Visualizzazioni totali

martedì 25 dicembre 2018

Natale 2018


Bello il Natale, bello il solito rituale dei sentimenti buonisti solennemente proclamati  e non autenticamente sentiti, belle le famiglie raccolte attorno al focolare domestico intente, come ogni anno in questi giorni, a mentire sui buoni propositi che saranno puntualmente disattesi, bello il trionfo delle luminarie per le strade e lo splendore delle luci nelle vetrine dei negozi traboccanti di doni luccicanti che sono un insulto alla miseria, bella la solidarietà per gli ultimi compuntamente declinata  ma dimenticata per il resto dell’anno, belle le tavole riccamente imbandite e la crapula smodata i cui avanzi prenderanno la via dei cassonetti dove i poveri andranno a rovistare, belle le roboanti omelie degli improvvisati apostoli della carità gonfi del sacro fuoco che metteranno in soffitta non appena sarà calato il sipario sulla scena della rappresentazione in cartellone, bella l’ipocrisia di un farisaico e mieloso afflato umanitario che durerà lo spazio di un mattino, bello il grido del Papa contro lo scandalo della povertà mestamente destinato a cadere nel vuoto di coscienze pie, bella l’aria ecumenica che invita a volerci bene mentre il pugnale che colpirà alle spalle si nasconde tra le pieghe dell’inganno, bello il clima festante che ignora il dolore del mondo. L’eco del clamore pagano arriva nelle stanze della tortura ed aggiunge dolore a dolore infliggendo una pena ancora più crudele della pena consueta. L’eco crudele giunge nelle carceri e nelle bidonville, nei lebbrosari dei malati terminali, nelle mense in cui si consumano le lacrime distillate da pasti non consumati, nei luoghi della discarica in cui la società abbandona gli anziani, inutili resti di una umanità che fu, nel desolato mondo dei  reietti  esclusi dal consorzio cosiddetto civile, in tutti i luoghi dove l’uomo ha rinnegato se stesso. A tutti giungono proclami che non dicono nulla e si aggrappano sconciamente alla inadeguatezza di una pietà che pronuncia parole vuote, così come è vuoto l’augurio di buon Natale.


venerdì 23 novembre 2018

Angeli e demoni

Si avvicinò con un sorriso sdentato e timido mimando con l’indice e il pollice il segno dei piccioli e bofonchiando: “Scusassi, scusassi”. L’aspetto era miserevole ma lasciava trasparire un trascorso stato di  benessere dal quale quell’uomo vestito di una modesta ma linda grisaglia si era  dimesso per ragioni che erano testimoniate dalla sua dentatura irrimediabilmente consunta. La carie aveva cavalcato in compagnia della incipiente indigenza ed era stata l’avanguardia dello stato di povertà assoluta nel quale quel borghese piccolo piccolo sarebbe stato traghettato. I denti guasti erano il biglietto da visita della sua  condizione di  nuovo povero che, impegnato a tentare di arginare la rovina economica incombente, non aveva avuto tempo, testa e risorse per occuparsi  dei denti che stava perdendo. Ora era  troppo tardi e se ne andava in giro a questuare all’insegna di quel suo sorriso osceno. Fermo davanti a me, il capo chino,  in un’attesa priva di speranza, si illuminò di stupore quando si accorse che armeggiavo col portafogli alla ricerca di una banconota da offrirgli. Chissà dove viveva, chissà dove dormiva! Ad un tratto mi vennero in mente i ritratti della galleria dei reietti nei quali mi sono imbattuto durante la mia vita. Mi ricordai di quel distinto signore che, sorpreso a rovistare nel cassonetto dell’immondizia all’imbrunire quando il pudore trova riparo nelle prime ombre della sera, si giustificò con aria colpevole e lo sguardo implorante, dicendo che era impegnato a cercare qualcosa di suo che, chissà come, era andato a finire nel cassonetto. Ricordai il suo imbarazzo e le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi spalancati in un abisso di disperazione. Mi ricordai di Aldo e Giovanna agghindati e sorridenti mentre, reduci dalla messa pomeridiana nella Chiesa della Mercede, passavano con aria noncurante davanti al Boccone del Povero e, guardandosi circospetti attorno, sgattaiolavano nei locali della mensa. Mi ricordai di Cecilia e Alberto raggomitolati sotto una coperta di fortuna al riparo nei portici della Chiesa di San Michele che, stretti in un abbraccio d’amore, le mani rinsecchite dal freddo abbrancate le une alle altre, accoglievano con un sorriso grato gli angeli della notte che portavano un pasto caldo. Mi ricordai di Costanza, tosta e annerita dalla fuliggine del fuoco acceso ai bordi della tenda nella quale era accampata e che divenne la sua urna funeraria quando le fiamme la inghiottirono. Mi ricordai di Giovanni che diede un calcio ai suoi sogni di promettente studente di filosofia e, come Diogene, si rifugiò nella sua botte di frustrazione dalla quale usciva con sguardo furente. Mi ricordai di me migrato dall’opulenza all’indigenza dopo avere attraversato un pezzo della mia vita popolato da incubi. Mi chiesi allora, con l’irritazione di chi non capiva, perché tanti nostri connazionali si spingono negli angoli più sperduti del mondo per offrire la loro solidarietà a bisognosi lontani invece che ai nostri. Sennonché ho letto gli insulti che sul web sono piovuti addosso alla povera Silvia Romano, la ragazza rapita in Kenia, “colpevole” della sua generosità in un posto così lontano, e mi sono vergognato della mia irritazione, anche perché non ho attenuanti. Sono onorato dall’amicizia di una donna straordinaria che spende la sua esistenza per gli altri senza porre confini geografici o di pelle alla sua generosità. Dovrei sapere che cosa muove l’animo di persone come la mia amica e Silvia Romano, così distanti anagraficamente e così vicini nel modo di intendere la loro vita, donandola agli altri senza confini e senza pretendere nulla in cambio. La mia amica non ha dimenticato lo slancio dei suoi vent’anni e continua a sognare, dobbiamo sperare che, quando ci verrà restituita, Silvia, a dispetto della sua terribile esperienza, continuerà ad amare e anche lei a sognare e così riscattare l’umanità dall’infamia degli sciacalli che appestano il mondo dei social e non solo quello.                
                                        

giovedì 1 novembre 2018

L'etica dei nuovi governanti


Ero convinto con Churchill che la democrazia fosse la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre, ma ci ha pensato Di Maio a mettere in crisi le mie convinzioni: grazie a lui ho scoperto che non c’è niente di peggio di una democrazia capace di eleggere alla guida del Paese uomini come il nostro vicepremier. Non varrebbe la pena di aggiungere altro all’impareggiabile palmarès di questo incorreggibile gaffeur, ma le performances che egli sforna a getto continuo suscitano reazioni pavloviane cui è difficile sottrarsi. Uno che prima di governare l’Italia si è distinto per avere ricoperto l’alto incarico di steward al S.Paolo di Napoli, si permette di trinciare giudizi sui massimi sistemi senza avvertire i limiti della sua inadeguatezza. Seduto sul trespolo, questo campione del rigore politico che già ci aveva folgorati sulla via dell’impeachment al Capo dello Stato e ci aveva deliziato sulle “manine” che, secondo lui, hanno inserito “a sua insaputa” norme in provvedimenti del governo di cui lui è una delle guide, adesso si produce nell’ultima delle sue imprese bacchettando nientemeno che Mario Draghi colpevole di “ avvelenare nonostante sia italiano il clima ulteriormente”, solo perché ci mette in guardia dai pericoli dello spread. Come se fosse scontato che Draghi, per il fatto di essere italiano, debba rinunciare alla sua indipendenza di giudizio e compiacere Di Maio. Evidentemente al nostro giovane ministro sfugge il dettaglio che Mario Draghi è il Presidente della BCE, che il suo ruolo gli impone l’obbligo di proteggere le sorti dell’economia europea da iniziative che ritiene rischiose per esse e gli da il diritto di esprimere il suo dissenso forte e chiaro in assoluta autonomia persino rispetto al suo passaporto. E’ chiaro che svolgendo il suo incarico con rigore e competenza come ha dimostrato di sapere fare Draghi guadagnandosi il rispetto e la stima del mondo intero, fa anche l’interesse dell’Italia non avallando iniziative scriteriate come pretende Di Maio e anzi mettendo in guardia il suo Paese da quelli come lui. Ma stiamo parlando di una etica che sfugge al nostro statista il quale si  abbevera alle farneticazioni della rete e disprezza il sapere, considerandolo una forma di arroganza. E a proposito di etica, un breve commento in margine alle reazioni suscitate dalla sentenza di Strasburgo che ha condannato l’Italia per avere continuato ad applicare il regime di 41 bis  a Provenzano nonostante le sue condizioni di salute. Contro di essa dalle parti dell’universo gialloverde, in particolare da parte di Salvini che nella circostanza ha definito l’Europa un inutile baraccone,  si sono levate, puntuali,  indignate proteste per quella che ritengono una invasione di campo e un tentativo di mettere in discussione il 41 bis, e si è sostenuto che nessun diritto è stato violato visto che Provenzano è stato curato al meglio in una struttura ospedaliera. E’ appena il caso di ricordare a questi misericordiosi farisei che anche gli animali destinati al macello vengono pasciuti con gli alimenti migliori affinché le loro carni arrivino nelle tavole dei consumatori più saporite. Ma qui si sta parlando di un uomo e del suo essere ontologicamente inteso prescindendo dai suoi predicati accidentali, di cui ha scritto un certo Aristotele, e non credo che lo Stato italiano, il quale giustamente ha inflitto a Provenzano le dure pene che meritavano le sue colpe, abbia rispettato negli ultimi suoi giorni di vita il suo essere in quanto tale prescindendo dalle sue colpe. Credo piuttosto che  l’Italia si sia lasciata prendere la mano dal ricordo della empietà di Provenzano e in omaggio ad essa abbia tollerato che un uomo ridotto a vegetale continuasse a subire la tortura del 41 bis. E’ questo che ha sanzionato Strasburgo, non il 41 bis in sé, e questo, con tutto il rispetto per il punto di vista dei nostri censori,  è un richiamo alla giustizia da non confondere con la vendetta.



