Faccio appena in tempo a pubblicare il mio ultimo post prima
di tornare in carcere.
è fatta.
Torno in carcere da innocente perché, nonostante la sentenza
di condanna definitiva, continuo a proclamarmi innocente, e perché vado a
scontare una pena non dovuta. La cassazione infatti mi ha concesso una
riduzione di pena che,sommata alla liberazione anticipata,fa andare in pari il
mio conto con la giustizia. Il problema è che la liberazione anticipata è
legata ad una indagine che si prenderà il suo tempo durante il quale dovrò
restare in carcere indebitamente. Non mi abbandono all’ipocrisia di ostentare
compostezza nei confronti di una sentenza che mi ha inflitto una condanna
ingiusta e di uno Stato che, senza attendere di sapere se ero innocente o
colpevole,
ha preso in ostaggio la mia vita per sedici anni.
Di uno Stato che non ha saputo apparire al di sopra di sospetti
infamanti per drammatici avvenimenti ancora oggi ammantati di mistero, che per
alcuni eventi ha dirottato le colpe su degli innocenti, che ai più alti livelli
istituzionali è stato investito dal sospetto di collusione con la mafia, che ha
ucciso Tortora premiando i suoi carnefici, di questo Stato di camarille e di
boiardi che infliggono angherie e torti, di organismi di garanzia che non
sempre appaiono al di sopra delle parti, di taluni magistrati che si ritengono
privilegiati titolari di una impunità guadagnata grazie a coperture
corporative, che hanno la spudoratezza di impossessarsi per sedici anni della
vita di un uomo, che fanno dei teoremi verità processuali, che litigano
pubblicamente lasciando trapelare inquietanti realtà sotterranee e gettando
discredito su un corpo che, grazie a loro, appare come un qualsiasi contenitore
di interessi inconfessabili, di uno Stato simile faccio a meno ritenendolo immeritevole di svolgere le funzioni
istituzionali di rappresentanza e di garanzia, di esercitare il diritto di
giudicare ed emettere sentenze.
Si dice che le sentenze vanno rispettate e ci mancherebbe,
ma doverle rispettare non ci impedisce di poterle criticare quando ne
dissentiamo. Esse sono pur sempre il risultato di un convincimento, lasciamo
stare se libero o arbitrario, che, in un sistema giudiziario dogmatico e
autoreferenziale quale è il nostro, possono produrre pronunce ingiuste, come
nel mio caso.
L’ingiustizia della sentenza che mi condanna risiede già
nell’anomalia su cui si fonda l’impianto accusatorio con il quale è stato
imbastito il mio processo. In esso infatti appare evidente che manca l’elemento
essenziale di qualsiasi processo, il cosiddetto “habeas corpus”, la contestazione di un reato specifico. E’
solo contestata la reputazione mafiosa e cioè la presunta appartenenza ad un
contesto di valori ritenuti eticamente censurabili ma che non hanno fatto in
tempo a tradursi in atti penalmente rilevanti. Non altro.
Eppure il mio giudice non ha esitato ad accogliere acriticamente
l’impostazione accusatoria e, al contrario, ha guardato con sospetto alle tesi
della difesa facendo mancare il requisito di terzietà e scrivendo una pagina
nuova in fatto di principi giuridici.
Ha accettato come prova la convergenza del molteplice anche
quando è apparso evidente che a convergere era solo l’inganno del dichiarante
che ripeteva notizie apprese da altri o faceva dichiarazioni palesemente false
e contraddittorie, ha accettato il principio del “non poteva non sapere” introducendo
la nuova categoria giuridica della responsabilità oggettiva per determinare la
responsabilità penale, ha ritenuto attendibili collaboratori di giustizia che
mentivano e che erano già stati smascherati
in altri processi conclusisi a favore dell’imputato proprio in virtù
dell’inattendibilità dei collaboratori. Ha di contro ritenuto inattendibili i
testimoni della difesa sostenendo che essi hanno reso dichiarazioni compiacenti
per favorirmi, senza tuttavia denunciarli per falsa testimonianza.
E’ stato celebrato un processo in cui le ragioni dell’accusa
e della difesa non hanno avuto pari dignità, è stato consumato, a mio avviso,
un processo ingiusto.
