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giovedì 29 novembre 2012

L’evoluzione di Angelino


Tempo fa ho dedicato un post ad Angelino Alfano ministro di grazia e giustizia invitandolo a non prendersi troppo sul serio. Gli agrigentini mi hanno sempre affascinato per la loro peculiarità complessa che non per nulla ha partorito Pirandello. Il grande agrigentino, quando parlava di maschera e realtà, riferiva di un mondo che avvolge con la sua ineluttabilità la vita e ne sviluppa la trama attraverso un divenire di cui non si riesce a fissare un punto. L’uomo in balia di questo divenire, tenta inutilmente di opporvisi costruendo delle maschere con cui dare un senso alla propria vita. Orbene di questo mondo Alfano è un interprete autentico. Per nulla spaventato dalla portata del destino che gli è piovuto addosso e indifferente ai timori di un clamoroso fiasco, testardo e proteso verso il suo scopo, non solo si è preso sul serio ma ha aumentato la posta: non più ministro di grazia e giustizia ma segretario dell’allora maggior partito italiano. D’accordo, l’incarico, come quello del dicastero di grazia e giustizia, gli è stato regalato da Berlusconi in preda ad uno delle sue solite infatuazioni che gli fanno perdere la misura e la cautela, ma il nostro non si è certo tirato indietro, anzi ha rilanciato, la sua ambizione gli ha preso la mano e lo ha guidato verso il miraggio del grande obiettivo: non solo la segreteria del partito ma addirittura la candidatura a premier!
Di obiettivo in obiettivo ha falciato il suo mentore dichiarando che non tollererà nella competizione delle primarie del PDL la presenza in lista di candidati inquisiti, pena il suo ritiro dalla competizione. Addirittura! E’ pur vero che l’on. Alfano ci ha abituato a performances di tutto rispetto quando da ministro di grazia e giustizia ha reso più impervio l’accesso agli sconti di pena, ha inasprito il regime del 41bis, ha concorso a rendere peggiori le condizioni di vita in carcere, ha disatteso i proclami con cui prometteva l’apertura di nuove strutture carcerarie e l’alleviamento della mostruosità del sovraffollamento, ma nessuno poteva immaginare che il suo rigore e il suo calcolo lo avrebbero spinto fino a invocare la mannaia contro dei semplici inquisiti, con buona pace della presunzione d’innocenza, della vocazione liberale e garantista sbandierata dallo schieramento cui appartiene, pur di concorrere in foia giustizialista con un Di Pietro qualsiasi, proprio quando Di Pietro comincia a mostrare la corda e servire la polpetta avvelenata a Berlusconi. E, per quanto si produca in una farisaica acrobazia che confina tra i reprobi dei semplici inquisiti e santifica come vittima il condannato Berlusconi, non la da a bere, a tutti appare evidente che, novello Bruto, egli ha tentato il parricidio senza peraltro riuscire nell’impresa. Il sopracciglio inarcato, il voto atteggiato a un cruccio pensoso, la maschera appunto, dicono di un uomo che ha grande considerazione di se ma che dietro la sua altezzosità fisiognomica nasconde solo il vuoto, l’incapacità di promuovere nuove sfide e convincenti ideali in alternativa alle lusinghe ammanniteci per vent’anni dal pifferaio magico, la mancanza dell’astuzia necessaria ad affrancarsi da una tutela ingombrante e della statura all’altezza di sorprendere il fianco scoperto del tiranno e liberarci di lui proponendosi in sua vece con una leadership credibile.    

giovedì 8 novembre 2012


 L’etica al potere

“In nome del popolo italiano ti assolviamo ma condanniamo l’immoralità dei tuoi comportamenti”. Per quanto iperbolico il testo di questa sentenza immaginaria fotografa un atteggiamento ricorrente nelle pronunce dei nostri magistrati. E’ il risultato di una convinzione diffusa secondo la quale il magistrato più che amministrare la giustizia e comminare le pene o concedere le assoluzioni obbedendo al codice penale, ha il compito di redimere la società obbedendo al codice morale e distribuendo patenti di purezza ai meritevoli o fustigando i reietti a sua discrezione. Al cittadino che non ha la colpa del reato e non può essere perseguito per essa, non si risparmia la colpa del peccato e con essa, se non una condanna penale pur sempre in agguato, una damnatio memoriae che lo accompagnerà come un marchio indelebile. Fra le vittime, alcuni reagiscono contestando con rabbia l’intrusione non dovuta nella sfera delle loro condotte, altri, i più fragili, soccombono vivendo l’oltraggio in maniera drammatica e somatizzandolo fino alle estreme conseguenze. Ho raccolto lo sfogo di un mio amico uscito malconcio ma indenne da una lunga vicenda giudiziaria, che non riusciva a capacitarsi di come, pur assolto, fosse stato dal giudice demonizzato con valutazioni di carattere etico che egli viveva peggio di una condanna. Mi mostrava i passi della sentenza che lo inchiodavano ad una valutazione moralmente impietosa delle sue condotte, tanto più corriva perché costretta a giungere a conclusioni penalmente assolutorie, e non riusciva a darsi pace. Sembrava quasi che la sentenza si rammaricasse di non avere potuto condannare l’imputato e si vendicasse con un colpo di coda moraleggiante. Sembrava dire: “Non sei colpevole di illecito ma sei colpevole di un peccato più grave: quello di indegnità morale.” Vedevo il mio amico soffrire indicibilmente di queste motivazioni improprie, lo vedevo rileggere la sentenza e ripetere come un mantra le parole che lo inchiodavano al disonore, lo sorprendevo mentre navigava in rete e si dannava commentando gli insulti di cui era fatto oggetto a causa di quella sentenza, lo vedevo spegnersi inesorabilmente. Mi confessava di sentirsi morire e, piangendo, mi chiedeva se meritava tutto questo, se era ragionevole che una sentenza di assoluzione gli procurasse tanta sofferenza, se era consentito allo Stato di spingerlo nel recinto dei reietti nel momento stesso in cui gli restituiva l’onore. Non ho fatto in tempo a dargli le risposte che mi chiedeva perché intanto è morto di crepacuore.

