Lo ammetto, nonostante le cautele
adottate, sono stato ugualmente smascherato. Malgrado abbia finto di
essere povero, secondo un costume caro ai mammasantissimi che
accumulano ricchezze ma non possono godersele, è venuto alla luce
che sono tra i titolari di un patrimonio di ottocento milioni di
euro. Questo almeno è quello che si deduce leggendo le dichiarazioni
degli investigatori e i servizi giornalistici che riportano la
notizia di un sequestro di beni ai danni del dottor Giuseppe Acanto.
Su Repubblica si può leggere infatti che il patrimonio in questione
appartiene in effetti a quei mafiosi di Villabate che hanno
accompagnato a Marsiglia Bernardo Provenzano. Poiché uno di questi
mafiosi è mio figlio Nicola, è a lui che, secondo gli inquirenti e
la stampa, appartiene il patrimonio intestato ad Acanto. E poiché
come padre io non potevo non sapere, due più due fanno quattro, quel
patrimonio appartiene anche a me. Il Giornale di Sicilia di ieri poi
lo dice chiaramente: dietro questo ben di Dio ci sono i Mandalà. In
assenza di prove e, in verità, in assenza del senso della decenza, è
stato stabilito dunque che i beni sequestrati ad Acanto appartengono
in realtà a me e a mio figlio. Il dottore Acanto, secondo quanto
riferiscono i giornali, è stato indagato per concorso esterno in
associazione mafiosa ma non è stato mai processato e tantomeno
condannato perché, non risultando prove a suo carico, l’indagine è
stata archiviata. Egli dunque non è mafioso ma questo non è stato
sufficiente ad evitargli un provvedimento che ha scompaginato la sua
vita e metterà a repentaglio il lavoro dei tanti suoi collaboratori.
Non ci sono prove che il patrimonio sequestratogli appartenga alla
mafia, ma c’è il sospetto e questo basta. Purtroppo per lui, il
dottore Acanto ha avuto il torto di avermi assistito
professionalmente e questo, come si vede, gli sta creando qualche
problema. Pare infatti che a mettere in allarme gli investigatori sia
stata la scoperta presso lo studio dello stesso dei libri contabili
di un’attività riconducibile al sottoscritto. Un quotidiano on
line riporta la notizia parlando di “scritture contabili di una
sfilza di imprese riconducibili a mafiosi del calibro di Nino
Mandalà………” e lasciando intravedere scenari inquietanti.
Con buona pace del mio calibro, i soli libri contabili che mi
riguardano e che possono essere stati riscontrati presso lo studio
Acanto, sono quelli che si riferiscono ad una mia attività
lecitissima che svolgevo alla luce del sole quando lavoravo (stiamo
parlando di sedici anni fa) e non ero stato ancora investito da
alcuna vicenda giudiziaria. Degli innocenti libri contabili intestati
all’attività di un uomo che solo parecchi anni dopo sarebbe stato
condannato per mafia, sono bastati a innescare il sospetto e il
sospetto è bastato a determinare il provvedimento di sequestro. Così
funzionano le cose in quel deserto del diritto che è il mondo della
prevenzione. Tutto sommato però niente di grave, in definitiva
stiamo parlando di soldi, cosa volete che sia, il dottore Acanto se
ne farà una ragione. Ben altre conseguenze sono quelle che possono
derivare al sottoscritto. Ho dovuto arrangiarmi per coniugare il
pranzo con la cena, mi sono privato dell’indispensabile per
sopravvivere, non faccio un viaggio da tempo immemorabile, non compro
un nuovo capo dall’alba dei tempi, devo fare i salti mortali per
pagare l’affitto, ma a quanto pare, non è servito a nulla, la
messinscena è fallita miseramente. Chi convincerà i miei complici
con i quali ho sempre pianto miseria raccontando di essere povero in
canna, che non li ho ingannati, dopo che le straordinarie rivelazioni
della DIA hanno svelato le mie ricchezze? Questi signori, come è
noto, non hanno il senso dell’umorismo e hanno il brutto vizio di
prendere tutto maledettamente sul serio. Questo sul fronte della
criminalità. Sul fronte della Giustizia è in itinere la decisione
del Tribunale per le misure di prevenzione di un provvedimento nei
miei confronti. Quale pensate che sarà l’esito alla luce del
regalo fattomi dalla DIA? Le aberrazioni narrate da Kafka ne “Il
processo” impallidiscono in confronto a quelle della realtà
giudiziaria italiana.
Nessun commento:
Posta un commento