E tuttavia avrei accettato senza battere ciglio questa
condanna, pur reputandola ingiusta, se l’avessi ritenuta frutto di un onesto
errore. Di condanne ingiuste è piena la storia delle vicende giudiziarie e
l’errore del magistrato è nella logica delle cose. Ma del magistrato non posso
accettare la malafede, quel suo pregiudizio che gli fa piegare la verità a
teoremi precostituiti e tradurre il libero convincimento in arbitrio, nella
consapevolezza di non dovere rispondere delle proprie responsabilità. Costi
quel che costi, denuncio questa sentenza nella quale si annida una disonestà
intellettuale che è sorda al richiamo del vincolo morale e al contempo vi
ricorre mischiando diritto ed etica e facendo valutazioni che attengono alla mia
reputazione per giudicare e condannare un mio preteso peccato anziché un mio
reato. E’ così che in questo processo la certezza del diritto è diventata certezza
della pena tanto più quanto più è risultata incerta la colpa.
E mi lamento anche dei tempi della giustizia.
Lo Stato che impone al processo tempi biblici, non ha più il
diritto di giudicare un uomo che, dopo tanti anni, non è più lo stesso uomo di
prima. Qualunque sentenza esso emetterà nei confronti di quest’uomo sarà una
sentenza ingiusta. Lo dice Veronesi:”Fino a pochi anni fa pensavamo che con il
tempo aumentassero le sinapsi, i collegamenti tra neuroni. Oggi abbiamo
scoperto invece che il cervello è dotato di cellule staminali proprie e dunque
si rigenera. Quindi automaticamente il nostro cervello può rinnovarsi. In
effetti ognuno di noi può sperimentare come il suo modo di sentire e di pensare
non è più quello di dieci anni prima, ma il ragionamento ha più forti
implicazioni a livello della giustizia, perché il detenuto non è più la stessa
persona condannata tanti anni prima”.
Lo dice Nietzsche quando afferma che il tempo fa l’uomo
diverso da ciò che era prima. E lo dice Beccaria quando sostiene che una
sentenza, per essere giusta, deve avere il requisito dell’immediatezza affinché
appaia evidente il rapporto di causa ed effetto tra reato e pena.
Quando invece, come nel mio caso, si è permesso che
trascorressero sedici anni dall’inizio del processo prima di giungere ad una
sentenza definitiva, non si può più sostenere che sia rimasto in vita un rapporto
di causa ed effetto tra me e il mio processo perché io, ormai diverso rispetto
a ciò che ero prima, sono diventato estraneo ad esso, di esso semmai sono diventato
vittima e l’unico vero imputato è rimasto lo Stato colpevole del reato di
tortura per avermi inflitto un calvario
giudiziario infinito durante il quale ho subito una violenza che mi ha segnato
irrimediabilmente. Sedici anni di processo sono una pena ulteriore e ancora più
crudele rispetto agli otto anni di detenzione inflittimi, perché per sedici
anni la mia vita si è fermata ed è stata privata della possibilità di voltare
pagina, di recuperare il tempo di cui è stata spogliata e ricomporre i tratti
di una identità sfregiata, come sarebbe avvenuto se il processo si fosse
concluso in tempi fisiologici. A settantacinque anni, nonostante le numerose
patologie che mi affliggono, alcune delle quali contratte per lo stress di
questa vicenda sciagurata, lo Stato mi
costringe a scontare gli ultimi pochi mesi di una pena ingiusta in quelle corti
dei miracoli che sono le carceri italiane e continuerà, anche dopo l’espiazione
della pena, ad ipotecare la mia
esistenza con un provvedimento cautelare, previsto in sentenza in aggiunta alla
pena detentiva, da scontare fuori dal carcere. Nel 1998 si è impossessato della mia vita e
non è escluso che seguiterà a possederla fino all’ultimo dei miei giorni che,
alla mia età, può arrivare da un momento all’altro.
Tuttavia non mi arrendo, se il tempo me lo concederà, pur
con le unghie spuntate, continuerò a lottare, mi sforzerò di trascinare questo
Stato incapace di garantire equità, al cospetto di un giudice nei confronti del
quale non potrà far valere le sue imposture.
Ci rivedremo dunque e sapremo se l’Europa, erede dei Lumi e intestataria della Convenzione per la salvaguardia dei
Diritti dell’Uomo, è ancora in grado di risarcire
un suo cittadino per i torti subiti da un Paese, l’Italia, che da tempo si è consegnato
alla barbarie.