E’ di pochi giorni fa la notizia che tre giornalisti sono
stati condannati per diffamazione.
Uno di loro ci racconta il suo stato d’animo, la perdita del
suo aplomb, dell’aria di sufficienza che ha sempre assunto nei confronti dei
condannati che professavano la loro innocenza, lui che adesso si ritrova a
vivere l’esperienza di una condanna. E’ dura, lo sappiamo.
Prendiamo atto del suo stato d’animo e ci domandiamo:
possiamo sperare che la perdita dell’aria di sufficienza del nostro cronista si
accompagni al rifiuto dell’acquiescenza ( speculare alla sufficienza ) finora
avuta nei confronti della inflessibilità dei suoi amici pm, che gli ha fatto
condividere e raccontare a caratteri cubitali la verità processuale da essi
declinata e relegare in poche righe di una pagina interna la diversa verità
processuale emersa dalle sentenze?
Possiamo insomma contare su una sua presa di distanza dalla
macelleria mediatica ( lo dice Ostellino ) che dà in pasto le vite umane
condannate in piazza e non si scandalizza del fatto che, dopo 15 anni di
processo, ci sono ancora imputati in attesa della sentenza definitiva?
E sulla fiducia nella giustizia anche quando condanna“il
diritto di scrivere un articolo”, cosa ci dice? Ci dice che è lecito scrivere
con licenza di impunità e, quando l’impunità non è garantita, ci dice che,“se ci
fosse un altro clima, sulla giustizia, non ci sarebbero nemmeno certe vicende”?
A scanso di equivoci il nostro cronista precisa che non
hanno ragione “quelli li”, gli imputati che continuano a professare la loro
innocenza anche dopo la sentenza definitiva, ma ha ragione lui quando afferma
che c’è del marcio in Danimarca se non è riconosciuto il suo diritto di diffamare.
Vuoi mettere l’ imputato comune e l’imputato che si trova dall’altra parte
della barricata dopo una lunga militanza nelle truppe del giustizialismo? Bella
ricompensa!
Ma è la giustizia, bellezza, quella che i Robespierre hanno
predicato ai piedi del patibolo, quella amministrata dagli uomini, magistrati
ai quali abbiamo affidato la nostra vita nonostante uomini e dunque soggetti
anche loro a sbagliare in buona fede e qualche volta, perché no, in mala fede.
Ci rimane il diritto di dissentire e ai giornalisti la
decenza di essere un poco meno supponenti, ché tanto la giustizia e la mala
giustizia sono uguali per tutti.