In una sua lectio magistralis Luciano Violante si è detto
allarmato perché “ in Italia sta nascendo una società giudiziaria e che ci deve
preoccupare questa concezione autoritaria per cui il Codice penale è diventato
la Magna Carta dell’etica politica. Si tratta di un segno di autoritarismo sul
quale penso valga la pena riflettere”. A questa lamentazione Massimo Fini su Il
Fatto Quotidiano ha replicato sostenendo a sua volta che “ una società
giudiziaria non significa assolutamente niente, è una pura tautologia. Ogni
società nel momento in cui assume la forma-Stato è giudiziaria perché in uno
Stato il cittadino rinuncia alla violenza e ne conferisce il diritto allo Stato
che ne assume il monopolio”. E naturalmente non ha perduto l’occasione per
denunciare un attacco alla magistratura. Tanto per cambiare la solita
contrapposizione ideologica perde di vista il cuore del problema, e il cuore
del problema non è tanto il rischio che in Italia si instauri uno Stato
autoritario quanto il fatto che la società giudiziaria siamo tutti noi,
divenuti il luogo dell’intolleranza giacobina in cui ogni condotta, anche se non
se ne è ancora provata l’illiceità, è sottoposta al giudizio insindacabile del
magistrato della porta accanto che si arroga il diritto di indossare la toga e
condannare la reputazione del vicino di casa sulla base degli spifferi che
fuoriescono dalle segrete carte delle procure, una società in cui il sospetto è
il sestante dei rapporti sociali e il campanello d’allarme che fa scattare la
caccia al colpevole in un clima da macelleria messicana. Certo lo Stato ci
mette del suo grazie alla disinvoltura di una certa magistratura che,
muovendosi sul terreno del fideismo piuttosto che su quello degli elementi
concreti, inchioda l’indagato ad una responsabilità non provata offrendolo in
pasto ai forcaioli, complice un giornalismo sensazionalistico che si presta all’operazione
di linciaggio trasformando l’avviso di garanzia in uno strumento di
mascariamento e consegnando il “colpevole” agli onori della prima pagina quando
ancora si è lontani dalla certezza della sua colpa. Se dalla presunzione di
innocenza siamo passati alla presunzione di colpevolezza, dobbiamo ammettere
che qualcosa non funziona e qualche domanda dobbiamo porcela. Perché si è
giunti a tanto? Indubbiamente vi si è giunti perché noi cittadini ci facciamo guidare dagli
impulsi delle viscere piuttosto che dalle categorie della mente e incoraggiamo
crociate moralisteggianti in un clima da stadio chiedendo la testa dell’indagato,
ma anche perché alcuni magistrati non si fanno pregare indulgendo alla
fascinazione populista e interpretando ad libitum la legge invece di applicarla,
per perseguire obiettivi ideologici. E’ così che si rischia un corto circuito
dalle conseguenze devastanti per la vita delle persone la cui unica garanzia è
l’onore di un potere indipendente che non risponde a nessuno tranne alla
coscienza delle proprie truppe e ad un organo di autogestione quale è il
Consiglio Superiore della Magistratura. Se un siffatto potere perde la bussola
e si trasforma in autoreferenzialità percepita non come servizio ma come esercizio
di una discrezionalità arbitraria ancella di interessi che nulla hanno a che
fare con l’amministrazione della giustizia, allora invece della giustizia si realizza
l’ingiustizia e con essa un attentato alla democrazia che non riesce a
garantire il cittadino. In Italia purtroppo questo rischio è incombente tanto è
che il vice presidente del CSM Legnini ha sentito il bisogno, condiviso dal Presidente della Repubblica, di invitare i
magistrati ad una maggiore sobrietà. Non credo che l’appello verrà ascoltato e
la tendenza a scambiare l’applicazione della legge con l’applicazione di una personale
convinzione ideologica è destinata a perpetuarsi e a crescere, con quali
conseguenze è facile immaginare. Grazie a Dio la nostra è una repubblica solida
e non corre rischi ma è giunto il tempo di meditare sugli aggiustamenti da
apportare alla gestione dell’attività giudiziaria, continuando a garantire
l’indipendenza della magistratura, ma al contempo garantendo maggiormente il
cittadino.
