I diritti, non solo quelli
approssimativamente codificati, ma anche quelli solennemente consacrati
nella Carta Costituzionale, che si presume non possano essere
disattesi, sono diventati in Italia ostaggio di un conflitto tra
poteri che decidono obbedendo a categorie che non hanno nulla da
spartire con quella che Kelsen ha definito “dottrina pura del
diritto”. Il governo Monti, in debito d’ossigeno e con problemi
di cassa, ha deciso che si potesse bloccare la rivalutazione
monetaria delle pensioni in deroga al principio della intangibilità
dei diritti acquisiti previsto dalla Costituzione. La Corte
Costituzionale ha risposto bocciando il provvedimento Monti, immemore
di pronunce precedenti di segno contrario sullo stesso argomento e
infischiandosi delle conseguenze devastanti per il bilancio dello
Stato costretto a far fronte ad un debito di 14 miliardi di euro. Il
governo Renzi ha a sua volta dichiarato che rispetterà la sentenza
nei modi che riterrà opportuno. Un bel teatrino, non c’è che
dire. Bisogna dare atto a Renzi che egli in questa vicenda è
costretto a misurarsi con una tegola di cui non ha colpa, con il
fiato sul collo dell’Europa che teme uno sforamento dei parametri.
Anche lui certo avrebbe potuto evitare i soliti toni spavaldi e non
sparare a zero contro la Consulta rea, a suo dire, di invadere il
campo della politica. La Consulta sostiene di limitarsi a svolgere il
ruolo che le compete, e cioè a vigilare che le decisioni prese dalla
politica siano compatibili con la Costituzione e non con equilibri
economico sociali. In verità, come osserva qualche
costituzionalista, la Corte Costituzionale, così come ha fatto in
passato, anche per le pensioni avrebbe potuto procedere in modo da
non trascurare le conseguenze finanziarie della sua decisione, pur
tenendo il punto sulla perentorietà dei diritti dei cittadini.
Avrebbe potuto per esempio sancire l’inviolabilità della
rivalutazione delle pensioni, “ma”, cito Sabino Cassese,
“lasciando a governo e a Parlamento il compito di scegliere come
provvedere” o avrebbe potuto (sempre Cassese) “ripetere il monito
(la messa in mora che la Corte fa quando non vuole produrre gli
effetti immediati e traumatici che derivano da un annullamento), già
fatto in precedenza in fatto di pensioni ”. Invece è andata giù
a testa bassa. Sorge il dubbio che si sia verificato uno scontro tra
poteri che tendono l’orecchio ad interessi che nulla hanno a che
vedere col diritto e che sulle pensioni si sia giocata una partita
dal sapore squisitamente politico. Solo così si spiega come ci sia
stata una contrapposizione inconciliabile di sei contro sei giudici
su una fattispecie giuridica che non avrebbe dovuto prestarsi a
divaricazioni così nette. Il crocevia di dialettiche contrapposte ci
propone sempre più spesso il dilemma di chi e che cosa privilegiare.
Così come oggi si contrappongono la rivalutazione delle pensioni con
i vincoli di bilancio, domani si potrebbero fronteggiare esigenze di
legittimità con problematiche economiche e sociali di vasta portata
(per esempio l’esigenza di perseguire le aziende che fanno disastri
ambientali con la tutela del posto di lavoro che quelle aziende
assicurano, l’esigenza di garantire la sicurezza con quella di
porre mano al problema delle condizioni inumane di vita in carcere,
l’esigenza di sequestrare i beni in odore di mafia con quella di
non farle fallire, e quant’altro ancora) e purtroppo la Corte
Costituzionale non sembra capace di sciogliere il nodo gordiano di
queste contrapposizioni coniugando rigore ed equità, né di vigilare
affinché i diritti fondamentali dei cittadini vengano rispettati. La
conseguenza è che proprio su questo fronte essa subisce l’iniziativa
dell’Europa che la surroga in maniera imbarazzante dettando
all’Italia l’agenda dei compiti a casa. Le condanne ormai non si
contano più, solo che anche l’Europa deve fare i conti con la
capacità tutta italiana di bypassare il possibile e l’impossibile.
La Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia
per le inumane condizioni di vita in carcere dei nostri detenuti?
L’Italia ha risposto con una legge che prevede rimedi compensativi
(8 euro al giorno per chi ha già scontato la pena detentiva, lo
scomputo di un giorno ogni dieci giorni per chi deve ancora scontare
la pena). Peccato che la normativa per l’ottenimento di questi
compensi vanifichi il risultato, visto che l’85% delle domande
finora avanzate è stata dichiarata inammissibile e il risarcimento
concesso si limita all’1,2% delle richieste. Sempre la Corte di
Strasburgo ci ha condannato per la macelleria messicana del G8 di
Genova? L’Italia ha risposto approvando in Commissione la proposta
di legge che prevede il reato di tortura nel nostro codice penale.
Peccato che la proposta giaccia nel dimenticatoio in un ramo del
Parlamento. C’è da scommettere che anche per quanto riguarda le
pensioni decurtate da Monti, Renzi troverà il modo di bypassare la
sentenza della Corte Costituzionale. E’ così che funzionano le
cose nostre in un Paese dove le esigenze della giustizia subiscono i
ricatti delle esigenze economiche e sociali tanto quanto le esigenze
economiche e sociali sono vittime delle schizofrenie della legge, con
sullo sfondo i potentati di appartenenza. Tutto mentre coloro che non
hanno santi protettori recitano la parte dei vasi di coccio.
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