentali del Paese ospitante, e suscita scandalo, come fosse una
indebita intromissione, l’idea che la donna musulmana, divenuta
cittadina italiana, debba abbandonare la sudditanza al maschio e
affidarsi alla sudditanza alle leggi dello Stato che l’ospita e ha
il compito di garantirne la dignità. E’ invece giusto sostenere
che la libertà di espressione debba essere negata a un condannato
per mafia, come è accaduto al sottoscritto contestato da qualcuno
per avere osato scrivere un libro fatto oggetto di una sorta di
congiura del silenzio, quasi risultasse insopportabile alla
sensibilità delle anime belle lo scandalo di un reietto che ha la
pretesa di pensare e scrivere quello che pensa, invece di rassegnarsi
alla damnatio memoriae. Viene in mente la cautela con cui la stampa
maneggiò la vicenda dello sterminio di Parigi, quasi accusando
Charles Hebdo si essersela cercata con la pubblicazione di vignette
irriverenti. Sempre secondo queste categorie, è giusta la logica di
qualche buontempone che grida allo scandalo per il presepe nelle
scuole perché esso offenderebbe la sensibilità all’Islam, così
elevando un monumento alla stupidità e rinunciando alla propria
cultura. E ancora il goffo tentativo delle autorità di
ridimensionare la gravità di quanto accaduto a Colonia la notte di
Capodanno, che cosa è se non una forma di sottomissione a un
malinteso senso del politicamente corretto? E che dire della
iniziativa di alcuni studenti americani che hanno protestato contro
una caffetteria accusandola di avere preparato dei piatti etnici non
rispettandone la tradizione e intravedendo in ciò una indebita
perpetrazione di “appropriazione culturale”? Nella esibizione
del politicamente corretto c’è un complesso di superiorità morale
e intellettuale dietro cui si celano ipocrisia e paura. C’è
l’ipocrisia di una fede sentita confusamente e proclamata barando
con ricatti ideologici e c’è la paura di apparire rétro. Non sia
mai che immacolate vite liberal vengano macchiate dal sospetto di
conservatorismo retrivo! E c’è anche la paura di incorrere nelle
ire dei terroristi come è accaduto appunto a Charles Hebdo. Viene
ostentato il coraggio di una critica ai limiti del blasfemo nei
confronti del cristianesimo mite e tollerante, ma ci si guarda bene
dallo sfoggiare lo stesso coraggio contro il fondamentalismo islamico
che non ci pensa due volte a passare alle vie di fatto. Il credo del
politicamente corretto è la professione di una giustizia utopica
ruotante attorno ad un elitarismo autoreferenziale che promuove
improbabili crociate costrette a fare i conti con le dure repliche
della realtà, come per esempio quella di un multiculturalismo
irrealizzabile, e si adagia nell’illusione di un buonismo che
esiste solo in un mondo patinato al riparo delle crudeltà della
vita, nelle rarefatte atmosfere dei “privilegiati che neppure
sospettano di esserlo” (Galli Della Loggia). Ed ecco che la lotta
al razzismo si trasforma in razzismo a rovescio, ecco che vengono
emesse sentenze a prescindere, che sull’altare della sicurezza
vengono sacrificati diritti fondamentali, che la tolleranza e la
disponibilità al dialogo sono sostituite con la supponenza di
certezze pregiudiziali, anche a costo di rottamare coscienze, vite e
buon senso. Sono questi i frutti dei cattivi maestri, responsabili di
una deriva verso lo sfascio della nostra civiltà e della nostra
identità messa in crisi dalla rinuncia ai valori che ci hanno
accompagnato da secoli e che rischiamo di sostituire con falsi miti.
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