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martedì 29 marzo 2011

Giornalismo d’assalto

Ieri sono stato protagonista di una vicenda che vi voglio raccontare. Non ho voluto essere scortese con un giornalista, il signor Walter Molino di Anno Zero, che chiedeva di intervistarmi e, invece di liquidarlo telefonicamente con un secco no, ho accettato di incontrarlo e gli ho spiegato i motivi per cui non ritenevo di concedergli l’intervista. Mi sono sentito quasi in colpa per non avere potuto accontentare il giovane giornalista che mi è parso così amabile e ragionevole, tanto da avergli promesso un intervista a conclusione del mio processo. Ci siamo lasciati cordialmente dandoci appuntamento ad un più o meno prossimo incontro e mi sono avviato verso casa con la gradevole sensazione di avere conosciuto un giornalista perbene che aveva rispettato la promessa fattami di incontrarmi rinunciando a telecamere e microfoni, come io avevo chiesto.
Ma, ahimè, avevo appena finito di elaborare questa sensazione allorché sotto casa sono stato avvicinato dal collega del sig. Molino, Stefano Bianchi, il quale con tanto di microfono e telecamere al seguito pretendeva di intervistarmi nonostante io protestassi che avevo appena finito di negare l’intervista al suo collega della stessa testata.
L’imperterrito sig. Bianchi ha ignorato le mie proteste e ha cominciato a sottopormi ad una raffica di domande braccandomi per strada tra la curiosità della gente, mentre tentavo di sottrarmi all’intervista preda, lo riconosco, di una inconsulta crisi di nervi.
Ero caduto in una trappola con in scena due compari che hanno fatto il gioco delle parti, uno, il sig. Molino nel ruolo del giornalista conciliante che ha cercato di convincermi a rilasciare l’intervista, l’altro il sig. Bianchi, nel ruolo di cecchino che, ricevuta dal compare l’imbeccata dell’intervista non riuscita, ha tentato di strapparmela con una vera e propria incursione nella mia vita privata.
Sono stato incalzato persino mentre varcavo la soglia di casa e ho osservato dal balcone il sig. Bianchi mentre si aggirava nei dintorni come un avvoltoio non rassegnandosi alla rinuncia.
In questa vicenda c’è tanta rabbia perché il delirio dello scoop ad ogni costo non rispetta niente e perché fa paura l’arroganza con cui certi giornalisti pretendono di potersi permettere tutto ma c’è, soprattutto, l’amarezza dell’inganno di cui è vittima l’innocenza che avevo creduto di individuare nel sig. Molino.
A quando la prossima imboscata sig. Molino?