venerdì 26 ottobre 2018

La favola della democrazia diretta


I nuovi arrivati ai vertici del potere, in preda ad una insopprimibile sindrome di  hybris, ci ossessionano con il mantra della legittimazione elettorale: secondo questi signori, i soli che meritano di essere presi in considerazione sono gli eletti anche se inetti. Issati a bordo del potere a furor di un popolo con la bava alla bocca che ha come unico scopo quello di farla pagare a chi li ha li ha lasciati eredi del disastro attuale, questi miracolati non hanno saputo cogliere l’occasione offerta dalla loro buona stella e trasformarla in opportunità. Nella presunzione che il suffragio li esima dalla competenza, non hanno avvertito il senso del ruolo insperatamente conquistato e non si sono sforzati di realizzare il bene dei cittadini con l’arte del possibile ma, al contrario, si sono prodotti in una vera e propria eterogenesi dei fini proponendo rimedi che rischiano di peggiorare anziché migliorare le condizioni di salute dell’ammalato. Si scagliano contro la democrazia rappresentativa che affida il compito di governare alle élite selezionate attraverso un lungo percorso formativo, pretendendo di realizzare la cosiddetta democrazia diretta che manda al potere i campioni di un velleitarismo e di un pressappochismo il cui indirizzo all’azione politica è dettato dal gradimento di una base fanatica che trasmette veleni anziché saggezza. Il coraggio della solitudine degli uomini di Stato che sanno andare controcorrente pur di fare il bene comune, è un ingrediente che non appartiene agli attuali governanti  i quali sanno solo perseguire l’obiettivo contingente del consenso ad ogni costo, anche a costo di sfasciare la macchina dello Stato. Evocano pericoli esterni, si scagliano contro fantomatici poteri forti e contro l’Europa matrigna (che ha tanto da farsi perdonare per avere tradito la sua vocazione solidale adottando una politica restrittiva che ha scoraggiato la crescita, fatto diminuire il PIL,  aumentare il debito e ha contribuito a innescare rigurgiti “sovranisti”,  ma alla quale non c’è alternativa che non sia l’isolamento con  conseguenze facilmente immaginabili), quando invece l’unico vero pericolo arriva dai mercati, giudici inflessibili che non cedono alla suggestione dei proclami. I numeri, veri indicatori del nostro stato di salute, dicono che lo spread ha superato quota 300, che il nostro debito pubblico è il più elevato d’Europa, dopo quello greco, che lo spettro del piano B è ancora dietro l’angolo nonostante le rassicurazioni, che l’aumento del deficit rispetto al PIL serve solo alla spesa corrente e ad alimentare un assistenzialismo improduttivo e non una  crescita che nelle proiezioni degli analisti è addirittura dato sempre più  in coda al treno europeo, che prima o poi si porrà mano alla falcidia dei risparmi privati, che i proclamati investimenti pubblici e le ventilate riforme strutturali sono smentiti dalla tentazione di abbandonare alla incompiutezza opere straordinarie e strategiche per il futuro del Paese, con enormi ricadute in termini di occupazione e sviluppo, quali la Tav, la Tap, il tunnel del Brennero scavato già per 90 chilometri e costato 1,8 miliardi,etc., e di imbarcare nel carrozzone pubblico aziende decotte come l’Alitalia. Questo scenario da ultima spiaggia è sotto gli occhi dei mercati i quali traggono le loro conclusioni con spietata coerenza. Cercare altrove responsabilità è strumentale e disonesto.          

sabato 13 ottobre 2018

Travaglio


Durante un duello televisivo con Severgnini, Marco Travaglio ha sentenziato: “Due istituzioni, FMI e Bankitalia non sono elettivi e non possono permettersi di dire ai governi quali leggi devono fare, quali devono mantenere, quali non possono cambiare e quali possono cambiare. Avrebbero semmai potuto dire che le stime di crescita del governo sono troppo ottimistiche e questo è quello che hanno detto agli altri governi. Invece con questo governo hanno fatto qualcosa di più, hanno detto che cosa non si può toccare. Io capisco che a tanti non importa che la maggioranza degli elettori chieda che siano riformati il iobs Act e la legge Fornero e sia introdotto il reddito di cittadinanza ma, purtroppo, fino a quando nella Costituzione ci sarà scritto che la sovranità appartiene al popolo, la sovranità apparterrà al popolo e non a Bankitalia o al FMI. Quando il popolo si pronuncia e premia due forze che vogliono riformare delle leggi queste ultime vanno riformate. Si può criticare quelle forze che non trovano le coperture ma non gli si può dire che cosa possono o non possono fare, perché quelle scelte riguardano la politica”. In un suo editoriale apparso sul Corriere dell’altro ieri il prof. Cassese sostiene esattamente il contrario. Egli infatti, commentando la dichiarazione dell’on. Di Maio che invita Bankitalia a candidarsi alle prossime elezioni affermando che solo ricevendo il mandato dalla volontà popolare essa può sindacare l’azione del governo, scrive: “Per il vicepresidente del Consiglio tutto il potere discende dal popolo ed è sempre il popolo che, mediante le elezioni, deve pronunciarsi. La democrazia è ridotta ad elezioni e anche i vertici della Banca d’Italia debbono presentarsi all’elettorato o sottostare alla volontà del governo. Questa è una versione romanzata della democrazia che, invece, ha al suo interno poteri e contropoteri, non tutti con una investitura popolare diretta. Le corti giudiziarie, la Corte costituzionale, le autorità indipendenti, le università, sono corpi autonomi, alcuni garantiti come tali dalla Costituzione.” E procede spiegando che cosa è il pluralismo in democrazia, come si impedisce la tirannide della maggioranza e si garantiscono i diritti individuali nei confronti dell’opinione e dei sentimenti prevalenti grazie ai pesi e contrappesi che servono a equilibrare i poteri dello Stato, come ci hanno insegnato pensatori quali Alexis de Tocqueville e Stuart Mill le cui idee sono state alla base della democrazia moderna. La lezione del prof. Cassese dovrebbe servire a far capire a Travaglio che la sovranità popolare non può tutto e va esercitata solo entro i confini posti dal dettato costituzionale il quale peraltro attribuisce ad altri poteri altrettanta sovranità non condizionabile. Che è vero che agli eletti dal popolo non si può dire quello che debbono fare ma è altrettanto vero che gli si può benissimo dire quello che non possono fare. E  una cosa che non possono fare, neanche in omaggio alla volontà del popolo, è sfasciare lo Stato. Ci sono gli anticorpi costituzionali che l’impediscono e dovrebbe esserci anche il buonsenso degli stessi eletti i quali debbono sapere esercitare il loro ruolo di guida e discernere ciò che la dura realtà consente di fare, contrastando l’assalto all’albero della cuccagna dei loro stessi elettori e scoraggiando istanze che, ahinoi, appartengono al libro dei sogni. E’ nobile tentare di correggere una realtà che tutti riconosciamo ingiusta e fanno bene i nuovi governanti a tentare di farlo purché non si lascino prendere la mano dalle loro buone intenzioni e non ci raccontino la favola dell’abolizione della povertà. Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno tanto per citare il buon Marx e non è il caso di buttare con l’acqua sporca anche il bambino. E tanto per essere chiari, come fa giustamente notare il prof. Cassese, 16 milioni di votanti che hanno premiato i due partiti di governo, non sono la maggioranza degli italiani aventi diritto di voto.

venerdì 12 ottobre 2018

Saviano


Da cronista impegnato a inseguire per i vicoli di Scampia notizie sui fatti di sangue della camorra, a icona della galleria delle patacche allestita dai sacerdoti del politicamente corretto, Saviano ne ha fatta di strada. Star  tra le più ambite nei salotti che contano, al punto da essere stato ricevuto all’Eliseo e avere vissuto una serata da protagonista a casa di Bernard-Henry-Lévy, idolo dei talk show che se lo contendono trattandolo come un oracolo, egli è l’esempio di come dal nulla nasce un mito. La fulminea escalation del guaglione rampante si inquadra nella necessità della nomenklatura intellettuale imperante di sostituire vecchi arnesi, contrabbandati per anni quali paladini dei diritti fondamentali e nel frattempo andati in pezzi, con nuovi  campioni improbabili ma utili ad alimentare il mito di un déjà-vu caduto in disgrazia. E’ una necessità che non riguarda solo la galassia italiana tanto è che  l’inossidabile Bernard Henry-Levy, cui non fa certo difetto la faccia tosta e che è stato uno degli artefici della crociata contro Gheddafi millantando la difesa dei diritti umani, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, non pago del suo capolavoro, si è lanciato nella nuova titanica impresa di portare sugli scudi nientemeno che Saviano difficilmente individuabile quale titolare di meriti che giustifichino la sua accoglienza come ospite d’onore in uno dei salotti più esclusivi dell’intellighenzia francese. Pur di issare uno straccio di vessillo ideologico lo spocchioso Henry-Levy è disposto ad accontentarsi di un tribuno che ha saputo dargliela a bere, senza star lì a fare troppo lo schizzinoso. D’altronde in fatto di patacche la Francia non è seconda a nessuno, avendo essa ospitato nientemeno che nelle vesti di rifugiati politici, fior di galantuomini come Toni Negri e Cesare Batisti, fatte naturalmente le debite differenze. I nostri intellettuali dal loro canto, a corto di argomenti e di eroi, sconfitti in tutti i campi in cui si sono cimentati e dove hanno lasciato solo macerie,  hanno eletto a loro campione Saviano il quale non si è fatto pregare e, investito del ruolo, non ha esitato a proclamarsi la coscienza più autentica di una Italia virtuosa. Ispirandosi a categorie manichee egli stabilisce cosa è giusto o cosa non lo è, chi è santo e chi è diavolo, se condannare Salvini che, essendo un diavolo non può non avere violato la legge, e assolvere Mimmo Lucano che ha, si, violato la legge ma con i panni del santo. Niente di nuovo in un universo che da sempre procede per dogmi, in cui si fa valere il principio di due pesi e due misure a seconda della categoria di appartenenza, ma non lamentiamoci poi se i barbari sono alle porte. Nessuno disconosce i meriti e il coraggio di Saviano dimostrati nella sua denuncia dei misfatti della camorra e l’idea di privarlo della scorta è insensata, ma è altrettanto insensato fare di lui il re travicello che decide che cosa è giusto e cosa non lo è. Il signor Saviano costruisca pure sulla sua vicenda una fruttuosa rendita di posizione ma per carità non pretenda di colonizzare le nostre coscienze raccontandoci che la sua coscienza è più consapevole e candida della nostra.

