Nell’articolo apparso sul Corriere della Sera di giovedì 3 Luglio,
a commento della scomunica ai mafiosi pronunciata da Papa Francesco, Corrado
Stajano definisce l’anatema un evento dal sapore evangelico, un grido
liberatorio contro un ambiguità secolare.
Stajano prende le mosse dalla descrizione della ferocia
delle mafie e della ‘ndrangheta in particolare, per fare una dettagliata
cronaca dei misfatti più crudeli della criminalità organizzata e bacchettare la
passata tiepidezza della Chiesa Cattolica, la sua incapacità di giungere prima
di Francesco alla scomunica.
Naturalmente Stajano, da abile giornalista quale è, sa
toccare le corde giuste, chi può non essere d’accordo con lui nella condanna di
un mondo sciagurato che ha causato tanti mali? Ma parlare di gesto evangelico
per definire una scomunica, mi sembra troppo.
Io sono fermo al Vangelo che predica misericordia, e a
Stajano, intollerante fino al punto di esultare per un gesto di intransigenza
religiosa ed allinearsi con una etica manichea che vede il male tutto da una
parte, chiedo se ha mai scoperchiato i tombini da cui fuoriescono i miasmi di
un universo scellerato di cui tutti siamo responsabili. Intransigente contro il
male che attenta al bene della società, si è mai chiesto se non ci sia anche un
male che la società infligge a sua volta e che gli schizzinosi sacerdoti del
perbenismo di facciata si guardano bene dal denunciare?
Cosa sa Stajano dei detenuti costretti a sopportare inumane
condizioni di vita in carcere, dell’ipocrisia di una normativa che proclama la
retorica del recupero e pratica l’emarginazione, delle angherie di uno Stato
che invece di dispensare giustizia, consuma vendette. Della promiscuità che
condanna a vivere come in delle stie una umanità privata della dignità e dell’amor
proprio, del dolore altrui che dilaga e invade, come una malattia infettiva,
anime già provate dal proprio dolore? E sa qualcosa Stajano dell’inferno del
41bis che seppellisce creature di Dio e le condanna alla pena più crudele,
quella di essere private dell’affetto dei propri cari, lì, a pochi passi, che
quasi li puoi toccare e ne sei impedito da un vetro divisorio per mesi, per
anni? Per mesi, per anni, non senti la loro carne, il loro odore, il loro
alito, il loro cuore che batte, e hai la sensazione sempre più disperante che
la loro carne, il loro cuore, i loro tratti si dissolvano in ectoplasmi sempre
più distanti, estranei, astratti.
Che ne sa Stajano di quello che passa per il cuore di un
ergastolano, delle sue terribili notti da affrontare quando i demoni si
avventano sulla sua fragile coscienza e li addentano tentandola al suicidio?
Che ne sa del suo disgusto per la viltà che l’attanaglia e
gli impedisce di compiere il gesto estremo, delle interminabili giornate
passate ad apparire forte mentre l’inferno arde dentro le sue viscere?
Che ne sa delle vittime innocenti, i familiari dei detenuti
costretti da una normativa che prevede la detenzione in carceri distanti dal
luogo d’origine e dalle ristrettezze finanziarie, a diradare i colloqui e
perpetuare una lontananza che col tempo fa sfiorire gli affetti?
Sicuramente Stajano non sa niente di questo inferno e sennò,
ne sono certo, avrebbe levato, fermo e sdegnato, il suo grido di condanna dal
sapore, oltre che politico e civile, anche evangelico!