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mercoledì 18 ottobre 2017
venerdì 6 ottobre 2017
Le misure afflittive
Il nuovo codice antimafia approvato recentemente in
Parlamento estende le misure di prevenzione dai mafiosi ai corrotti. Le misure,
per chi non lo sapesse, vengono comminate in presenza di un sospetto di
condotta illecita senza l’obbligo da parte dello Stato di portare prove a
sostegno del provvedimento. Col nuovo
codice lo stravolgimento di un principio del diritto che vuole l’onere della
prova a carico di chi muove l’accusa, in passato imposto ai mafiosi, adesso
viene inflitto indiscriminatamente a chiunque odori di corruttela. Un vulnus
che finora ha riguardato solo i figli di
un dio minore e che non ha suscitato alcuna reazione di protesta, provoca
allarme nel momento in cui alza l’asticella e investe indiscriminatamente l’intera
società. Si è inaugurata una nuova stagione di caccia alle streghe e nel mirino
sono finiti tutti coloro che, ladri di
polli o capitani d’industria, prosseneti o frequentatori dei piani alti della
finanza, piccoli impiegati del catasto o grand commis, sono sfiorati dal
sospetto che vadano all’assalto della morale comune secondo le categorie del GA
(Grande Accusatore). Col nuovo editto bulgaro siamo affidati alle cure
amorevoli di uno Stato al quale è impossibile farla in barba, che monitora ogni
nostra azione e vigila contro l’arroganza di chi ha la faccia tosta di esigere
il rispetto di uno straccio di coerenza giuridica. Ci lasciamo alle spalle il
tempo del lassismo e andiamo festosamente incontro al tempo dell’efficienza
poliziesca. Adesso non si può, come in passato, intraprendere una qualsiasi
attività con la pretesa di farla franca, e ai buontemponi che rivendicano la
liceità delle loro condotte, i moralisti replicano che qualsiasi attività non
può dirsi lecita fino a quando non supera il test dell’illibatezza. Fino ad
allora, fino a quando non hai assolto all’onere della prova, sei un malfattore
potenziale da guardare con sospetto e perseguire con la severità dovuta agli
impudenti sostenitori della libertà di fare i propri comodi senza incorrere
nelle maglie della censura. E a chi protesta che fare impresa non significa
fare i propri comodi, la risposta è pronta, fare impresa è un attentato alla
pubblica moralità e alla sicurezza della società se non obbedisce a
imprescindibili canoni etici, alla vulgata del politicamente corretto, alla
crociata a favore dei miti sacralizzati dai sepolcri imbiancati. Da questo
momento in poi gli spericolati avventurieri che hanno il vizietto di fare
impresa sono avvertiti, debbono sapere che le categorie alle quali attenersi
non sono la competenza e la lungimiranza, non l’oculatezza della gestione e il
senso di responsabilità, non l’onestà e l’integrità ma l’obbedienza ad un
simulacro di legalità formale che pretende di profumare d’incenso ma che in
effetti ha l’afrore nauseabondo della demonizzazione ideologica. Debbono sapere
che in caso contrario saranno costretti a fare i conti con gli scherani di
Stato che vigilano contro l’assurda pretesa di chi rivendica diritti
fondamentali e imbrigliano la volontà di libertà con le provvidenziali misure
di prevenzione fondate sul nulla ammantato di legalitarismo. Siamo tutti
avvertiti, da oggi in poi, chi vuole dormire sonni tranquilli si iscriva all’albo
dei bacchettoni, si arruoli nell’esercito della salvezza dei pretoriani
d’assalto alla cittadella del diritto, stringa un patto che li preservi dalle
rappresaglie con chi ha il monopolio della giusta causa e viva serena la sua
miserabile esistenza nella casa del Grande Fratello di orwelliana memoria.
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