mercoledì 3 ottobre 2018

Di Maio


Se fossimo un popolo che ha a cuore il proprio destino dovremmo sentire il puzzo di carne marcia che esala dal nostro organismo in putrefazione. Siamo un Paese allo sfascio e la finanza allegra alla quale si dedicano i grillini ricorda l’anima spensierata dei governanti che li hanno preceduti e lasciati eredi di vizi antichi. Questi strani personaggi piombati sulla scena politica e il loro capo, l’on. Di Maio, più che a politici somigliano ad un allegra brigata di fanciulli che si baloccano con un giocattolo più grande di loro trotterellando sul cavallo a dondolo della decrescita felice.  L’on. Di Maio ha nel volto glabro di bambino mai cresciuto le fattezze di un pierino capriccioso che scambia le favole con la realtà e fa le bizze se non viene accontentato. Calca la scena nazionale e internazionale come fosse il cortile di casa e gioca le partite dei grandi dove sono in ballo le sorti delle nazioni come una partita a tresette nel circolo di quartiere.  Il guaio è che egli è solo la punta dell’iceberg di una massa informe, incapace di pensare, sedotta dagli spin doctor che manipolano le menti e drogano la rete inserendo in essa veleni che incitano alla rivolta e producono refrains demenziali. Siamo alla dissennatezza in libera uscita e Di Maio ne è l’interprete più autentico. Vedere all’opera il nostro vice presidente del Consiglio fa tremare i polsi. Poiché è stato eletto dal popolo l’on. Di Maio ritiene di potersi permettere tutto, anche di infischiarsi della Costituzione e di ribaltare prassi collaudate, piegare uomini e regole ai suoi capricci, chiedere avventatamente l’impeachment contro il Capo dello Stato, fare la guerra alle autorità indipendenti accusandole di essere nemiche del popolo, fuggire dalle proprie responsabilità ed evocare fantomatici congiurati che tramano nell’ombra, condurre battaglie che appaiono generose ma che sono velleitarie. La battaglia in difesa dei più deboli di cui pretende di farsi unico interprete l’on. Di Maio, è sacrosanta e non è certo lui che ce lo deve ricordare perché essa rientra tra i compiti fondamentali della politica, ma è altrettanto saggio non fare correre nel nome di questa battaglia rischi mortali al Paese con ricette suicide. Ed è sacrosanta anche la battaglia contro la finanza globale che ha ormai preso il sopravvento sulla politica, una battaglia che però deve sapere recuperare anziché demonizzare la politica, l’unico strumento, se utilizzato in maniera virtuosa, di cui disponiamo a sostegno della stessa sopravvivenza della democrazia e della lotta a favore dei più deboli. Gli avversari politici infine non sono nemici da mettere all’indice solo perché osano opporsi al dogma del pensiero unico predicato dal nostro, essi al contrario hanno il merito di dare un contributo di idee che possono essere condivise o no ma che sono legittime e utili al dibattito politico. Issato dal popolo ai vertici dello Stato, preso di sé e della presunzione di operare miracoli come nientemeno quello di abolire la povertà, l’on. Di Maio svolge diligentemente e più o meno consapevolmente il ruolo di utile idiota al servizio del famigerato piano B di cui si è infatuato probabilmente perché non ha ben ponderato la portata delle conseguenze che ne deriverebbero. Quando da piccoli giocavamo a mosca cieca capitava spesso di dovere fare i conti con bizzosi compagnetti che non accettavano le regole del gioco e pretendevano di imporre quelle che gli suggeriva l’educazione al soddisfacimento del loro ego impartita da genitori inadeguati. I progenitori di Di Maio, purtroppo per noi, non sono inadeguati ma perfidamente capaci di confezionare il pupo che interpreta fedelmente la parte che gli è stata assegnata. Ci sorge però un dubbio, forse non abbiamo capito un bel nulla, forse non abbiamo capito che il nostro Richelieu pensa con la propria testa e ha una propria strategia, quella cioè di andare ai materassi (lo ha scritto a suo tempo Grillo), cavalcare l’ira della gente perpetuando un clima di conflitto in cui agitare la solita bandiera populista che colmi il vuoto nel quale volteggia la sua distopia e, anche grazie alla concessione di mance assistenziali, continuare a incassare dividendi elettorali. Un’altra spiegazione potrebbe essere la voglia di rivincita di chi, baciato dalla fortuna, si è ubriacato del suo nuovo stato, ha perso il senso della misura e, come tutti i nuovi arricchiti, si prende la sua brava rivincita abusando del potere conquistato e illudendosi così di riscattare il suo passato di travet.  E l’interesse del popolo? Quella è un’altra storia che non ha niente a che vedere con la battaglia dell’on. Di Maio.

venerdì 21 settembre 2018

L'Europa dei Rodomonte


Prima la signora Bachelet che ha messo nel mirino l’Italia, adesso il signor Asselborn, ministro degli esteri del Lussemburgo che aggredisce  Salvini reo di avere affermato che in Italia non abbiamo bisogno di schiavi e che se proprio ci tiene sia il Lussemburgo ad accoglierli, e finisce in bellezza con un perentorio “et merde, alors”. Sembra proprio che quando si tratta dell’Italia tutti si scoprano dei giganti. Ce lo meritiamo perché non abbiamo mai saputo proporci in Europa in modo credibile, abbiamo sottovalutato il nostro ruolo in seno ad essa, abbiamo gestito i nostri conti in maniera da dovere piatire continuamente deroghe alle regole comunitarie, ci siamo fatti la fama di Paese poco affidabile e il risultato è che viene facile anche all’ultimo arrivato mancarci di rispetto. La responsabilità chiaramente non è dei nuovi governanti ma di chi li ha preceduti, di coloro cioè che, impegnati a specchiarsi nelle acque del loro narcisismo e a darsi battaglia circumnavigando il proprio ombelico, non hanno saputo dare alla loro azione politica un respiro internazionale, non hanno saputo fare nulla per evitare la retrocessione dell’Italia nella fascia dei Paesi ininfluenti e anzi hanno fatto di tutto con la loro inadeguatezza perché ciò accadesse. Ormai fuori gioco, questi signori sanno solo guardare scandalizzati all’avanzata dei” barbari” e tentare di screditarli tifando per Bachelet e Asselborn, e poco importa se, così facendo, si schierano contro il loro Paese ma soprattutto contro una onesta narrazione dei fatti. Se parliamo dei nuovi arrivati le cose non vanno meglio. Seppure incolpevoli del disastro che hanno ereditato, essi sono colpevoli delle conseguenze che sta producendo il loro dilettantismo incapace di affrontare l’emergenza con il buon senso e il pragmatismo che la situazione impone. Anche loro infatti, sudditi di una ideologia stracciona, invece di studiare e trovare soluzioni adatte alla bisogna, invece di fare analisi lucide e adottare decisioni che servano a sanare il disastro che hanno trovato, non hanno saputo fare di meglio che cavalcare la rabbia della gente inseguendo traguardi irreali e, se parliamo di Europa, ingaggiando un braccio di ferro che non possiamo permetterci e che ci aliena le simpatie dei più. Il risultato è che persino un signor Asselborn qualsiasi si può permettere di trattarci come ha fatto. Perché poi? Se è vero che Salvini ha usato il termine schiavi, è pure vero che il signor Asselborn ci ha marciato in assoluta malafede. Quando infatti Salvini, oltre a illudersi che le nostre donne procreeranno nuove forze lavoro, afferma che l’Italia non vuole accogliere nuovi schiavi, non intende etichettare spregiativamente i migranti ma fare l’ovvia considerazione che una accoglienza offerta in un contesto che non è in grado di integrarli dignitosamente, rischia di avviare questi disgraziati ai lavori più degradanti se non addirittura al malaffare e all’accattonaggio, in definitiva ad una nuova forma di schiavitù. E l’invito al Lussemburgo di accoglierli a casa propria non può suonare offensivo per un Paese che si dice solidale. Dove è dunque lo scandalo? Si ha come l’impressione che non si riesca a perdonare a Salvini la colpa di esistere e gliela si voglia far pagare censurandolo anche quando dice cose ragionevoli.  Non è una forma di razzismo oltre che una mancanza di garbo istituzionale quella che il signor Asselborn riserva al nostro ministro quando lo contesta immeritatamente e lo apostrofa con quei toni, lanciando addirittura il microfono sul tavolo? Per una volta che Salvini riesce a non andare fuori dal seminato ci pensa il signor Asselborg a non farci mancare atteggiamenti da bullo. Che lezioni ci può dare poi un signore che rivendica al Lussemburgo il merito di una della pagine più nere della migrazione europea? Quando l’ineffabile ministro degli esteri lussemburghese si vanta dell’accoglienza riservata dal Lussemburgo ai migranti italiani nel dopoguerra, sembra non rendersi conto che i nostri poveri compatrioti in quelle contrade vissero una vita disumana e molti di loro, 136 per la precisione, morirono nell’inferno di Marcinelle. Di che cosa dunque mena vanto il signor Asselborn e Salvini che fa? Proprio lui che ci ha abituato ad un profilo tonitruante quando gioca in casa, non ha saputo rimbeccare questo galantuomo col giusto piglio. Siamo messi veramente bene! Fortunatamente la spacconata del signor Asselborn ci salva dal gradino più basso, c’è chi sta peggio di noi, ma ciò non toglie che siamo incapaci e imbelli.

sabato 15 settembre 2018

Totò Cuffaro e la sua nuova coscienza


Presso l’aula dell’ARS intestata a Piersanti Mattarella si è svolto nei giorni scorsi un convegno sul sistema carcerario e sul disagio dei familiari dei detenuti, promosso dall’on. Figuccia, relatori Salvatore Cuffaro, ex detenuto, come recitava la locandina, il prof. Fiandaca ed altri che si sono succeduti con i loro interventi. Sia il parterre che il tavolo della presidenza offrivano un bel colpo d’occhio. La gente era tanta, come accade quando scende in pista l’ex presidente della Regione Siciliana, e confesso che una così folta presenza mi ha fatto dubitare della sincerità di quella partecipazione. In un Paese come l’Italia in cui i benpensanti, bene che vada, storcono la bocca quando si parla di carcere e, se sono in vena di giustizia sommaria, chiedono che la cella diventi la tomba del detenuto, non c’è da farsi molte illusioni. Cuffaro gode tuttora di parecchio seguito ed era difficile distinguere tra l’affetto che gli ancora numerosi seguaci nutrono per lui e l’interesse sincero per l’argomento oggetto del dibattito. La materia non è facile da affrontare, bisogna essersi sporcati veramente le mani per sapere di cosa si parla, bisogna avere sudato lacrime e sangue per sapere esprimere appieno l’idea di che cosa è la condizione del detenuto. Non è solo il corpo che viene imprigionato, è l’anima la vera vittima di una necrosi che uccide lo spirito giorno per giorno e ti trascina in un abisso senza ritorno se una mano pietosa non ti soccorre. Ebbene i relatori del convegno hanno saputo rendere il senso di questa tragedia, hanno preso per mano l’uditorio e l’hanno guidato passo passo nei sentieri  di un percorso accidentato narrandone tutte le asperità e ricevendone in cambio una partecipazione attenta e commossa. Sul versante strettamente tecnico il prof. Fiandaca ha messo l’accento su alcune storture del sistema carcerario denunciando l’uso strumentale della legalità e la mancanza di coraggio della politica che si guarda bene dal prendere il toro per le corna e affrontare come si deve un problema tanto serio, temendo una ricaduta negativa in termini elettorali. Il prof. Vitale e la prof.ssa Lo Curto ci hanno esortato a non dimenticare che i detenuti sono delle persone, che la solidarietà è una moneta che rende più di quanto non pretenda, che tutti siamo colpevoli, persino i magistrati i quali, invece che nell’eremo delle loro coscienze, a volte decidono secondo categorie ideologiche e di appartenenza, che la detenzione non può essere fatta scontare in modo afflittivo ma deve sapere afferrare per i capelli uomini che possono essere redenti e a volte salvati da se stessi prima che decidano di farla finita. I toni sono stati toccanti e hanno avuto l’apogeo nell’intervento di una ragazza disabile che dalla sua carrozzina ci ha ammoniti contro il demone del pregiudizio. E naturalmente la chiusura è stata tutta per Totò Cuffaro al quale nessuno deve insegnare quali sono le corde da toccare. Ha descritto la sua sofferenza ma soprattutto la sofferenza dei suoi ex compagni di pena che non ha dimenticato e ai quali offre il contributo del suo impegno e della sua testimonianza mettendosi in gioco anche a rischio di essere azzannato dai forcaioli di turno. Chi come me ha vissuto lo stesso destino di Cuffaro si è sentito a casa, al riparo dalla damnatio, risarcito dopo anni di emarginazione, in quell’aula che porta il nome di un martire, ha percepito che quel martire da lassù approvava, che in quell’aula si stava onorando la pietà mentre fuori da essa andava in scena il  siparietto di una sparuta pattuglia di irriducibili che si esibiva nel solito, logoro copione all’insegna dell’intolleranza.      