lunedì 28 marzo 2011

Dagli all’untore

Il mio blog parla per me e testimonia che non l’ho mai utilizzato per rivendicare la mia innocenza dall’accusa di associazione mafiosa che mi vede impegnato da 13 anni.
Ho declinato l’invito rivoltomi recentemente da alcuni giornalisti di rilasciare delle interviste proprio perché non volevo rischiare di lasciarmi trascinare in una difesa di me fuori dal mio processo.
Purtroppo 13 anni sono tanti e, fino a quando non si giunge ad una sentenza definitiva che fughi ogni dubbio, il massacro mediatico continua ad essere l’esercizio più diffuso a danno dell’imputato il quale ha, si, la possibilità di difendersi davanti al giudice ma non quella di fronteggiare il linciaggio che da per scontato ciò che scontato non è, secondo la consolidata consuetudine di dare per buone le imputazioni della pubblica accusa.
Purtroppo per me, sono stato accostato a personaggi politici che col tempo hanno scalato posizioni istituzionali prestigiose ma che, disgraziatamente per loro, non sono riusciti a scansare sospetti e indagini per presunte collusioni con il sottoscritto. Tutte le volte che ciò è accaduto, si è scatenata la solita canea su Mandalà autore di iniziative illecite date per certe anche se certe non erano visto che su di esse non c’è stata ancora una pronuncia definitiva della magistratura. Ora, per quanto io mi sia imposto di avere fiducia nello Stato certo di essere tutelato, ho dovuto constatare a mie spese che lo Stato non è in grado di difendermi da assalti che vengono considerati espressioni della libertà di stampa e di parola anche se massacrano l’immagine di un uomo che ancora ha diritto ad essere considerato innocente. Anzi lo Stato ha permesso che il mio processo si trascinasse per 13 lunghi anni lasciandomi esposto alla “libertà di parola” del giornalista di turno come dell’uomo della strada pervaso d’indignazione contro l’infame Mandalà. Tutte le volte che la mia identità è emersa, ho dovuto fare i conti con lo sgomento del mio interlocutore e con la crudeltà di chi mi invitava senza tanti complimenti a troncare i rapporti. E allora ho deciso di non starci più e l’ho deciso proprio in margine alla vicenda riguardante l’on. Romano, ministro impallinato prima ancora di cominciare perché accusato di avere avuto rapporti con me. Di fronte al solito copione che mi propone nella versione di regista occulto di manovre politico-mafiose, mi sono detto che non posso più aspettare i tempi biblici dello Stato per far conoscere la mia verità mentre in giro c’è chi si esercita a spalare immondizia senza contraddittorio, alcuni scrivendo di me senza aver letto le carte processuali, accusandomi di reati che neanche la magistratura mi ha mai contestato e attribuendomi una dimensione che non corrisponde alla mia posizione processuale, mi sono detto che non posso più tollerare di essere sbrigativamente liquidato come l’unico colpevole considerato tale per fede, l’unico male certo di ogni vicenda nella quale sono tirato in ballo, senza che nessuno si lasci sfiorare dal dovere della verifica, dal dubbio e dal rispetto dovuto al principio sacrosanto secondo cui l’imputato è da considerare innocente fino a che non sia condannato con sentenza definitiva. Per Mandalà la presunzione d’innocenza non vale e sulla sua colpevolezza tutti mettono la mano sul fuoco.
Come tutti mettono la mano sul fuoco sulla credibilità del signor Campanella il quale in lettere struggenti mi confessava tutto il suo affetto e mi invitava a considerarlo come un figlio ma al quale l’affetto non ha impedito di accusarmi, il quale, approfittando del suo incarico in banca e della fiducia dei clienti, ha operato truffe milionarie che hanno gettato sul lastrico intere famiglie private dei risparmi di una vita e non hanno graziato neanche parenti e amici, lo stesso Campanella che, mentre manifestava adoranti testimonianze d’affetto alla nonna, non ha esitato a farne una delle sue vittime. Un personaggio capace di queste acrobazie morali, che ha fatto dell’inganno la bussola della sua vita, che è afflitto da nevrosi da frustrazione per le sue ambizioni deluse, che è stato colto in diverse evidenti contraddizioni e false dichiarazioni, come può essere preso in considerazione in genere e in particolare quando racconta l’ennesima bufala sui rapporti tra me e l’on. Romano? Se c’è un fatto su cui non ci possono essere dubbi, non tanto perché lo dico io ma perché la stessa magistratura non ha mai provato il contrario, è che io non conosco e non ho mai avuto rapporti con l’on. Romano. Io Romano non lo conosco e non l’ho mai visto ed è inammissibile che su un rapporto mai esistito se non nella fantasia del signor Campanella si costruiscano accuse così gravi.
Questo può avvenire solo in un Paese in cui si è perduto il senso della misura, in cui la macelleria ha da tempo sostituito il rispetto per la verità e le persone e persino l’evidenza a favore dell’imputato, se è un imputato di mafia, è trattata col sospetto e i toni stizziti di chi teme siano messi a rischio i teoremi sui quali si costruiscono carriere e rendite di posizione, in cui il razzismo colora ogni considerazione sul mafioso ritenuto antropologicamente inferiore e immeritevole di diritti. In un paese come questo vadano al diavolo le cautele e il rispetto per le forme, da oggi tutte le volte che sarò vittima di entrate a gamba tesa, non mi tirerò indietro, costi quel che costi.