sabato 3 novembre 2012


Viaggio nel pianeta carcere

Mi accade spesso di sentirmi solo in mezzo ad una folla di estranei. E’ la mia condizione di ex detenuto che non si è assuefatto alla libertà dalle abitudini contratte in carcere. La vivo con un senso di vuoto che non riesco a colmare se non rifugiandomi nella scrittura e nei personaggi che con essa creo. Garcia Marquez sosteneva che la scrittura, se è buona scrittura, è l’unica felicità fine a se stessa. Non ho la pretesa di fare della buona scrittura ma mi accontento e vivo una dimensione che, se non è di felicità, almeno mi tiene compassionevolmente compagnia. Mi tuffo in essa e nella realtà virtuale che da essa nasce e vago attraverso i miei pensieri che fisso su carta. Ho come la sensazione di salvare idee che altrimenti andrebbero perdute e di costruire un mondo che, grazie alla mia penna, pulsa di una sua vita autonoma fluttuante in una sorta di limbo libero dai condizionamenti del mondo reale. La sensazione è estatica e mi fa sentire pieno di vita laddove la vita è solo una impostura, è il remake di un mondo al quale non riesco a rinunciare perché di esso porto il marchio indelebile e definitivo, è la coda velenosa di una condanna che continuo a scontare. Quando il volo è concluso e rimetto piede nella vita reale, avverto il senso amaro della sconfitta e la voglia di tornare nel mio mondo onirico, sento il peso di una esistenza che mi è difficile tollerare e la scellerata nostalgia di una seducente irrealtà. E’ allora che la mia mente si affolla dei fantasmi di compagni non dimenticati, dei riti che scandivano la mia quotidianità, delle abitudini che hanno incarcerato la mia psiche e da essi non voglio fuggire, ad essi mi aggrappo incalzato dalla mia solitudine. La mattina mi sveglio sapendo di dovere affrontare i miei fantasmi e rivivo passo passo ogni istante della mia vita in carcere. La sveglia la mattina alle sette e le successive fasi sempre uguali che si rincorrono monotone e pigre e intorpidiscono la mente, fino alle sette di sera quando col pasto serale si conclude la giornata che si ripeterà uguale per anni, per decenni, per sempre quando il fine pena è mai. Mi accompagnano le immagini degli ergastolani la cui fisionomia vedevo mutare nel volgere di pochi anni in volti impassibili dietro cui si celava la loro disperazione, che si ostinavano nella finzione di addomesticare un destino che si illudevano di considerare provvisorio, che progettavano di quando sarebbero tornati in libertà, che sorprendevo, quando credevano di non essere visti, mentre piangevano sulla loro sorte. Mi accompagna il ricordo della promiscuità di celle affollate in cui si consuma la rinuncia al pudore della propria intimità e si scoprono nei compagni nuovi familiari con cui condividere le miserie più intime. Mi accompagna il ricordo dei lunghi conversari, dei peripatetici dialoghi con compagni che guardavano alle banalità del mondo libero col distacco guadagnato in tanti anni di navigazione all’interno delle loro anime, assieme ai quali volavo in atmosfere rarefatte, il ricordo della levità di spiriti levigati dalla consuetudine col silenzio, della intensità di sentimenti impensabili in uomini attraversati da tragedie più grandi di loro, di corpi di compagni penzolanti senza vita dal cappio della loro resa, di sguardi spenti che emergevano dall’abisso di menti spappolate, dei confronti a muso duro con i secondini prime vittime di un sistema al quale la loro scelta li ha inchiodati al pari dei detenuti. Mi accompagna il silenzio di notti insonni popolate da nostalgie struggenti e di notti in cui cadevo in un sonno profondo durante il quale mi rifugiavo in una realtà parallela. Ricordo Annibale che tutte le sere aspettava l’appuntamento con i suoi sogni per varcare i cancelli e fuggire verso la libertà. Mi accompagna un senso di frustrazione che esorcizzo nel chiuso del mio studiolo dove realizzo la finzione di una celletta 4x4 e rivivo il mio mondo perduto. Penso ai miei fratelli murati, sciagurati figli di una colpa che non hanno saputo scansare, già fieri protagonisti di imprese scellerate divenuti mansueti comprimari di una sofferenza quotidiana alla mercé di una pena più grande della loro colpa, bubboni infetti guardati con orrore da una umanità impaurita e gesuitica che non riesce a perdonarli e li respinge demonizzandoli e cancellandone la memoria.