L’ho conosciuto una sera d’estate di tanti anni fa nella
terrazza del villino che Salvo possedeva a Punta Raisi. Il padrone di casa ci
presentò con la sua consueta sobrietà ma
anche con una inusuale eccitazione, frutto della considerazione che mostrava di
nutrire nei confronti di quel giovane attore, un Gigi Burruano allora
semisconosciuto ma di cui col suo fiuto infallibile intuiva il valore
inespresso. La sua vena di cacciatore di talenti aveva annusato il profumo
dell’arte e ricordo che, quando Gigi si accomiatò, Salvo, accompagnandolo con
lo sguardo come fissando un orizzonte lontano, mormorò: “E’ un animale da
palcoscenico, non recita, vive in ogni istante la sua vita come una commedia, è
un talento naturale”. Allora non capivo, avevo conosciuto un giovane dall’approccio
rude che mi era parso sgradevole e per certi aspetti volgare con quel suo
eloquio dialettale che indulgeva alla battuta greve, non immaginando di essermi
imbattuto in quella che sarebbe diventata la geniale maschera della Palermo più
autentica. Durante la serata Gigi, con l’immancabile bicchiere di vino in mano
e quel suo parlare strascicato, aveva urtato il mio senso estetico ma aveva
anche misteriosamente ammaliato la mia anima schizzinosa col suo istrionismo che
trovava la sponda nella risata di Salvo. Sopra la mia testa si svolgeva un
dialogo tra grandi che, nella mia piccineria, non coglievo. L’ho incontrato
qualche altra volta, e gli ho parlato di quell’incontro che stranamente
mostrava di ricordare e di ricordare bene perché nell’ironia del suo sguardo si
indovinava un’aria di compatimento per quel borghese piccolo piccolo che in una
sera d’estate di tanti anni fa aveva stampato in volto una insopportabile
espressione di supponenza.
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martedì 12 settembre 2017
mercoledì 6 settembre 2017
Politica e antipolitica
E’ sempre
più diffusa la tendenza a demonizzare la politica additandola come la causa
prima dei mali che ci affliggono, dimenticando che essa è da sempre, fin dalle
più antiche democrazie, lo strumento che permette al popolo di partecipare alla
gestione della cosa pubblica. Attraverso di essa infatti i cittadini affidano
ai rappresentanti che eleggono il compito di amministrare il bene della
collettività secondo un programma convenuto. Sostenere che la società civile è immune
da colpe e issare la bandiera dell’antipolitica come se fossimo vittime del
disegno ingannevole di un moloch lontano e a noi estraneo, significa fornire una lettura fuorviante e
ignorare che la politica riflette i meriti e i vizi di chi la esprime. E’ più corretto
accendere i riflettori sulla nostra società civile e provare a individuare il
nostro DNA. Scopriamo allora che noi italiani manchiamo di senso civico e della
cultura necessaria alla realizzazione del bene comune. Questo DNA è il nostro
capitale sociale e da esso scaturiscono i nostri mali. Non abbiamo saputo
vigilare e abbiamo permesso alle caste di appropriarsi delle nostre vite, di
erigere muri in difesa dei loro privilegi dettando le coordinate alla politica,
e così rendendola ancella di interessi opachi piuttosto che strumento al
servizio dei cittadini. Siamo alla mercé di associazioni che, grazie al vuoto
morale della società civile, realizzano il proprio tornaconto a spese della
collettività, in un intreccio perverso tra i soggetti coinvolti in cui la
corruttela e la disonestà intellettuale sono le sole norme di ispirazione. Il
disagio economico, il disprezzo dei diritti fondamentali, la morte della civiltà
giuridica, l’inganno dei farisei che sfilano in passerella esibendo promesse
che non manterranno, sono il prodotto delle società parallele che si sono insediate nei piani alti del potere, al
di sopra della politica, e hanno piegato le sorti del Paese al proprio
interesse, sottraendosi per di più alle verifiche del dibattito pubblico. Ad
alimentare l’impostura di una dialettica democratica inscenando la farsa di un
confronto tra le parti, provvedono i corifei del potere, fra cui parecchi
intellettuali dogmatici, autentici quisling in sedicesimo utilizzati quali
cavalli di Troia in seno alla democrazia, che fingono di indignarsi parlando il
linguaggio dell’intransigenza ideologica e tracciano il profilo del
politicamente corretto dettando i dogmi contro cui non è tollerato alcun
dissenso, pena il linciaggio. Sono minoranza nel Paese ma maggioranza
agguerrita nei salotti mediatici dove si addomesticano le coscienze e si
stabiliscono le verità additando alla pubblica esecrazione i dissenzienti,
tacciati di razzismo se pretendono una regolamentazione degli ingressi dei
migranti e si oppongono all’accoglienza senza se e senza ma, di eresia se osano dissentire dalla teologia
della liberazione di cui è campione questo Papa, di fascismo se si permettono
di mettere in discussione la costituzione più bella del mondo, icona
intoccabile difesa a parole e tradita nei fatti, e naturalmente di essere
mafiosi se osano contestare i luoghi comuni su mafia e antimafia. E a proposito
di luoghi comuni, un esempio di essi ci è fornito da Giovanni Belardinelli il quale in un suo recente editoriale, dopo
una dotta analisi sul fenomeno del corporativismo amorale, conclude che bisogna
fare una netta distinzione tra quest’ultimo e l’”associazionismo” mafioso,
dando naturalmente per scontato che l’associazionismo mafioso non teme
confronti. Tanto per cambiare viene intonato il solito refrain strumentale che,
fatta salva la buona fede di Belardinelli, serve all’antimafia dei privilegi e
degli affari per assolvere se stessa. Belardinelli ci dovrebbe spiegare perché non può essere
confuso con la mafia il corporativismo in doppio petto il quale, pur di
realizzare i propri interessi contro gli interessi del resto della società, non
ha esitato a determinare il tracollo della nostra democrazia, a soffocare
l’economia, a pregiudicare l’avvenire dei nostri giovani, a privare i cittadini
dei loro diritti fondamentali, a barare con la giustizia dandola in pasto a
giacobini assetati di sangue, ad allargare il fossato tra sempre più ricchi e
sempre più poveri, a corrompere, a condannare il nostro Paese ad arrancare in
coda alle nazioni europee, a uccidere vite e speranze e liquidare quel che
resta della nostra civiltà. In verità a doversi lamentare di essere confusi con
siffatti gentiluomini, dovrebbero essere proprio i mafiosi che al confronto fanno
la figura dei dilettanti e degli utili idioti buoni per tutti gli usi, soprattutto
buoni, grazie alla stupidità della loro ferocia che fornisce l’alibi adatto
alla bisogna, per fungere da espediente con cui distrarre l’attenzione dall’autentico
flagello della Nazione, il malaffare dei furfanti in marsina che falcidia gli
spiriti vitali dell’organismo sociale e, grazie a complicità ai massimi livelli, ottiene il salvacondotto dell’impunità
all’insegna della regina di tutte le battaglie, l’unica che conviene combattere
anche con mistificazioni e depistaggi, quella contro la mafia. Un bell’esempio
di ipocritamente corretto.
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