Il recente terremoto nel Lazio e nelle
Marche, ci ha proposto i soliti, disgustosi episodi di sciacallaggio
di cui ci indigniamo a maggior ragione perché perpetrati a spese di
popolazioni innocenti che non meritano certo l’oltraggio dell’uomo
dopo avere subito l’oltraggio della natura. Non proviamo invece
uguale indignazione tutte le volte che lo sciacallaggio viene
perpetrato nei confronti di una umanità meno innocente verso la
quale non nutriamo alcun senso di pietà e tolleriamo crudeltà
gratuite. Esso viene perpetrato molto più spesso di quanto non ce ne
rendiamo conto, e non ce ne rendiamo conto perché lo consideriamo la
giusta pena per una genere che abbiamo deciso di considerare
colpevole e meritevole di qualsiasi infamia. Nei confronti di esso
non è dovuto l’obbligo dell’onestà e anche un’azione estrema
come lo sciacallaggio è considerata moneta corrente senza che desti
scandalo. A questa umanità appartengo io, titolare di una notorietà
che non ritengo di meritare ma che mi è stata, mio malgrado,
imposta. La macelleria mediatica ha fiutato la preda e individuato
nel sottoscritto il personaggio su cui costruire pagine suggestive e
infedeli rispetto alla mia reale dimensione. Ricordo un episodio. Fui
avvicinato da un cronista giudiziario che va per la maggiore e che mi
propose una intervista. Rifiutai la proposta e con mia sorpresa il
mio interlocutore non insistette più di tanto, anzi mi diede
l’impressione di avere accettato il mio diniego con un sospiro di
sollievo. Mi spiegò egli stesso che, dopo essersi procurato
l’appuntamento con me, si era documentato sulla mia vicenda
giudiziaria e aveva scoperto la modestia delle mie imputazioni
rimanendo spiazzato. Mi confessò che non capiva il motivo di tanto
clamore attorno alla mia figura a fronte di uno spessore criminale
tutto sommato irrilevante. Il buon cronista in verità non capiva di
essere rimasto vittima di se stesso o, meglio, del mondo cui egli
appartiene. I cacciatori di streghe prima di lui avevano sparato su
di me ad alzo zero senza verificare la reale portata delle mie
“malefatte”, avevano creato il personaggio senza curarsi di
accertarne l’autentica consistenza e lo avevano dato in pasto
all’opinione pubblica consegnando all’immaginario collettivo il
falso mito di cui lo stesso mio scrupoloso interlocutore era rimasto
vittima. Di cosa disponeva infatti egli che valesse la pena di
raccontare? Può interessare un mediocre personaggio di seconda fila
del panorama mafioso condannato ad appena 7 anni e 8 mesi per mafia
senza neanche l’aggravante di esserne un capo, mentre invece nel
serraglio dei mammasantissima che affollano il mondo delle grandi
storie mafiose fioccano ergastoli o, bene che vada, decine e decine
di anni di detenzione? Non un’accusa di omicidio, non un’accusa
di traffico di droga, non un’accusa di estorsione, o, meglio,
un’accusa di tentata estorsione conclusasi con un’assoluzione
piena, non l’accusa di avere intrattenuto rapporti con personaggi
di grosso calibro della Santa Chiesa, anche se i mestatori della rete
mi attribuiscono un ruolo nella cura della latitanza addirittura di
uno dei dioscuri che hanno fatto la storia della mafia in Sicilia. Ma
allora perché tanto accanimento? Sicuramente un motivo va fatto
risalire alle attenzioni che la Procura di Palermo mi ha riservato.
Essa infatti, pur in presenza di una sentenza che mi ha condannato,
è vero, per associazione mafiosa ma ha escluso un mio ruolo di
vertice, e di due sentenze, una del Magistrato di Sorveglianza di
Spoleto e una del Tribunale per le Misure di Prevenzione di Palermo,
che hanno respinto la richiesta di misure di prevenzione a mio carico
non ritenendomi pericoloso, si ostina ad agitare lo spauracchio del
mafioso stella di prima grandezza nel firmamento mafioso, non
perdendo l’occasione per leggere ogni mio comportamento, anche il
più innocente, con la lente del sospetto, in base non a prove di una
mia reale pericolosità ma ai vaneggiamenti di un teorema che le
riesce difficile archiviare. Il povero cronista nelle mie carte
giudiziarie non trovò nulla che meritasse l’onore di un servizio
in prima pagina, disponeva solo della carta straccia di una mitologia
farlocca costruita dalle grandi firme dell’impostura al servizio
della Procura. Che cavolo di personaggio ero? Che cosa avrebbe dovuto
raccontare il cronista alla gente se io, lusingato dalle sue
attenzioni e in cerca di visibilità come i tanti affetti da malattia
mediterranea che si annacano, avessi accettato l’intervista?