mercoledì 23 marzo 2011

La crisi libica

La crisi libica ha fatto affiorare l’ipocrisia con cui il mondo occidentale l’ha affrontata agitando la bandiera della difesa dei diritti umani dietro cui si nascondono altri più concreti e prosaici motivi.
Portabandiera della crociata contro Gheddafi è la Francia che ha provocato la risoluzione dell’ONU e non ha aspettato il tempo necessario a coordinare l’iniziativa dei partner impegnati nella missione e a stabilire i criteri di interpretazione della risoluzione e per prima ha sferrato l’attacco contro la Libia. Perché, diciamo le cose come stanno, di vero e proprio attacco si è trattato con costi in vite umane e distruzioni a tappeto, nonostante la risoluzione dell’ONU si limitasse ad una no-fly zone che avrebbe dovuto vigilare affinché gli aerei libici non si levassero in volo a bombardare le postazioni dei ribelli, al limite neutralizzando le postazioni antiaeree. E’ vero che c’era in ballo la vita degli insorti asserragliati a Bengasi ed esposti all’ultimo assalto dei soldati fedeli a Gheddafi ma è pur vero che, scoraggiata l’iniziativa dei regolari di Gheddafi e scongiurato il pericolo di un massacro, l’azione della Francia e delle altre nazioni che si sono unite alla missione, avrebbe dovuto rientrare entro i limiti imposti dalla risoluzione. Perché la missione ha come scopo la tutela della vita dei ribelli a rischio di massacro, non quello di disarcionare Gheddafi.
La verità è che dietro la frenesia della Francia si muovono, come prima accennavo, motivi che non hanno nulla a che vedere con la difesa dei diritti dell’uomo: l’antico e patetico sciovinismo francese, la voglia di lustrare la grandeur a spese di un piccolo Paese, il carattere macho ed esibizionista di Sarkozy, il desiderio di far dimenticare la politica a dir poco disinvolta messa in campo nei rapporti con Ben Ali e Mubarak, un vetero colonialismo duro a morire che vede nelle risorse naturali della Libia un tavolo al quale banchettare, la voglia di ridisegnare gli assetti nello scacchiere del Mediterraneo. Tutto questo ha fatto dimenticare che esistono regole internazionali che tutelano la sovranità nazionale dalle interferenze di altri Stati e che, per quanto si ponesse il problema di proteggere le popolazioni civili dal rischio di un massacro, si andava ad operare nel contesto di una questione interna libica che quindi meritava un approccio deciso ma allo stesso tempo cauto e accompagnato da una più intensa attività diplomatica. D’altronde il risultato di tanta intempestività è sotto gli occhi di tutti e vede Stati come la Norvegia, che ha aderito alla missione con azioni e mezzi, sospendere la sua partecipazione, Russia e Cina, all’inizio spettatori neutrali, assumere adesso una posizione di netto dissenso, la Lega Araba che aveva appoggiato la missione, ritornare sui suoi passi e dirsi contraria all’iniziativa per come si sta dispiegando. A tutti appare chiaro che si è andati oltre il dovuto, che l’operazione si avvia verso una posizione di stallo incapace di risolvere un bel niente, tranne che non si decida di estendere il conflitto facendo partecipare truppe di terra. Un bel risultato davvero che ci fa interrogare sul perché in Libia ci si è spinti fino a tanto e in altre parti del mondo dove si è fatto di peggio no, che ci espone all’accusa di essere i soliti colonialisti e di conseguenza al rischio di finire nel mirino del fondamentalismo islamico e alienarci le simpatie dell’Islam moderato. Un risultato che certo non era nelle intenzioni di Obama, di Cameron e dello stesso fumino Sarkozy insufflato dall’ineffabile Bernard-Henri Lévy paladino dei diritti umani a tempo pieno che capeggia la schiera degli intellettuali di sinistra europei, interventisti si, interventisti no a seconda delle circostanze e delle pulsioni del momento, in questo caso interventisti si !
L’Italia, tanto per cambiare, fa la solita figura dell’ultima della classe, incerta sul da farsi, incapace di prendere decisioni fulminee e originali a due passi da casa sua, nel catino d’acqua che la separa dalla Libia, in un contesto che la vedeva interlocutrice privilegiata e naturale di un Paese che avrebbe dovuto tenere fuori dalla portata dei famelici francesi. In compenso facciamo da “affittacamere” ai velivoli dei “volenterosi” che vanno a bombardare la Libia e, mentre gli altri fanno i loro affari, noi ci becchiamo l’ondata dei migranti a Lampedusa.