giovedì 13 settembre 2018

L'ONU ovvero dell'improntitudine


La signora Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’ONU di recente nomina, ha esordito col  botto. Secondo lei l’Italia sarebbe un Paese razzista al punto da dovere essere sottoposto alla verifica degli ispettori dall’ONU. Da che mondo è mondo il bue chiama cornuto l’asino e allo stesso modo la signora Bachelet, rappresentante di un organismo che ha perduto la sua credibilità avvitandosi in imbarazzanti contraddizioni proprio sul tema dei diritti civili, pretende di impartire lezioni ad un Paese come l’Italia. Non sempre si possono condividere le sparate di Salvini ma stavolta non si può non essere d’accordo con lui quando afferma che l’ONU non si può permettere di accusare di razzismo un Paese che è in testa alla lista delle nazioni che prestano opera di volontariato in tutti gli angoli del mondo e che sul proprio suolo ha fatto approdare e in parte accolto più migranti di qualsiasi altro Paese europeo. Né noi italiani possiamo essere liquidati come razzisti solo perché qualche idiota, che rappresenta solo una infinitesima parte di quel caritatevole popolo che è il popolo italiano, si abbandona a qualche gesto di intolleranza. La signora Bachelet ha tutto il diritto di esprimere il suo dissenso sul provvedimento che ha bloccato a bordo della Diciotti 177 migranti per diversi giorni, ma non quello di disporre una ispezione sul nostro territorio trattandoci alla stregua di uno dei tanti Paesi dall’incerta connotazione democratica di cui trabocca l’ONU e contro cui proprio l’ONU, chissà perché, si guarda bene dall’intervenire. Da noi, grazie al cielo, gli anticorpi funzionano, esiste una magistratura che vigila e che nella fattispecie si è mossa prontamente agendo contro quello che, a torto o a ragione, ha ritenuto un reato, non c’è dunque bisogno di gendarmi esterni, abbiamo le nostre istituzioni che funzionano egregiamente e sanno essere un efficace baluardo dei diritti. Evidentemente gli occhiuti commissari dello strabico organismo internazionale si sono distratti e hanno colpito il bersaglio sbagliato rivolgendo all’Italia accuse che dovrebbero rivolgere all’Europa per il cinismo con cui essa ignora il problema dell’emigrazione riversandolo tutto sulle spalle dell’Italia. E’ bene chiarire che un conto è la disposizione discutibile di trattenere per giorni centinaia di migranti sulla Diciotti, un altro conto è correre ai ripari chiudendo i nostri porti alle navi che soccorrono i migranti esattamente come fanno tanti altri Paesi affacciati nel Mediterraneo e quelli dell’entroterra che chiudono le loro frontiere. Il nostro giro di vite serve proprio a risolvere nell’interesse dei migranti un problema che da soli non siamo in grado di affrontare o che rischiamo di affrontare male e non può diventare pretesto per mettere  in dubbio la nostra umanità e la nostra proverbiale disponibilità all’accoglienza. In base a quale principio i migranti dovrebbero approdare tutti sulle nostre coste e perché, se tentiamo di impedirlo, siamo accusati di razzismo, mentre  invece gli altri Paesi possono tranquillamente adottare una politica di respingimento senza dovere temere nulla? E’ una domanda che poniamo alla solerte signora Bachelet  rappresentante di un organismo che ha eletto alla presidenza del Comitato Consultivo del Consiglio dei diritti umani nientemeno che l’Arabia Saudita paladina, come tutti sappiamo, dei diritti umani. Ed è una domanda alla quale dovrebbero rispondere certi personaggi della nostra sinistra i quali, come al solito, hanno perduto una buona occasione per tacere.

martedì 21 agosto 2018

Genova


A Genova si è consumata una tragedia e, come se non bastasse, i corvi si sono avventati sul dolore dei genovesi per farne mercimonio. Una vicenda che non doveva accadere, che doveva essere gestita con la sobrietà che le circostanze imponevano, ha dato la stura alla consueta litigiosità italiana. Siamo un popolo dalle due facce, capace di gesti di eroismo e di solidarietà uniche al mondo, che nella circostanza ha saputo stringersi con amore attorno a Genova, ma che nella stessa circostanza si è reso protagonista di condotte imbarazzanti ad opera dei soliti disinvolti uomini politici. La sobrietà, il dolore  e la volontà sincera di porre mano ai rimedi che il disastro imponeva, una emergenza che esigeva di far quadrato e di trovare una unità di intenti, hanno lasciato il posto a una girandola di accuse e giudizi sommari di iconoclasti invasati. E’ stato il festival delle cadute di stile. Ha cominciato la nuova maggioranza alla quale non è parso vero di fare della tragedia un’occasione ghiotta per sferrare un attacco agli avversari aizzando la piazza e fomentando voglie di vendetta pur di lucrare un minimo di consenso, ma dimenticandosi di quando definiva una “favoletta” il pericolo di crollo del ponte e giudicava inutile un’opera come la Gronda. Per di più si è avventurata con la solita approssimazione in propositi che non hanno nulla da spartire col buon senso e il rigore che una materia così delicata imporrebbe. Fa un certo effetto sentire affermare dal Presidente del Consiglio che bisogna sbarazzarsi immediatamente della concessionaria Autostrade senza attendere “le lungaggini della giustizia”. Come fa un certo effetto sentire il ministro Toninelli preannunciare che si costituirà parte civile contro la suddetta concessionaria, ignorando che proprio il suo dicastero, in quanto responsabile dei controlli sulla manutenzione del ponte, potrebbe essere chiamato anche esso in causa. In questo caso che cosa fa il signor Ministro, si costituisce parte civile contro se stesso? Evidentemente i suoi burocrati non hanno fatto in tempo ad avvertirlo. Procedendo nella carrellata delle minzioni fuori dall’orinale, segnaliamo l’attivismo del signor Casalino, improbabile portavoce dei penta stellati, il quale non ha avvertito alcun senso di vergogna quando, nel momento stesso in cui si svolgevano i funerali di Stato delle vittime, ha inondato di messaggi i siti dei giornali invitandoli a dare risonanza alla notizia delle ovazioni al suo boss, l’on. Di Maio. L’animo del signor Casalino vibra di commozione per il tributo riservato al suo capo più di quanto non riesca a fare per l’atmosfera di dolore che si respirava durante le esequie. Per la sua parte la concessionaria Autostrade non è stata da meno fottendosi del dolore dei familiari delle vittime e preoccupandosi, a caldo e con i cadaveri ancora fumanti, di rivendicare il suo diritto a non essere intaccato nei suoi interessi. Sull’antica maggioranza è meglio stendere un velo pietoso. Essa è ritenuta (a torto o a ragione, si vedrà)  la compagine che ha concesso un autentico monopolio ad un privato e che ha avuto nei confronti di esso un atteggiamento compiacente tanto da autorizzare sospetti inquietanti, ed è percepita come corresponsabile del disastro. Ha balbettato accusando i legastellati di sciacallaggio e imbastendo un maldestro tentativo di difesa del proprio operato che è sembrato una difesa d’ufficio della concessionaria. Un vero e proprio autogol!  Tra veleni e voglie di rivalsa la politica, come si vede,  non ha saputo superare i suoi conflitti, non ha saputo affrontare facendo fronte comune una tragedia che riguarda tutti, rimboccandosi  le maniche per ricostruire quello che è stato distrutto e rinviando a tempo debito la resa dei conti. 43 persone sono morte, una città è in ginocchio e attende risposte dalla politica che non siano il solito déjà vu. E attende anche giustizia. Se dagli atti delle indagini dovessero emergere incuria, mancanza di prevenzione e di controlli, se dovesse risultare che la tragedia di Genova è frutto della collusione tra una finanza vorace e una politica infedele, che ai vertici  della politica e della imprenditoria siede una corruttela che in questa vicenda si è fatta prendere la mano dall’improvvisazione e dall’ingordigia e ha sacrificato sull’altare del profitto 43 vite come usa nelle più spietate mattanze di mafia, si abbia il coraggio di mirare in alto e di punire con esemplare severità.

martedì 7 agosto 2018

La pena di morte


La pena di morte
Ci tocca tornare a parlare dei reietti dopo che il Papa ha deciso di riscrivere il catechismo affermando che “la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”. Il Vangelo, secondo la lettura intransigente del Papa che, per inciso, contraddice posizioni di diverso avviso di alcuni Padri della Chiesa, non consente all’uomo di violare la vita concedendogli solo la libertà di viverla, seppure con sofferenza, in obbedienza al volere divino. Che dire? Riesce difficile condividere una logica che non lascia spazio al libero arbitrio dell’uomo e non gli permette di ribellarsi al destino persino quando esso condanna al dolore. E tuttavia anche per chi si schiera dalla parte del Papa si impongono alcune riserve. Cosa significa infatti parlare di dignità della persona come fa il Papa limitandosi ad ammonire che la pena di morte attenta ad essa ma ignorando che la dignità reclama ragioni alle quali è la vita stessa ad attentare più che la morte? Che dignità è quella vissuta da chi vive in stato di costrizione senza prospettiva che questa condizione cessi se non con la morte? E’ la condizione degli ergastolani, dannati che muoiono ogni giorno vivendo una vita apparente, che trascinano le loro giornate scandite dal suono dei loro passi sempre uguali e sempre più stanchi, uomini murati vivi che cercano di dare un senso ad una esistenza senza più ragioni, diventati, dopo decenni di carcere duro, estranei a se stessi, avanzi dolenti dell’antico contesto, ossessionati dal pensiero onirico latente di quell’infido appuntamento estremo che è il suicidio, vittime di quella che Girard chiama “vendetta inutile”, frutto di una società in cui “il malvagio e il debole non possono cadere più in basso della peggiore bassezza che c’è anche in tutti noi…..perché, come una foglia non impallidisce senza la muta complicità di tutta la pianta, così il malvagio non potrà nuocere senza il tacito consenso di tutti noi” (Kahlil Gibran). Invocano la morte come una liberazione mentre guardano all’orizzonte infinito del fine pena mai. E’ un contesto nel quale la persona è privata della propria dignità dalla vita piuttosto che dalla morte. In queste condizioni la vita non merita di essere vissuta e la Chiesa non può restare sorda alla pietà limitandosi a proclamare il mantra della sacralità della vita anche quando essa è una parvenza di vita. Per gli ergastolani la morte è una grazia anche quando è comminata dallo Stato o è decisa dalla volontà di ciascuno alla resa, e la Chiesa deve avvertire l’imperativo misericordioso di lasciare morire in pace chi è già morto dentro.


