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sabato 9 maggio 2015

Le inutili cautele

Lo ammetto, nonostante le cautele adottate, sono stato ugualmente smascherato. Malgrado abbia finto di essere povero, secondo un costume caro ai mammasantissimi che accumulano ricchezze ma non possono godersele, è venuto alla luce che sono tra i titolari di un patrimonio di ottocento milioni di euro. Questo almeno è quello che si deduce leggendo le dichiarazioni degli investigatori e i servizi giornalistici che riportano la notizia di un sequestro di beni ai danni del dottor Giuseppe Acanto. Su Repubblica si può leggere infatti che il patrimonio in questione appartiene in effetti a quei mafiosi di Villabate che hanno accompagnato a Marsiglia Bernardo Provenzano. Poiché uno di questi mafiosi è mio figlio Nicola, è a lui che, secondo gli inquirenti e la stampa, appartiene il patrimonio intestato ad Acanto. E poiché come padre io non potevo non sapere, due più due fanno quattro, quel patrimonio appartiene anche a me. Il Giornale di Sicilia di ieri poi lo dice chiaramente: dietro questo ben di Dio ci sono i Mandalà. In assenza di prove e, in verità, in assenza del senso della decenza, è stato stabilito dunque che i beni sequestrati ad Acanto appartengono in realtà a me e a mio figlio. Il dottore Acanto, secondo quanto riferiscono i giornali, è stato indagato per concorso esterno in associazione mafiosa ma non è stato mai processato e tantomeno condannato perché, non risultando prove a suo carico, l’indagine è stata archiviata. Egli dunque non è mafioso ma questo non è stato sufficiente ad evitargli un provvedimento che ha scompaginato la sua vita e metterà a repentaglio il lavoro dei tanti suoi collaboratori. Non ci sono prove che il patrimonio sequestratogli appartenga alla mafia, ma c’è il sospetto e questo basta. Purtroppo per lui, il dottore Acanto ha avuto il torto di avermi assistito professionalmente e questo, come si vede, gli sta creando qualche problema. Pare infatti che a mettere in allarme gli investigatori sia stata la scoperta presso lo studio dello stesso dei libri contabili di un’attività riconducibile al sottoscritto. Un quotidiano on line riporta la notizia parlando di “scritture contabili di una sfilza di imprese riconducibili a mafiosi del calibro di Nino Mandalà………” e lasciando intravedere scenari inquietanti. Con buona pace del mio calibro, i soli libri contabili che mi riguardano e che possono essere stati riscontrati presso lo studio Acanto, sono quelli che si riferiscono ad una mia attività lecitissima che svolgevo alla luce del sole quando lavoravo (stiamo parlando di sedici anni fa) e non ero stato ancora investito da alcuna vicenda giudiziaria. Degli innocenti libri contabili intestati all’attività di un uomo che solo parecchi anni dopo sarebbe stato condannato per mafia, sono bastati a innescare il sospetto e il sospetto è bastato a determinare il provvedimento di sequestro. Così funzionano le cose in quel deserto del diritto che è il mondo della prevenzione. Tutto sommato però niente di grave, in definitiva stiamo parlando di soldi, cosa volete che sia, il dottore Acanto se ne farà una ragione. Ben altre conseguenze sono quelle che possono derivare al sottoscritto. Ho dovuto arrangiarmi per coniugare il pranzo con la cena, mi sono privato dell’indispensabile per sopravvivere, non faccio un viaggio da tempo immemorabile, non compro un nuovo capo dall’alba dei tempi, devo fare i salti mortali per pagare l’affitto, ma a quanto pare, non è servito a nulla, la messinscena è fallita miseramente. Chi convincerà i miei complici con i quali ho sempre pianto miseria raccontando di essere povero in canna, che non li ho ingannati, dopo che le straordinarie rivelazioni della DIA hanno svelato le mie ricchezze? Questi signori, come è noto, non hanno il senso dell’umorismo e hanno il brutto vizio di prendere tutto maledettamente sul serio. Questo sul fronte della criminalità. Sul fronte della Giustizia è in itinere la decisione del Tribunale per le misure di prevenzione di un provvedimento nei miei confronti. Quale pensate che sarà l’esito alla luce del regalo fattomi dalla DIA? Le aberrazioni narrate da Kafka ne “Il processo” impallidiscono in confronto a quelle della realtà giudiziaria italiana.

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