venerdì 18 marzo 2011

Due popoli, due stili

Il sisma nipponico ci consegna l’immagine di un popolo dignitoso che ha fatto della sobrietà nell’affrontare una tragedia immane, la sua bandiera. Sono state cancellate vite e intere regioni, assistiamo a scene che lacerano il cuore, stiamo col fiato sospeso per le conseguenze che ancora possono derivare dalle bizze dell’impianto nucleare di Fukushima. A tutto questo si oppongono gli sforzi di eroici volontari che resistono sul ciglio del baratro nucleare combattendo una battaglia eroica e dall’esito incerto, la fermezza del primo ministro, gli occhi sbarrati dei superstiti che pure non si abbandonano a scene di disperazione scomposta. Soprattutto colpisce la capacità di un popolo di fare quadrato e offrirsi agli occhi del mondo con l’orgoglio intatto di una nazione che si riconosce nella figura ieratica del suo imperatore. Ecco quello che più colpisce è questo senso di appartenenza che fa marciare cortei di uomini in ordine compatto, nonostante condizioni estreme, ciascuno nel rispetto dell’altro, senza abbandonarsi all’assalto alla diligenza o ad episodi di furbizia. Di fronte a stravolgimenti apocalittici come quello che ha colpito il Giappone, tutto il resto appare banale e credo che in molti di noi sia affiorato un senso di colpa per la stoltezza con cui diamo importanza a vicende di cui dovremmo sapere ridimensionare la portata, grati alla sorte per essere stata benevola con noi. In particolare noi italiani, allo stesso modo in cui proviamo un senso di ammirazione per un popolo così eroico, non possiamo fare a meno di provare un senso di sconforto se ci rifacciamo alla nostra realtà priva di collante unitario, rissosa e incapace di ritrovare il senso della misura e dell’appartenenza persino nelle ricorrenze più importanti e nelle vicende più drammatiche. La mente va al terremoto dell’Aquila che ha visto dispiegarsi una gara di solidarietà nella quale gli italiani sono impareggiabili, ma ha visto anche venire allo scoperto cialtroni intenti a fregarsi le mani in vista di speculazioni che avrebbero realizzato grazie al terremoto, consorterie che si organizzavano per gestire gli affari del dopo terremoto, uomini politici i quali, alla stregua di corvi che volano sulle macerie, hanno approfittato della tragedia per tentare di lucrare consensi rinfacciandosi reciproche responsabilità.
Incapaci di imparare dalle tragedie altrui, le strumentalizziamo accapigliandoci sul nucleare si, nucleare no, ciascuno cercando di portare acqua al mulino della propria politica in vista del referendum di giugno ma non discutendo seriamente su una scelta che, pur con i suoi rischi, va valutata sapendo che nulla è privo di rischi.
L’esempio nipponico ci rimanda alla nostra inadeguatezza persino nella gestione delle celebrazioni per la ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia che ci vede incapaci di viverla con la solennità, seppur scevra di retorica, che essa impone, con l’orgoglio del nostro passato e la consapevolezza della comune appartenenza ad una cultura tra le più importanti, se non la più importante, mai esistita al mondo. Siamo fermi all’Italia dei Comuni con cui si consumò “l’aborto dell’Italia come Stato nazionale” ( Montanelli ) e in cui la nostra natura di guelfi e ghibellini fa ancora premio sulla nostra capacità di riconoscerci in un’unica Nazione, in cui quello che potrebbe essere un contributo di valori muniti di una loro preziosa peculiarità, all’insieme del Paese, si ferma ad un campanilismo sterile.
Quanto è sentita e come è sentita l’Unità d’Italia ce lo dice la performance di giovanotti nei quali ho avuto la sventura di imbattermi mentre irridevano l’inno di Mameli tra risate sguaiate oppure l’ incapacità di gestire le celebrazioni per la ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia nel segno della pacificazione, facendo a meno del rancore e della mistificazione con cui si è proceduto alla rimozione dalle celebrazioni della monarchia dei Savoia alla quale si vuol far pagare il torto di avere realizzato l’unità d’Italia attraverso la costituzione di uno Stato liberale e costituzionale che ci ha affrancato dal potere assoluto ma ha fatto a pezzi l’utopia di un risorgimento rivoluzionario vagheggiato da pochi sognatori. Quanti hanno fatto della Resistenza un secondo risorgimento in cui si è inseguito il mito di una rivoluzione ancora tentata ma ancora fallita, non perdonano alla monarchia, oltre a tutto il resto, anche quello per cui bisognerebbe onorarla, la realizzazione dell’unità.
Gli eredi del rancore, incuranti dell’importanza di stringersi attorno alla nostra bandiera, non hanno avvertito la miseria morale del loro gesto quando hanno fischiato il Presidente del Consiglio in un giorno di festa nazionale, persino nei luoghi cari alla nostra Patria. E i leghisti a loro volta non percepiscono che sono fuori dalla storia quando bruciano l’effigie di Garibaldi e “celebrano i riti improbabili di una patria inesistente” ( Sergio Romano ). Siamo un popolo irredimibile indegno del nostro passato ed anche del nostro futuro.