mercoledì 25 luglio 2018

La tortura


Scontare la vita morendo come sosteneva Anassimandro? Pagare con la morte e prima ancora con la sofferenza la colpa di esistere? La vita con la sua crudeltà sembra dar ragione ad Anassimandro e l’uomo appare vittima di un ingiusto destino. Da sempre ci si interroga sul perché del male senza riuscire a trovare una risposta soddisfacente, tutti però conveniamo sull’obbligo morale dell’uomo di porre, per quanto gli è possibile, un argine ad esso. In un recente commento all’opera di Nietzsche, Claudio Magris, a proposito del male, scrive: “La tragedia infame dei deboli, degli oppressi, degli sfruttati, dei malati, dei torturati, dei massacrati è il cancro del mondo, contro cui è necessario e così difficile combattere”. Combattere Il male dunque è un imperativo categorico e anche quando la violenza si impone come accade allorché lo Stato priva della libertà il cittadino che si macchia di un reato, essa non può andare oltre i confini previsti dalla legge e trasformarsi in violenza gratuita o addirittura sconfinare nella tortura. Purtroppo spesso questi confini non vengono rispettati. Quando pensiamo a Gabriele Cagliari il quale, dopo quattro mesi di “canile” (è la definizione da lui data alla detenzione nell’ultima lettera ai suoi familiari) nel carcere di San Vittore prima che fosse accertata definitivamente la sua colpevolezza, devastato dal dolore e dalla vergogna, ha posto fine alla sua vita, quando pensiamo ad Enzo Tortora il quale, accusato di essere un trafficante di droga e un venditore di morte, è stato lasciato marcire in carcere per mesi da magistrati che si sono rivelati inadeguati al ruolo, prima di essere riconosciuto innocente, e di lì a poco è morto di crepacuore, quando pensiamo al suicidio di Raul Gardini rimasto stritolato nel terribile gioco al massacro di una stagione carica di veleni in cui il tintinnio delle manette era il refrain ricorrente, quando pensiamo ai 7 innocenti condannati all’ergastolo per l’eccidio Borsellino grazie al depistaggio di funzionari dello Stato e riconosciuti innocenti solo dopo 15 anni di detenzione non dovuta, quando pensiamo ai tanti indagati che finiscono sulla graticola dell’inquisitore e, ancor prima di essere condannati da un tribunale della Repubblica, sono condannati alla gogna ad opera della folla tumultuante che li lincia in piazza, e alcuni di essi decidono che non valga più la pena di continuare a vivere, quando pensiamo ai detenuti in regime di 41 bis i quali  la loro vita la perdono un pezzo al giorno trascinandosi in un incubo che annulla qualsiasi parvenza di umanità (Jean Paul Costa presidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato: “Ancora per l’Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa, con pesanti rischi per la salute psichica del carcerato”), quando pensiamo ad alcuni poteri dello Stato, dalle cui decisioni dipende la vita e la reputazione di ciascuno di noi, che trasformano la loro indipendenza in arroganza e impunità e non si curano della giustizia ma della loro volontà di potenza, non possiamo non dirci allarmati e non è esagerato parlare di tortura. E quando l’on. Meloni strepita proponendo l’abolizione del reato di tortura, perché, a suo dire, una tale codifica equivale a privare le forze dell’ordine di uno strumento essenziale per svolgere efficacemente il loro lavoro, non possiamo non preoccuparci per questo approccio che pretende di autorizzare la tortura quale strumento di legge. Il caso Cucchi che ci racconta di un ragazzo massacrato dalle forze dell’ordine per “svolgere il loro lavoro”, è lì a ricordarci che la giusta severità comandata dalla legge non può essere un alibi per infliggere la tortura. Ad alimentare ancora di più questa logica giacobina ci hanno pensato alcuni nostri intellettuali, omertosi quando devono spartirsi l’argenteria di famiglia, garruli quando devono contrabbandare la loro fedeltà a valori su cui costruire rendite di posizione. Questi campioni della doppia morale dall’alto dei loro privilegi pontificano di giustizia sociale stando però attenti a non mischiarsi con la plebe perché, per dirla con Ricossa, “amano il popolo come astrazione ma lo detestano come insieme di persone vive e cioè rumorose, volgari, sudate,invadenti”, lucrano le loro guarentigie fottendo i disperati di cui si fanno paladini a parole e naturalmente invocano la forca ad ogni piè sospinto.

mercoledì 4 luglio 2018

I reietti


In Italia esiste una specie sconosciuta ai più, quella dei reietti, gli ultimi della società bollati dalle loro colpe o dal pregiudizio e relegati ai margini del consorzio civile. Di essi si occupano con particolare impegno i benemeriti ideologi dell’intolleranza che da sempre conducono contro la specie una vera e propria crociata lasciando sul terreno le vittime prescelte dal loro dogmatismo etico. Privato di buona parte dei diritti fondamentali, ridotto a paria della società, il reietto è una preda facile da addentare senza che alcuno corra in sua difesa. Il ghiro coda di topo, la farfalla monarca, il lemure del Madagascar possono contare sulla discesa in campo dei buoni contro il pericolo della loro estinzione, i reietti  no, essi sono marchiati a fuoco senza possibilità di riscatto, sono carne marcia su cui  si avventano i giacobini con la bava alla bocca che, seduti sul pulpito della loro superiorità morale, negano qualsiasi chance a chi tenta di risalire la china di una deriva che l’ha visto soccombente. Privi di dubbi i saccenti promotori dei comitati di salute pubblica conducono la loro campagna di odio che non concede remissione alle colpe, e costruiscono attorno agli indegni un cordone sanitario che eviti la contaminazione del tessuto sano. E’ l’etica che insegue il successo e cavalca l’intransigenza funzionale all’edificazione delle carriere dei sepolcri imbiancati impegnati ad apparire, la stessa etica che tiene i vili alla larga dal rischio della contaminazione. Vengono così eretti muri di indifferenza quando non di ostilità che guardano con sospetto all’autenticità di un cammino di redenzione e ne vanificano gli sforzi. I campioni dell’intransigenza e della superiorità morale che, guarda caso, si identificano con larghi settori dell’establishment culturale, fanno dell’intolleranza il loro credo e del cinismo lo strumento del loro successo.  A dispetto di essi può però accadere che anche per i reietti la vita abbia in serbo una qualche forma di risarcimento, è accaduto a me. Oggetto degli appetiti della stampa quando c’era da banchettare con la mia vicenda giudiziaria, snobbato quando c’era da dare testimonianza dei miei timidi tentativi di rinascita, respinto dal raccapriccio della cosiddetta società civile, sono stato raggiunto dalla carezza di una straordinaria signora impegnata non a declamare la vuota retorica di un moralismo livido che lascia alle proprie spalle solo macerie, ma a costruire luoghi di speranza inseguendo la propria vocazione, mettendo in campo la propria storia di donna baciata dal successo per aiutare gli ultimi d’Africa, reietti anche loro, cui dona tutto quello che può di sé, “una piccola goccia che contribuisce a fare l’oceano”, come è solita affermare. Lei non è si fermata sulla soglia della mia indegnità ma è andata oltre, si è fatta largo tra le pieghe di un animo in cui è rischioso addentrarsi, come scrisse di me un noto editorialista, e tuttavia ha deciso di fidarsi, ha deciso che non meritavo la gogna riservatami dalle tricoteuses urlanti ai piedi del patibolo, ha creduto che meritassi la sua preziosa amicizia e me ne ha fatto dono prendendomi per mano e accompagnandomi fuori dalle mura del lager dove sono rimasto segregato per anni.

giovedì 21 giugno 2018

Salvini


Viene voglia di tifare per Salvini, e infatti buona parte degli italiani lo fa mentre le solite prefiche, in preda ai consueti isterismi, non sanno fare di meglio che gridare al lupo tacciando il nostro ministro dell’Interno di fascismo per i suoi atteggiamenti muscolari e i suoi scivoloni lessicali che sono un insulto all’intelligenza e sintomo di incultura ma che tutto sommato attentano solo al buon gusto, sempre che alle parole non seguano i fatti. Nessuno di loro che si interroghi sul perché, nonostante tutto, tanta gente abbia decretato il successo del capo leghista. Egli ha i toni del bullo di periferia, frequentazioni internazionali poco raccomandabili, alleanze contraddittorie con gente ( Orbàn ) che ha a cuore interessi contrari ai nostri, ha detto peste e corna dei meridionali salvo scendere successivamente in mezzo a loro agitando la bandiera delle loro rivendicazioni con una disinvoltura da funambolo della coerenza, millanta progetti che sa di non potere realizzare, ha un eloquio poco istituzionale ( è finita la pacchia ), azzarda sfide che ci fanno rischiare l’emarginazione, eppure imperversa col vento in poppa e con  la prospettiva di fare il pieno al prossimo turno elettorale. Se invece di ricorrere a facili demonizzazioni  facessimo un’analisi onesta, capiremmo che Salvini è il frutto di  errori che sono stati fatti e continuano ad essere fatti da tutti e ai quali bisogna sforzarsi di porre rimedio. Una delle ragioni che spiegano il suo successo è il pugno duro contro l’approdo nelle nostre coste dei migranti, e certo non ha aiutato a ridimensionare la sua intransigenza  ( anzi, il contrario ) l’uscita infelice dei francesi che con una faccia tosta degna di miglior causa pretendono di dare lezioni di umanità sul fronte dell’accoglienza a noi italiani che siamo tra i primi al mondo nell’universo del volontariato e della solidarietà, e al contempo chiudono le porte di casa loro respingendo i migranti a Ventimiglia e blindando i loro porti. Ahinoi, la Francia non perde il vizio di salire in cattedra e impartire lezioni con la solita prosopopea e il solito complesso di superiorità inconcludente e velleitario. La miopia e l’inadeguatezza dell’Europa hanno fatto il resto e Salvini  ha avuto  buon gioco a farsi passare per paladino del suo popolo con la narrazione dell’attacco portato ai nostri interessi dalle élites europee e del peggioramento delle già precarie condizioni dei nostri concittadini più poveri a causa della concorrenza dei disperati d’Africa, contro cui può impunemente impugnare la bandiera dell’euroscetticismo e della xenofobia. Si può dire senza tema di  smentita che il progenitore di Salvini è l’Europa. Se alla Francia  è stata data la possibilità di fare sfracelli in Libia con il conseguente verminaio della guerra di tutti contro tutti che ha fatto saltare il tappo all’ondata migratoria incontrollata (in nome di una crociata umanitaria che nascondeva la solita smania di grandeur), se alla Germania e ai Paesi del Nord Europa è stato consentito di praticare una cieca politica di rigore che ha avuto come primo obiettivo il consolidamento delle loro economie forti senza alcuna considerazione per il welfare dei Pesi più poveri, se è stato consentito loro di gestire la crisi finanziaria greca con una intransigenza pelosa che ha salvato alcune banche tedesche buone a lucrare grossi guadagni sulla pelle della Grecia in tempi di vacche grasse ma non a pagare le conseguenze del rischio assunto allorché i loro investimenti sono diventati carta straccia, e di fare invece la faccia feroce contro lo Stato italiano quando questo è corso in aiuto delle nostre banche in crisi, se al contrario l’Italia, con la zavorra del suo debito pubblico e con la sua insipienza, si è autorelegata al ruolo di comparsa senza alcun peso nelle decisioni che contano ed è costretta a presentarsi col cappello in mano tutte le volte che chiede un minimo di flessibilità, mentre invece altri Paesi ne hanno abusato senza che ciò abbia destato scandalo, se ai Paesi dell’est europeo è stato consentito di attingere a piene mani dalle risorse europee ma non è stato imposto di  rispettare gli obblighi ai quali sono vincolati, se l’Italia e la Grecia sono state abbandonate al loro destino di Paesi da ultima spiaggia dove navi battenti bandiere di altri Paesi, sulla autentica vocazione solidale di alcune delle quali è lecito nutrire dubbi, riversano il loro carico di umanità anziché  fare rotta verso i Paesi di appartenenza e invece ai Paesi del  resto d’ Europa è stato consentito di chiudere i loro porti  e di gridare, con una logica che lascia di stucco, alla irresponsabilità e al cinismo quando a chiudere i porti sono stati gli italiani, se la Germania ha ottenuto che venisse elargita alla Turchia una regalia di 3 miliardi di euro l’anno, attinti dalle casse dell’Europa, in cambio del blocco della rotta balcanica e il conseguente maggior flusso migratorio sulla rotta del Mediterraneo, se non si riesce a modificare il trattato di Dublino che impone di tenere i migranti nel Paese in cui arrivano e in più si profila all’orizzonte  la minaccia del signor Seehofer, ministro dell’Interno tedesco, di rinviare i migranti accolti in Germania ma privi dei requisiti necessari, verso i Paesi dove sono stati registrati (vedi Italia e Grecia), se insomma in Europa allignano furbizie, egoismi e ipocrisie, vige il tornaconto dei Paesi  più forti che riescono a fare sistema, se lo sguardo non va oltre la siepe degli interessi particolari e ignora le rivendicazioni e le giuste ragioni dei Paesi meno forti, non ci si può scandalizzare se a tutto ciò si oppone la rodomontesca aggressività di Salvini. L’Europa nasce come patria di tutti con un progetto solidale e una carica ideale che poggia su valori comuni e  ha forgiato lungo gli anni identità che si sono sempre più integrate creando le fondamenta di quella che può diventare una unica futura nazione. Una nazione si assume il carico del buono e del meno buono che trova sulla sua strada. Se la Germania occidentale avesse fatto solo calcoli di convenienza economica avrebbe dovuto rinunciare all’unificazione. Se l’Europa ha come obiettivo solo l’etica del rigore e non la solidarietà, se non sa volare alto ispirandosi agli ideali superiori che l’hanno fatta nascere, se non sa condurre la battaglia in difesa dei più deboli (senza sconti, sia chiaro, sul rispetto delle regole di cui anche i deboli si debbono far carico e sullo sforzo che essi devono produrre in direzione di una più virtuosa gestione della propria economia) facendone la battaglia di tutti perché comune è il destino di essa e le criticità rischiano di trasformarsi in un boomerang per l’intero sistema, se non sa dotarsi di una politica estera unisona che non obbedisca a interessi particolari e ci faccia combattere a ranghi serrati le sfide globali che ci attendono, tra cui l’emergenza emigranti da affrontare con un approccio coeso, corresponsabile e intelligente, nella consapevolezza che essa è l’avvisaglia di un esodo epocale e inarrestabile, essa ha fallito e il futuro è dei Salvini e delle piccole patrie destinate ad essere fagocitate dai molossi universali.


