Pare che il nostro destino sia quello
di soggiacere al capriccio del Robespierre di turno che pretende di
mondare il mondo e, visto che c’è, dare una lustrata al proprio
ego. In un Paese in cui regole permissive permettono la consacrazione
di caste irresponsabili, l’arbitrio ha preso il posto della legge e
le nostre vite sono state consegnate a teoremi che obbediscono al
furore catartico di un giacobinismo cieco. Sono tempi in cui, caduti
i migliori sul fronte della lotta al male ma anche su quello
dell’onestà intellettuale, imperano i sacerdoti della morale
anziché del diritto che considerano la legge alla stregua di una
qualsiasi variabile indipendente dal rigore giuridico e la
interpretano, piuttosto che applicarla, secondo categorie che
obbediscono agli impulsi delle viscere e alle incitazioni delle
tricoteuses tumultuanti ai piedi del patibolo. Il risultato è il
trionfo di un giustizialismo becero di cui siamo vittime senza alcuna
difesa, perché non possono esserci difese contro azioni che non sono
sindacabili. Persino il legislatore, autolesionista e succube di un
garantismo a favore del più forte, ci regala storture al diritto che
ci espongono ancora di più all’arbitrio. Per esempio, il giudice
per le indagini preliminari può tranquillamente rinviare a giudizio
senza alcun obbligo di rendere conto del motivo di tale decisione,
mentre, se decide di prosciogliere, ha l’obbligo di motivare. Nella
maggior parte dei casi, ce lo dice la casistica, egli sceglie di
rinviare a giudizio perché, sia consentito il sospetto, non dovendo
motivare la sua scelta, non ha necessità di conoscere le carte e
studiare onerosi faldoni. Pazienza se il principio della parità di
diritti tra accusa e difesa va a farsi benedire, tanto ci penserà il
giudice del dibattimento a decidere della colpevolezza o innocenza e
poco male se ciò costa denaro pubblico e angoscia dell’imputato.
Il pianeta giustizia in Italia è una prateria in cui può accadere
di tutto. Può accadere che qualche PM, anche egli giudice e
obbligato dalla legge ad accertare la verità, ritenga di svolgere al
meglio questo suo ruolo perseguendo sempre e comunque l’imputato,
anche a dispetto dell’evidenza. Accade che un condannato per mafia
per fatti risalenti a qualche decennio fa, venga ancora oggi ritenuto
pericoloso e proposto per le misure di prevenzione. Non importa che
tali misure siano previste dalla legge solo in caso di pericolosità
attuale e cioè nel caso in cui sia ancora in essere un contributo
operativo all’attività criminosa, vale il principio secondo cui un
mafioso è pericoloso sempre anche quando viene accertato e
certificato dalle stesse forza dell’ordine che la sua pericolosità
è nel frattempo cessata. E’ un principio che si ispira a quella
che i tedeschi definiscono colpa d’autore, il marchio d’infamia
che bolla a vita il reietto e lo precipita nel recinto dei colpevoli
irredimibili in virtù del suo status, anche se egli nel frattempo è
diventato un santo (si fa per dire). Si, certo, la costituzione
prevede il recupero del reo, ma non è il caso di farsi tanti
scrupoli, dei mafiosi è sempre meglio non fidarsi. Accade che
qualche magistrato, affezionato al proprio teorema, incoraggi
l’immancabile collaboratore di giustizia ad accusare l’imputato e
ottenerne la condanna che il tempo e successive confessioni di segno
contrario di collaboratori più credibili si incaricheranno di
smontare, senza che alcuno paghi pegno. O meglio, il pegno lo paga il
disgraziato innocente che si è cuccato anni di carcere non dovuti
durante i quali il disinvolto magistrato ha continuato imperterrito a
fare carriera. Accade che, anche in presenza di assoluzioni da accuse
gravissime, i beni patrimoniali dell’imputato vengano ugualmente
confiscati in base al principio che l’assoluzione non esclude il
sospetto di collusione e l’accumulo illecito del bene confiscato.
Avete capito bene, non solo l’imputato innocente si è dovuto
sorbire il carcere e un lungo processo che ne ha sconvolto la vita
ma, invece di essere risarcito, viene punito. Che impari ad essere
assolto lo sfrontato! Accade che un imputato rimanga ostaggio della
sua vicenda giudiziaria per decenni durante i quali fa in tempo a
scontare il carcere preventivo previsto ancor prima che sia accertata
la sua colpevolezza, è condannato dal tribunale del popolo ancor
prima che dal tribunale dello Stato, perde la reputazione e il
patrimonio, giunge alla conclusione di un calvario che è già una
ulteriore condanna in sé, provato nel fisico e nello spirito, senza
più tanta voglia di niente che non sia quella di arrivare in
qualsiasi modo alla fine. Accade che la notte trascorre tra gli
incubi di una incursione dei birri che violano la tua intimità e ti
trascinano via in manette, e ti svegli con gli occhi sbarrati e
l’angoscia di dovere affrontare una giornata di schifo. Accade che
non si ha più tanta voglia di vivere. Questo accade in Italia, un
Paese in cui il cittadino che per sua malasorte si ritrova
catapultato nel girone infernale di un procedimento giudiziario, ha
il destino segnato.