Nel supplemento del sabato del Corriere della Sera ho letto un graffiante articolo di Maria Teresa Meli che mi ha riportato indietro negli anni a ricordi sopiti. Nell’articolo intitolato “Per favore non disturbate l’ex detenuto Scaglia”, la giornalista scrive:
“C’è uno “sport” bipartisan molto in voga tra i politici. Si chiama la caccia al carcerato. Niente di efferato: siccome possono visitare le prigioni quando vogliono, perché questa è una delle loro prerogative, i parlamentari varcano spesso le porte delle patrie galere per controllare le condizioni di questo o quel detenuto. Incontrano quasi sempre personaggi eccellenti, raramente l’oggetto delle loro premure è un povero cristo. In genere vedono qualche assessore amico, sospettato di corruzione, oppure qualche pezzo grosso dell’imprenditoria inquisito per analogo reato. Così ottengono due scopi: attrarre l’attenzione sul “caso” del momento e su se medesimi. A praticare ogni tanto questo sport c’è anche il segretario del gruppo parlamentare del Pd alla Camera Roberto Giachetti. Per amore di cronaca, bisogna precisare che è un garantista vero, molto impegnato su questo fronte, uno che visita tutti, noti e ignoti. Qualche tempo fa, quando Silvio Scaglia, il fondatore di Fastweb, era ancora in prigione, Giachetti ha deciso di andarlo a trovare. Ma, meraviglia delle meraviglie, il manager non poteva: era ora di pranzo e voleva consumare il suo pasto in santa pace. L’esponente del Pd non l’ha presa male, anzi ha raccontato l’episodio ai colleghi ridendo: tanto lui non doveva farsi pubblicità e il fatto che se non la volesse fare nemmeno Scaglia lo ha colpito in positivo.”
La lettura di questo articolo mi ha fatto ricordare un episodio della mia detenzione e il protagonista dell’episodio, Nazareno Salluzzo mio compagno di cella.
Nazareno Salluzzo era alla sua prima carcerazione e la viveva coltivando l’illusione di una rapida conclusione favorevole della sua vicenda giudiziaria. Aveva letto l’ accusa che gli veniva rivolta di essere vicino ad un noto capomafia ed era convinto che la sua amicizia risalente ai banchi di scuola con il boss, non poteva costituire reato. Rivendicava il suo diritto a quel rapporto dal quale non risultava discendere alcun fatto illecito ed era fiducioso che, di fronte a tanta evidenza, presto tutto si sarebbe risolto positivamente. Non si rendeva conto il buon Nazareno del ginepraio in cui si era cacciato e di come la comune logica non aveva patria in un contesto in cui il sospetto veniva teorizzato come l’anticamera della verità. E infatti fu rinviato a giudizio con la prospettiva, se fosse andata bene, di scontare tre anni di carcere preventivo. Non si dava pace Nazareno e continuava a ripetere tra se e se che era una vergogna e che avrebbe messo in moto le sue conoscenze. Aveva svolto, prima dell’arresto, una discreta attività politica e aveva coltivato una rete di rapporti con compagni di partito che avevano scalato importanti cariche istituzionali e che, ne era certo, non si sarebbero dimenticati di lui. Leggeva di parlamentari i quali andavano a visitare in carcere personaggi eccellenti della politica e dell’imprenditoria e tuonavano contro le precarie condizioni dei detenuti e la lungaggine dei tempi della giustizia che costringevano a lunghe detenzioni galantuomini infangati da sospetti più che da prove certe. Nazareno esultava alla lettura di queste notizie ed era convinto che presto sarebbe toccato a lui, che qualcuno dei suoi amici sarebbe venuto a visitarlo e avrebbe denunciato l’ingiustizia alla quale lo stavano sottoponendo. Di uno più che di tutti gli altri era sicuro, dell’on. Patané che aveva, anche lui, conosciuto l’onta del carcere per una brutta storia di mafia dalla quale però era stato del tutto scagionato. Raccontava Nazareno dei momenti che erano succeduti alla scarcerazione quando l’on. Patané nel partito era guardato ancora con sospetto e si rifugiava in lunghe passeggiate con lui sfogando la sua amarezza e trovando in Nazareno un’attenzione paziente e partecipe. Era sicuro, Patané presto si sarebbe fatto vivo. Passarono mesi durante i quali Nazareno potè contare sulle visite dei suoi familiari, sulla solidarietà dei suoi compagni che tolleravano con pazienza le sue aspettative senza irridere alla sua ingenuità, ma non sulla visita di Patané. Senonché in prossimità della Pasqua si diffuse la voce che per la festività un parlamentare sarebbe venuto in carcere a portare solidarietà e conforto ai detenuti, l’on. Patané appunto. Nazareno non stava nella pelle per la soddisfazione, a tutti diceva che aveva avuto ragione lui, che, come lui aveva previsto, Patané stava arrivando, che era chiaro che l’obiettivo della visita era lui e assaporava la rivincita nei confronti di chi, ne era sicuro, non gli aveva creduto. Passò il tempo che lo separava dalla visita immaginando la scena del loro incontro, rimuginando tra sé e sé le cose che si sarebbero dette e pregustando la soddisfazione per l’invidia dei compagni. Il giorno di Pasqua Nazareno balzò fuori dalla branda all’alba e cominciò a prepararsi con la stessa cura con cui si preparava al colloquio di ogni giovedì con i familiari. Il colloquio era l’occasione della settimana in cui tutto veniva vissuto secondo rituali ben precisi, una passerella esposta al giudizio severo dei compagni, la vetrina in cui venivano esibiti i capi più eleganti e quel giorno Nazareno aveva un motivo in più per dare il meglio di se.
Quando finì di prepararsi, si sedette impettito e teso in attesa.
Trascorse tutta la mattinata e già si cominciavano a perdere le speranze di vedere l’on. Patané, i compagni si abbandonavano alle prime perfide battute all’indirizzo del povero Nazareno, quando, preceduto da un via vai di agenti, vedemmo spuntare in fondo al corridoio un corteo composto dalla direttrice, dal comandante e da altri personaggi che non identificammo e in testa a tutti lui, l’on. Patané che procedeva rivolgendo saluti e auguri a destra e a manca, fermandosi davanti a qualche cella a scambiare battute e avvicinandosi in direzione della nostra cella. Nazareno era paonazzo , con un sorriso stirato sul volto contratto, scalpitando nell’attesa, aggrappato alle sbarre del blindo fino a quando l’on. Patané non si materializzò davanti a lui. Questi guardò Nazareno stranito manifestando chiaramente lo stupore di trovarselo di fronte, imbarazzato e incerto sul da farsi, poi farfugliò: “Lei qua Salluzzo?”, quindi lo salutò con poche sbrigative parole e passò oltre proseguendo la visita. Nazareno pallido ed esangue girò le spalle al blindo, si avviò verso la branda dove si sedette per un attimo a riflettere, poi si distese bocconi, il volto affondato nel cuscino e rigato da lacrime copiose che ingoiava fra singulti di rabbia.
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