lunedì 4 giugno 2018

I dioscuri


Con l’irruzione sulla scena di  Di Maio e Salvini i giacobini italiani possono contare su due alfieri irriducibili  delle loro frustrazioni e delle loro fobie.
Col suo portamento da abatino, con la sua grisaglia d’ordinanza, con il suo pedigree incolore, con il suo lessico infarcito di strafalcioni, lo scugnizzo di Pomigliano li rappresenta a pieno titolo e li guida all’assalto del potere a dispetto dei saperi e delle competenze. Teorico della democrazia diretta di rousseauiana memoria (ma ha letto Rousseau?), affida agli algoritmi della Casaleggio Associati il compito di reclutare in rete i disinvolti sostenitori delle più strampalate semplificazioni, una minoranza che rappresenta solo se stessa, di assecondarne le pulsioni velleitarie e, spacciandoli per espressione della volontà popolare, proiettarli ai vertici delle istituzioni. Sostituisce, senza avvertire il senso del ridicolo, Tocqueville con Grillo e pretende di mandare in soffitta le regole della vita democratica, teorizzando una dittatura della maggioranza autoreferenziale che non risponde ai vincoli previsti dalla Costituzione. Bipolare e corrivo, transita da un opposto all’altro prestando orecchio agli altalenanti umori della piazza e cambiando parere a seconda delle convenienze. Il suo capolavoro è stato la contradanza degli atteggiamenti contraddittori nei confronti del Capo dello Stato. E’ passato dalle lodi più sperticate(“ Piena fiducia in un grande uomo come Mattarella su qualsiasi decisione”, “Nessuna pressione su Mattarella”, Mattarella pienamente rispettoso della Costituzione”) quando ancora questi non aveva bocciato il nome di Savona, alle accuse più infamanti ( “Complice dell’establishment”, “Traditore della Costituzione da mettere in stato d’accusa” ) e addirittura alla richiesta  di impeachment, per servirci alla fine l’ennesima capriola, la versione dell’agnellino pronto a collaborare. Con la Lega non è stato da meno passando dalla demonizzazione all’alleanza con essa.
Salvini dal canto suo non ha niente della sprovvedutezza del suo gemello ma proprio per questo è più pericoloso. Egli dispone di un cinismo e di un fiuto che lo hanno fatto muovere  con  abilità nella intricata trattativa per la formazione del governo. Aveva un piano e lo ha centrato in pieno piazzandosi al centro della scena e proponendosi come elemento insostituibile. Ha dimostrato di possedere una sua intelligenza strategica ma non l’etica della responsabilità e ha messo il suo background al servizio dell’ interesse di parte piuttosto che dell’interesse nazionale. Ingrugnito e pieno di sé, cavalca i peggiori istinti della piazza con linguaggio tribunizio e incendiario, mostrando di non possedere quella dote che fa la grandezza di un leader, la capacità di rinunziare al proprio ego per amore della Patria, unita al senso della missione visionaria che ha al suo centro l’interesse superiore. Anche lui non si è risparmiato nella gara agli insulti con i 5 Stelle prima di sposarseli con tanto di contratto.
Questi due campioni così diversi e così uguali, accomunati da un peronismo d’antan, ci hanno fatto penzolare per due giorni sull’orlo del precipizio fino a quando sono stati spaventati dalla nemesi dei mercati e, di fronte allo scenario catastrofico che rischiava di mandare in malora il Paese, non per amor di Patria ma per calcolo, sono venuti a più miti consigli. Il governo è fatto ma affrontiamo trepidamente il viaggio in mare aperto consapevoli che i soci di maggioranza di esso sono questi signori  e che la loro inaffidabilità non è il miglior viatico per una navigazione tranquilla.


lunedì 28 maggio 2018

L'occasione mancata


I 5 Stelle e il Carroccio sono arrivati a un passo dal governare ma non sono riusciti a varcare la soglia di Palazzo Chigi a causa di un nome, quello di Paolo Savona. Attorno a questo nome, proposto da Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio incaricato, per la poltrona di ministro dell’economia, e bocciato dal Presidente Mattarella, si è consumata la frattura fra quest’ultimo e Di Maio e Salvini che hanno fatto della candidatura di Savona  un punto irrinunciabile per il varo del governo. Come è possibile che per un nome si sia arrivati a tanto? La verità è che dietro lo scontro sul nome si nasconde uno scontro su una diversa visione politica. Il programma dei nuovi aspiranti a governare prevede un programma economico che desta perplessità sul piano della disciplina di bilancio con progetti realizzabili attingendo a risorse pubbliche e facendo crescere il debito pubblico. Chi contesta questo programma sostiene che con la sua realizzazione si determina una eterogenesi dei fini, poiché la crescita del debito pubblico produce il risultato di fiaccare la nostra economia a scapito proprio dei più deboli che con quei progetti si vogliono tutelare. E teorizza che, se si vogliono veramente realizzare progetti solidali, non si  può che puntare su una maggiore crescita ottenibile riducendo, non aumentando il debito pubblico, e liberando le risorse necessarie a promuovere le attività produttive e garantire un pur modesto ammortizzatore sociale. Lo scenario dipinto da chi muove queste critiche lascia intravedere addirittura il pericolo che una politica di spesa non sostenuta dalla crescita possa condurre alla bancarotta. Questi timori, seppure non così apocalittici, sono condivisibili ma onestà vuole che siano condivisibili anche le riserve di Salvini e Di Maio nei confronti di una Europa la cui intransigente politica di austerity definita da Francesco Forte “arroganza del razionalismo tecnocratico”, gestisce il sogno europeo piegandolo agli interessi dei più forti e tradendo la vocazione solidaristica che l’ha fatto nascere. In questa direzione l’Italia deve far sentire la sua voce ma per farlo deve avere le carte in regola.  Certamente i nostri conti in disordine e il programma di Salvini e Di Maio non sono un buon viatico. Detto questo rimane il fatto che con tutte le loro contraddizioni i 5 Stelle e il Carroccio erano legittimati a governare. A questa legittimazione fa da contraltare la legittimazione del Capo dello Stato al quale è assegnata dalla Costituzione la prerogativa di nominare i ministri che gli vengono proposti e quindi anche di bocciare quelli che non condivide. Nel caso del professor Savona, il Capo dello Stato ha ritenuto che le posizioni euroscettiche di quest’ultimo ( e, sospetta chi scrive, i programmi di Salvini e Di Maio ) potessero spaventare gli investitori e farli fuggire dagli investimenti in Italia facendo mancare risorse indispensabili a tenere in piedi la macchina dello Stato. Lo ha detto chiaramente, temeva un aumento del debito pubblico, un aumento degli interessi per i mutui, un pericolo per i risparmi degli italiani. E temeva anche l’uscita dell’Italia dall’euro con le conseguenze che è pleonastico elencare. Alcune avvisaglie si erano cominciate a palesare con lo spread in salita e i mercati in picchiata. L’allarme del Presidente dunque si può capire e la sua decisione appare legittima sul piano istituzionale perché fa riferimento ad una prerogativa prevista dalla costituzione e si preoccupa degli interessi del Paese, ma desta perplessità sul piano della opportunità in chi vede nella sua decisione una invasione di campo. Due posizioni, come si vede, altrettanto legittime anche se attestate su visioni diverse, che avrebbero dovuto essere conciliate con senso di responsabilità, e che invece sono state avvelenate da accuse reciproche. I 5 Stelle e il Carroccio accusano Mattarella di obbedire ai diktat di alcune cancellerie europee e di avere indebitamente impedito un legittimo percorso democratico intervenendo a gamba tesa su una decisione politica di chi ha vinto le elezioni, il Presidente sostiene di avere esercitato una sua correttissima prerogativa e di avere messo sull’avviso per tempo sulla sua decisione contraria al nome di Savona, senza ricevere obiezioni, offrendo la sua disponibilità a prendere in considerazione un altro nominativo e dimostrando così di non avere voluto ostacolare la formazione del governo.  Nell’entourage del Presidente della Repubblica si guarda con stupore e amarezza al mistero della strana intransigenza di Salvini sul nome di Savona che da molti viene letta come uno stratagemma per fare saltare il banco e andare a elezioni anticipate. Da una parte dunque l’accusa che il Capo dello Stato non abbia fatto gli interessi dell’Italia, dall’altra il sospetto che si sia cercato il casus belli per meschini calcoli elettoralistici, ma, diciamolo chiaramente, quello che sgomenta è l’arroganza e la mancanza di rispetto che viene riservata alla più alta carica dello Stato  e l’assenza del senso di responsabilità, nel momento forse più delicato della nostra storia repubblicana, da parte di chi si riempie la bocca con proclami sull’interesse della collettività. Come si vede un bel quadro in cui la sola a fare le spese è l’Italia precipitata in una crisi politica e, con la richiesta di impeachment, in una crisi istituzionale. Non c’è che dire, siamo in buone mani