Dell’intervista non se ne fece niente ed io continuo ad assaporare
il gusto amaro dello sciacallaggio che imperversa contro di me in
certa letteratura d’appendice spacciata per coraggiosa denuncia
contro la mafia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e li pago
sotto forma di linciaggio o, bene che vada, di rimozione da parte dei
benpensanti che boicottano tutto ciò che nasce da me. I frutti della
mia vena vengono demonizzati ancor prima di essere gustati e basta
andare in rete per leggere le idiozie di uno stuolo di carneadi
indignati che protestano contro la mia pretesa di propormi come
autore, di cui non conoscono l’opera che però demoliscono ab
origine, per il solo fatto che è scritta da un condannato per mafia.
Per non parlare poi dei maitres à penser, di quelli cioè che
determinano il successo o l’insuccesso secondo una logica ferrea
che esclude gli estranei al circuito magico, figuriamoci gli
appestati come me. Sollecitati dal mio editore ad una lettura
purchessia, anche critica, del mio romanzo, hanno opposto un ostinato
silenzio. Ho preso il coraggio a due mani e un paio di essi li ho
persino affrontati (non con atteggiamento mafioso, lo giuro)
chiedendo il motivo del loro ostracismo nei confronti di un evento
alla cui presentazione erano stati invitati, risposta: mi mandi il
libro, lo leggerò e le farò sapere. Risultato: anche in questo caso
silenzio assoluto. Chi invece ha perduto una buona occasione per
stare zitto, è stato un assessore comunale che, distrattosi, mi ha
concesso l’utilizzo di una struttura pubblica per la presentazione
del mio libro e che, accortosi quando ormai era troppo tardi, che il
beneficiario della concessione ero io, ha strepitato protestando di
essere stato ingannato. Anche lui ha confessato di non aver letto il
mio romanzo e che dunque parlava di ciò che non conosceva, ma questo
importava poco al nostro amministratore, non gli importava d’avere
permesso con la sua decisione lo svolgimento di un dibattito
culturale, anzi se ne rammaricava, quello che gli rodeva era non
avere potuto cogliere anche lui l’occasione per issare la sua brava
bandiera antimafia di maniera, come i tanti che ne fanno un uso
improprio pur di guadagnare uno straccio di visibilità.
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domenica 23 ottobre 2016
lunedì 3 ottobre 2016
Le delusioni d Ilaria Capua
In una lettera indirizzata al Corriere
della Sera Ilaria Capua ripercorre il suo calvario di indagata per
associazione a delinquere finalizzata a corruzione e traffico di
virus. Nientemeno! Una scienziata apprezzata in tutto il mondo
trascinata in una storiaccia così squallida! Certo, il censo non può
essere motivo di impunità e dunque se c’erano gli estremi la
signora Capua andava indagata. Ma c’erano gli estremi ed erano essi
tali da sfidare la statura di un simile personaggio? L’indagine è
una garanzia per l’indagato innocente perché l’esito lo
scagionerà e dissolverà qualsiasi dubbio sulla sua moralità, ma in
un Paese come l’Italia dove il sospetto è l’anticamera della
verità, un avviso di garanzia si traduce in un atto d’accusa e
l’indagato viene esposto all’onta del mascariamento. Questo è
quello che è accaduto alla signora Capua risorsa preziosa di una
Italia migliore, la cui credibilità avrebbe dovuto far nascere
qualche dubbio sulle accuse che le venivano rivolte, e il cui
prestigio andava maggiormente tutelato. Nei suoi confronti, vista la
sua levatura morale, si sarebbe dovuto adottare una maggiore cautela,
evitare di darla in pasto alla solita stampa famelica, e, una volta
archiviata l’indagine con il suo totale proscioglimento, si sarebbe
dovuto accertare se si era proceduto con avventatezza nel sostenere
l’accusa e, in caso positivo, presentare il conto a chi di dovere.
Vale per qualsiasi cittadino ma vale in particolare per la signora
Capua in considerazione della sua notorietà internazionale e
dell’eco che la vicenda ha avuto in tutto il mondo esponendoci ad
una figuraccia. Nessuno invece ha pagato o meglio, a pagare sono
state la signora Capua e l’Italia. Perché indurre una tale
scienziata a lasciare l’Italia e mettere a disposizione di un altro
Paese il suo sapere, indurre una parlamentare che avrebbe potuto
promuovere in questa veste iniziative a favore della ricerca, a
dimettersi, è una sofferenza gratuita per l’incolpevole Capua e un
danno incalcolabile per il Paese che essa è chiamata a servire. Che
delusione non sentire una sola voce di solidarietà levarsi a favore
della signora Capua ad opera di un qualsiasi rappresentante delle
istituzioni, non percepire alcun sussulto di indignazione e di
rammarico proveniente dalla politica per le conseguenze disastrose di
una vicenda che un minimo di decenza avrebbe dovuto scoraggiare,
nessuna denuncia contro la disinvoltura di un’accusa che si è
rivelata priva di riscontri! I responsabili di questo danno, i soliti
a caccia di notorietà a spese del personaggio di turno, andrebbero
messi nelle condizioni di non nuocere e invece no, come nel caso
Tortora, come nel caso Cucchi, come nei tanti casi di giustizia
allegra, nessun responsabile è individuato e punito, e il proposito
di Ilaria Capua di aprire un fronte del suo impegno sul versante
della giustizia in Italia, ora che ne ha conosciuto le delizie, le fa
onore ma è destinato a restare una illusione.
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