martedì 22 maggio 2018

Il linciaggio, nuova frontiera della giustizia


Nei giorni scorsi sono stati celebrati gli anniversari  delle morti di Enzo Tortora e del commissario Calabresi, due date tragiche che evocano due casi analoghi di linciaggio giudiziario e mediatico. Tortora fu giustiziato moralmente dal PM Marmo che lo accusò di collusione con la camorra ottenendone la condanna in primo grado sulla base delle dichiarazioni dei pentiti Barra e Pandico alle quali non si preoccupò di trovare riscontri oggettivi. Come finì  lo sappiamo tutti,  per Tortora con l’assoluzione piena e definitiva dopo un  calvario di diversi anni che lo condusse alla morte prematura per crepacuore, per Marmo in modo inglorioso, con la smentita del suo impianto accusatorio ma soprattutto con il peso di quella terribile affermazione da lui fatta durante la requisitoria quando chiamò Tortora “cinico mercante di morte”. Il caso Tortora non è il solo svarione nel quale è incorso il PM Marmo visto che fu ancora lui a sostenere l’accusa per traffico di stupefacenti contro il soldato Raiola il quale fu assolto ma non poté evitare che la sua vita andasse a rotoli prima che venisse riconosciuta la sua innocenza. L’arrembante disinvoltura non ha impedito al giudice Marmo di fare carriera in magistratura senza che i superiori organi si preoccupassero di disinnescare questa mina vagante.
Caso pressoché analogo quello del commissario Calabresi vittima del giornalismo manettaro e ideologicamente schierato che non esitò ad accusarlo della morte dell’anarchico Pinelli  consegnandolo al mirino dei militanti di Lotta Continua che punirono la sua presunta responsabilità  assassinandolo. Anche in questo caso sappiamo come finì, Calabresi fu riconosciuto estraneo alla morte di Pinelli e le icone giornalistiche dell’epoca non mostrarono di avere alcun soprassalto di coscienza né di nutrire alcun dubbio sul ruolo salvifico del loro giacobinismo. Epigoni di quell’intellighenzia supponente che ha dominato la cultura del dopoguerra, questi campioni della superiorità morale che Pareto chiamava “virtuisti”, hanno continuato a imperversare e, per dirla sempre con Pareto, hanno preteso  di “raccontarci che solo un uomo disonesto può avere un’opinione contraria alla loro”, lasciandoci in eredità discepoli  livorosi e intransigenti che, seduti sulle loro certezze, ripercorrono ancora oggi la strada dei cattivi maestri. Ancorati al dogma della primazia della morale questi rampolli esagitati, figli del furore etico, negano al diritto qualsiasi ragionevolezza, alla giustizia la prudenza, all’applicazione della legge l’attenzione necessaria a evitare, per quanto è possibile, l’errore sempre in agguato e, obbedendo alla loro vocazione forcaiola, sentenziano che il cittadino raggiunto da un avviso di garanzia è presuntivamente colpevole.
Quando ci esibiamo nei soliti rituali che accompagnano anniversari tragici, non una voce si leva a denunciare il farisaismo dei sepolcri imbiancati che continuano a pontificare stritolando la vita delle persone, forti della loro impunità e dei poteri che rappresentano.

venerdì 18 maggio 2018

Libertà e uguaglianza


La Costituzione italiana all’articolo 1 recita: ”L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” . La dizione risente di una impostazione ideologica che connota lo Stato in base all’identità di una parte sociale piuttosto che a quella dell’intero tessuto sociale. L’idea del lavoro come fondamento della democrazia assume in questo modo le sembianze di un discrimine che cozza contro il principio sancito proprio dalla Costituzione che all’articolo 3 recita: ”Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”. Ed è una impostazione che si scontra con il pensiero liberale da sempre assertore del principio secondo cui un’autentica democrazia debba fondarsi sulla libertà senza disparità e senza limitazioni che non siano quelle previste dalla legge, principio solennemente proclamato già nel lontano 1789 nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” che è il testamento della nostra civiltà moderna e che all’articolo 2 pone in testa all’elenco dei diritti fondamentali, appunto, la libertà. Libertà e uguaglianza sono dunque i due principi in base ai quali tutti i cittadini hanno la possibilità di esercitare i loro diritti in condizioni di parità, ma ciascuno in base alle proprie capacità, e di affrontare nel giusto modo le disuguaglianze che la natura, assai meno equanime della legge, decreta assegnando doti diverse e spesso diseguali. La libertà fa di queste disuguaglianze delle opportunità se lo Stato permette alla libera iniziativa di dispiegarsi, non imponendo dall’alto l’omologazione artificiosa di una uniformità che finisce per realizzare la più iniqua delle disuguaglianze, non opponendo alla creatività delle idee l’ineluttabilità della materia che relega gli elementi ideali nella soffitta della sovrastruttura (materialismo storico), non negando a nessuno il diritto di starsene alla finestra a guardare o invece di sprigionare i propri spiriti animali, l’estro, la fantasia, l’ingegno, di sfidare i rischi per proprio conto e produrre maggiori opportunità per gli altri. Il profitto di chi si mette in gioco reinvestito in attività produttive assume la funzione di propellente della crescita e dell’occupazione piuttosto che le sembianze della farina del diavolo, e il lavoro con le ricadute in termini di giustizia sociale si rende possibile non per decreto ma grazie al talento creativo legittimamente espresso che obbedisce alla propria vocazione e al contempo col suo dinamismo promuove i diritti dei meno dotati.  Allo Stato spetta il compito di vigilare affinché le diversità non diventino privilegi  gratuiti, non si creino sacche di impunità e caste voraci, il profitto non diventi selvaggio, e di esercitare la giusta rappresentanza delle istanze dei cittadini come si conviene ad una autentica democrazia. La democrazia liberale, è bene ricordarlo, ha reso possibili le conquiste di cui godiamo ed è un patrimonio prezioso da tutelare contro le tentazioni qualunquistiche di quanti scrivono libri dei sogni facendo promesse impossibili da realizzare. Il pragmatismo che ha preso per mano il liberalismo contemporaneo e lo ha accompagnato verso la realizzazione di un riformismo sociale sostenibile, è uno strumento che non possiamo mandare in soffitta.


venerdì 20 aprile 2018

L'innocenza violata


Il 16 aprile 1973 a Roma, quartiere Primavalle, perirono, arsi vivi in un rogo, Stefano Mattei di 8 anni, e il fratello Virgilio di 22 anni. Furono le vittime dell’incendio appiccato alla loro casa da alcuni esponenti del movimento extraparlamentare di estrema sinistra Potere Operaio, giovani della buona borghesia romana che giocavano a fare i rivoluzionari e non si facevano scrupolo di arrostire i rappresentanti del proletariato che avevano il torto di essere figli di un “fascista”. In nome della lotta al fascismo bruciare vivo un bambino di 8 anni rientrava nella logica dei danni collaterali cui si deve prestare ogni sacrosanta battaglia per la democrazia. Ma l’enormità del misfatto non si è fermata al massacrò in sé, essa si è dilatata ancora di più con la mistificazione operata dalla galassia di sinistra che si impegnò nello sforzo di far passare la vicenda come una faida interna al mondo dei nostalgici fascisti, costruendo una realtà parallela e falsa che aveva come scopo di scagionare i veri colpevoli. Cortei e appelli pro-indagati furono inscenati manipolando la realtà e ficcando cinicamente l’inganno dentro la solita sbornia ideologica. In nome delle magnifiche sorti e progressive anche la terribile morte di un bambino ad opera di delinquenti politici veniva strumentalizzata per fini ideologici. Erano i tempi in cui i brigatisti rossi veniva gratificati con l’indulgente epiteto di compagni che sbagliano. Buona parte di questo ciarpame ideologico ha continuato a imperversare, anzi ha conquistato il centro della scena decretando quello che è giusto e quello che non lo è, quello che è morale e quello che non lo è, impossessandosi del ruolo di mosca cocchiera delle coscienze e rivendicando l’esclusiva del politicamente corretto. Sono i campioni di questo ciarpame che decidono quali sono le battaglie da combattere intestandosele in esclusiva e costruendo su di esse reputazioni altrimenti improbabili. Sono gli eredi di coloro che hanno ucciso una seconda volta il piccolo Mattei impegnandosi nell’occultamento della verità e che hanno rimosso un episodio emblematico del loro cinismo ideologico banalizzandolo come un qualsiasi episodio di cronaca nera, gli stessi che oggi fanno sentire più alte le loro voci rispetto all’unanime indignazione per l’infame uccisione del piccolo Di Matteo. Persino l’indignazione diventa per i nostri campioni strumento ideologico e assume una colorazione diversa a seconda che un bambino trucidato si chiami Mattei o Di Matteo.

giovedì 12 aprile 2018

Lula


A quanto pare il Brasile è un Paese alla mercé di un regime che affida l’amministrazione della giustizia a tribunali speciali. Non ce ne eravamo resi conto fino a quando non  hanno provveduto ad aprirci gli occhi i santoni della sinistra italiana i quali hanno firmato un manifesto con cui decretano l’innocenza di Lula e accusano i magistrati brasiliani di avere emesso una sentenza di colpevolezza non fondata, con lo scopo di  cambiare le sorti delle prossime elezioni politiche in Brasile. Una magistratura deviata dunque al servizio  di non meglio precisati interessi occulti. Lula a sua volta ha messo in discussione la legge, quella stessa legge di cui era garante quando era presidente del Brasile, ponendosi al di sopra di essa con la sua decisione di sottrarsi alla pena e col sostegno dei suoi seguaci che assieme a lui si sono barricati nella sede del sindacato e hanno sospeso per parecchi giorni l’esecuzione della condanna. Quando finalmente ha deciso di consegnarsi alla giustizia, ha posto come condizione che il trasferimento in carcere avvenisse con un aereo privato e la detenzione fosse scontata in una prigione dorata. Tutto questo non ha scandalizzato i nostri campioni della democrazia che anzi, mentre ieri osannavano le sentenze che in Italia condannavano alcuni protagonisti della vita politica di parte avversa e insorgevano contro le accuse di partigianeria lanciate ai nostri magistrati, oggi non hanno lo stesso rispetto nei confronti di una sentenza della magistratura brasiliana della cui reputazione, evidentemente, non hanno grande considerazione. E’ una questione di quarti di nobiltà, la magistratura italiana ha i quarti giusti e merita di salire sugli scudi poiché colpisce nella direzione gradita agli illuminati di casa nostra, quella brasiliana invece, poiché si permette di colpire un unto della sinistra come Lula, merita di essere trattata alla stregua di una banda di malfattori dedita a disegni criminosi. E’ la logica dei nostri disinvolti moralisti, indulgenti con gli amici e severi con i nemici, inossidabili nella loro presunzione di un’etica superiore che poggia su categorie ideologiche.

domenica 1 aprile 2018

La Pasqua


Come ogni anno la Pasqua è l’occasione per i soliti rituali che vedono impegnati i bravi cristiani nelle liturgie dei buoni propositi. La misericordia soprattutto e la pietà la fanno da protagonisti indiscussi con proclami solenni sulle buone intenzioni che accompagneranno le nostre azioni future. Ci ripromettiamo di perdonare i torti subiti, di rinunciare al rancore che sostituiamo con un’orgia di buonismo  all’apparenza sincero ma in realtà farisaico. Perché, ahinoi, i sentimenti non sono così autentici come appaiono e non includono i reietti della scala sociale che rimuoviamo con colpevole indifferenza giocando a rimpiattino con la nostra coscienza.  Alla Pasqua gaudente e festaiola dei cristiani redenti si oppone la mala Pasqua degli ultimi che la redenzione sembra avere dimenticato, dei clochard ai margini delle strade, dei carcerati lontani dagli affetti, degli anziani parcheggiati nei cimiteri degli elefanti che chiamiamo case di riposo in cui si consuma la spietatezza di noi figli, dei poveri privi delle necessarie provvidenze e della necessaria dignità, dei malati dimenticati nelle corsie degli ospedali. E ancora di coloro che vivono una disperante solitudine esistenziale e in questo periodo sentono di più la loro angoscia privi come sono di un qualsiasi appiglio al quale aggrapparsi presso i propri simili indaffarati nelle incombenze festive, e dei figli di una generazione che vive un malessere profondo e maledice le festività percepite come un insulto alla propria condizione precaria, e di quelli che non hanno fede e si muovono disorientati nel clima di festa come degli alieni in un pianeta inospitale. Di coloro ai quali per decenni è stato impedito di abbracciare i propri cari detenuti in quell’universo kafkiano che è il 41 bis e che durante le feste sentono ancora di più la crudeltà di questa innaturale mutilazione degli affetti praticata da uno Stato vendicativo e dedito alla tortura. E di Stefania che, senza piangersi addosso e con forza d’animo, sta combattendo la battaglia più dura della sua vita contro l’ingiustizia di un male vile che aggredisce la sua età innocente. Stiamo parlando dell’indifferenza di un mondo sempre più scristianizzato. Che dire? Buona Pasqua o mala Pasqua? A ciascuno la  Pasqua che la sorte gli ha assegnato.       .

sabato 3 marzo 2018

Fascismo e antifascismo


Il tic di certa cultura di sinistra ci regala in questi giorni una delle tante sbornie nelle quali è solita incorrere, quella del pericolo fascista che metterebbe a rischio la nostra democrazia. Si dichiarano antifascisti i consueti personaggi che ci hanno abituato alle battaglie più improbabili sui temi più vari, declinati con la solita intransigenza, e hanno cavalcato ideologie che hanno costituito, esse si, un pericolo per la nostra democrazia. Maitres à penser a braccetto con alti rappresentanti delle istituzioni scendono in piazza e straparlano di pericoli inesistenti creando ad arte un clima d’emergenza che falsa la lotta politica. Questi  ineffabili vessilliferi della democrazia a senso unico rivendicano l’esclusiva della rispettabilità politica e della superiorità morale sventolando la bandiera della lotta contro ogni genere di male, la corruzione, il malaffare, la decadenza morale e politica, senza interrogarsi sulle proprie responsabilità, e demonizzano gli  avversari politici etichettati sbrigativamente come fascisti. Antifascisti si dichiarano i giacobini dei centri sociali che assaltano i luoghi di incontro di  nostalgici fuori dalla storia e aggrediscono le forze dell’ordine che hanno il solo torto di volere far rispettare la legge. Nel momento stesso in cui dichiarano di volere combattere il fascismo, questi teppistelli si comportano da fascisti negando agli avversari il diritto di esistere e di esprimere legittimamente le loro idee. Antifascisti si dichiarano coloro che con disonestà intellettuale tentano di far passare per una pagina di lotta al fascismo quella che fu una vera e propria pulizia etnica perpetrata con terribile ferocia dai macellai titini ai danni di migliaia di italiani d’Istria e Dalmazia attraverso la pratica disumana  dell’ infoibamento. L’italianità fu considerata una colpa e confusa con il fascismo e fu scritta una delle pagine più infami della ferocia umana che alcuni cantori dell’epica partigiana in salsa messicana tentano di occultare o di gabellare come una sacrosanta pagina di lotta antifascista. Antifascisti si dichiaravano i protagonisti della stagione brigatista che assassinarono servitori dello Stato, giornalisti, uomini politici, regalandoci uno dei periodi più bui della nostra storia democratica e che gli antesignani degli attuali campioni dell’antifascismo definivano con indulgente eufemismo: “compagni che sbagliano”. Antifascisti si dichiarano certi censori ai quali la cosiddetta società civile ha assegnato il ruolo di guardiani della moralità e il diritto di stilare liste di proscrizione con le quali stabiliscono chi è presentabile e chi non lo è, escludendo, come è ovvio, coloro che a loro insindacabile giudizio sono fascisti. Gli antifascisti arrembanti in questa stagione di mistificazioni in cui tutto si confonde, non si lasciano cogliere dal dubbio che la superiorità morale da loro rivendicata, il rifiuto del dialogo con chi la pensa in maniera diversa dalla loro, la mancanza di rispetto dell’altrui dignità, il fanatismo ideologico di cui sono portatori sani, sono categorie di un integralismo settario che non ha nulla da invidiare al fascismo. Non è il fascismo il vero pericolo, anche se fa un certo effetto la Meloni in pellegrinaggio da Orbàn, il vero rischio è il populismo che i protagonisti della politica di destra e di sinistra hanno concorso a far nascere nei decenni passati ignorando l’arte del buon governo. I dilettanti allo sbaraglio che inviano per posta al Capo dello Stato la lista dei ministri dimostrando di non conoscere l’abc della grammatica costituzionale o che confondono la Costituzione con la Bibbia e che con le loro boutades promettono un Paese dei balocchi astratto dalla dura realtà che impone senso di responsabilità, essi, si, sono il vero pericolo. E’ con loro che dobbiamo fare i conti, e per questo bel regalo dobbiamo ringraziare chi li ha prodotti narrandoci le favole del passato ma distraendosi e distraendoci dai problemi del futuro.



mercoledì 14 febbraio 2018

Il vizietto


Il vizietto  caro alla sinistra di gridare al lupo quando il lupo non c’è riaffiora puntuale alla prima occasione. Stavolta l’occasione si è presentata con i fatti di Macerata, cittadina diventata il vessillo di una battaglia corriva e ideologica. L’exploit criminale di un demente che ha tentato una carneficina per vendicare la morte di una giovane donna fatta a pezzi, ha fornito ai soliti barricaderi il pretesto per organizzare una manifestazione antifascista. Sfido chiunque a dimostrare che il gesto sconsiderato di un stupido infarcito di ideologie farneticanti, possa essere considerato il sintomo di un ritorno al fascismo e costituire un pericolo per la nostra democrazia. La democrazia corre rischi se si mistifica la realtà e si confondono le menti come è accaduto nella manifestazione di Macerata dove è ricorsa la solita paccottiglia sul fascismo incombente e si sono visti in giro personaggi, i cosiddetti compagni che hanno sbagliato e negli anni bui ci hanno deliziato con le loro gesta rivoluzionarie, che ritenevamo definitivamente cancellati dalla storia e che invece risorgono dalle ceneri  riabbracciandosi con i compagni che hanno guardato con indulgenza alle loro gesta e manipolando giovani coscienze con la riesumazione di un settarismo di cui non si sente certamente il bisogno. Questi dinosauri duri a morire e i loro invasati discepoli ci ammoniscono su fantomatici mandanti morali, urlano slogan contro Minniti fascista, incitano a dar fuoco alle sedi fasciste quando dentro c’è un bel po’ di gente da arrostire, inneggiano alle foibe scambiando vittime con colpevoli, esibiscono striscioni per ricordare i migranti vittime del raid di Traini ma dimenticano di menzionare Pamela (della cui morte sono sospettati alcuni migranti) operando una rimozione che sa di razzismo al contrario. E’ chiaro che non è il caso di ricorrere a sbrigative etichettature attribuendo l’esclusiva della violenza ai migranti ma è altrettanto chiaro che esiste un problema legato alla migrazione che non va sottovalutato. Quando si fa del manicheismo ponendo tutto il bene da una parte, esibendo un buonismo che declina un’accoglienza a gogò incapace di offrire condizioni di vita dignitose ma capacissima di prestarsi a speculazioni e sfruttamenti, può accadere che si creino sacche di disagio e che in questo disagio si insinuino le farneticazioni del populismo e le reazioni sconsiderate di menti malate. Bisogna allora interrogarsi sulle cause del disagio piuttosto che demonizzare chi lo denuncia, in giro ci sono troppi stupidi che professano razzismo senza bisogno che ci metta del suo il radicalismo ideologico che chiude la porta al dialogo. La dogmatica delle verità infuse che non tollera di essere messa in discussione,  la mancanza di un confronto civile in cui a tutte le opinioni sia consentita pari dignità, costituiscono altrettanti ostacoli alla individuazione e rimozione delle cause del disagio e anzi sono il brodo di coltura nel quale crescono e si moltiplicano i batteri del pressappochismo e degli istinti retrivi. Il vuoto culturale diventa così una prateria nella quale alligna la malerba dell’intolleranza. Se siamo indotti a  gridare al lupo quando il lupo non c’è, se incoraggiamo il vuoto culturale riempiendolo con fandonie, non possiamo aspettarci la saggezza necessaria per superare momenti in cui la saggezza è necessaria.

martedì 23 gennaio 2018

I censori

L’aria contegnosa e il volto corrucciato, il sopracciglio perennemente arcuato in segno di  disapprovazione, gli illuminati conducono la loro crociata in difesa della verità assoluta agitando la bandiera della superiorità morale e predicando l’obbedienza al politicamente corretto, la bibbia che è obbligatorio osservare se si vuole evitare la scomunica. Questi sacerdoti dell’intolleranza ideologica, seppure in minoranza, riescono a soggiogare con l’arroganza delle proprie ragioni la grigia maggioranza silenziosa priva di qualsiasi ancoraggio ideale e incapace di ribellarsi alla colonizzazione delle coscienze. Imperversano, linciano, macchiano reputazioni, incitano le masse all’odio, gonfiano il petto indignati contro la corruzione e il malaffare, invocano la condanna all’emarginazione, fieri del loro pedigree immacolato. Ma la superiorità morale rivendicata in esclusiva dai nostri Torquemada non sempre odora di bucato, essa, quando è in buona fede, è  il volto ingenuo e velleitario degli onesti che urlano la loro rabbia alla luna, ma il più delle volte è la facciata perbenista dei sepolcri imbiancati che digrignano i denti per conto dei padroni del vapore, la maschera imbellettata dei servi al guinzaglio di interessi occulti in cambio di prebende e carriere. Quando dalle colonne della testate giornalistiche e dai salotti dei talk-show addomesticati tuonano contro i mali del mondo, in verità questi piazzisti del pensiero unico si prestano ad essere, vuoi per calcolo, vuoi  per cieco furore moralistico,  strumenti più o meno consapevoli degli oligarchi annidati nei santuari del potere che, sotto mentite spoglie, mentre si propongono quali modelli di virtù morali in sintonia con gli umori della piazza, perseguono una tirannia economica, politica, finanziaria e persino giudiziaria parallela al potere dello Stato. Pupi e pupari, insieme appassionatamente, hanno buon gioco perché si misurano col vuoto, perché alla loro arroganza culturale e morale fa da triste contraltare l’assenza di una solida coscienza civica, la mancanza di una proposta alternativa che non sia quella di una certa parte politica impresentabile la quale farnetica di valori liberali con una spudoratezza pari all’inadeguatezza con cui li tradisce. Ma salire in cattedra e pontificare sulle magnifiche sorti e progressive della loro centralità morale non assolve i nostri demagoghi dalla responsabilità per i rischi cui espongono la nostra civiltà, la civiltà del diritto, la libertà dal ricatto morale, la libertà di scegliere secondo principi piuttosto che secondo il verbo del pensiero dominante, la reputazione di chi è sfiorato dal sospetto, gli stessi principi fondamentali della Costituzione tradita dai medesimi che la celebrano. In questo quadro ci avviamo verso la consueta sceneggiata elettorale apprestandoci a ripetere un déjà vu e a consumare il solito rituale con cui consegneremo gli eletti nelle mani di chi ne farà uso per i propri fini. Alla schiera dei talebani del moralismo si oppongono le falange degli imbonitori che vantano la bontà della propria mercanzia, entrambe  offrendoci, dopo la bisboccia che ha prosciugato le risorse del Paese, la sbornia delle panzane e facendo a gara a chi le spara più grosse pur di portare a casa i risultati utili alla loro parte. Godiamoci questa fiera dell’inganno da qui al 4 marzo.