sabato 5 marzo 2011

Il martirio di Shahbaz Bhatti


Sono cristiano e vivo la mia fede come posso, tra mille dubbi, tra i richiami della mia ragione che mi induce allo scetticismo e il bisogno di abbandonarmi alla fede.
Durante la mia vita mi sono posto molte domande e, tra esse, la più pressante ha riguardato l’affermazione di Pascal: “ Il dolore, il cristiano lo accetta, il santo lo cerca “.
Mi chiedevo che senso avesse? Va bene accettare la sofferenza con forza d’animo ma addirittura cercarla, questo non riuscivo a capirlo. Anzi il mio sano, empirico liberalismo mi induceva a ritenere che tutto va ricondotto all’uomo, che alle proprie virtù e ai propri vizi sono affidate le sorti di ciascuno di noi il quale ha il diritto di inseguire e, se ne è capace, di realizzare il destino che ritiene migliore, altro che sofferenza.
Tuttavia, pur mantenendo dritta la barra della mia etica liberale, a un certo punto ho dovuto fare i conti con le esperienze drammatiche che la vita mi ha apparecchiato e con le quali mi son dovuto misurare avvertendo gli scricchiolii delle mie certezze. La crudeltà e la sofferenza hanno valicato il confine dell’umano e mi hanno chiesto ben altro che la mia fierezza d’animo.
Convivere con uomini senza via d’uscita, percepire l’ineluttabilità di vite perdute, sentire il puzzo di bruciato delle fiamme che ardevano nell’animo di giovani tormentati dall’ossessione di farla finita, ha suscitato in me una pietà mai avvertita. Il pudore che blindava il mio cuore e non mi concedeva cedimenti, arretrava di fronte al dramma di vite senza speranza, perdute nel loro infinito nulla e si arrendeva all’abbandono di una scelta temeraria. Fu il momento in cui capii che cosa intende Pascal e cosa intende Agostino quando afferma: “ Costruisci te stesso e costruirai un rudere “.
Cominciai ad avvertire un senso di colpa e a comprendere che la mia fede laica era una forma di egoismo senza approdo ma soprattutto compresi che mi era mancata la capacità di condividere la sofferenza altrui, di trasformare l’inferno in amore, di avere Cristo nel cuore e di essere coinvolto nella Sua follia.
Ho rivissuto le sensazioni che hanno accompagnato il mio percorso di fede e
le condizioni nelle quali esso è maturato quando, leggendo la notizia dell’uccisione di Shahbaz Bhatti, ho riconosciuto nella sofferenza del suo martirio, la sofferenza crudele e feconda del cristiano. Bhatti era cattolico in un Paese, il Pakistan musulmano al 97%, in cui l’intimidazione spinge le confessioni non islamiche all’emarginazione e le battaglie per l’emancipazione religiosa sono estremamente pericolose. Era uno che conduceva la sua lotta impegnandosi, con la consapevolezza dei rischi cui andava incontro ma senza timore delle conseguenze, contro la condizione di minorità dei cristiani. In particolare si batteva per l’abolizione dell’articolo 295 del codice penale che prevede la pena di morte per chi offende Maometto, un articolo che fa correre rischi mortali a chi professa una fede diversa dall’islamismo e può essere accusato ingiustamente di blasfemia. Sono facilmente immaginabili le condizioni in cui si muove chi conduce simili battaglie e di esse si ha una testimonianza nel testamento spirituale scritto da Bhatti : “ Fu l’amore di Gesù che mi indusse a offrire i miei servizi alla Chiesa. Le condizioni spaventose in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico. Mi è stato chiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita………Mi considererei privilegiato qualora- in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan- Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita “. Bhatti sapeva che cosa l’aspettava e, come un martire antico, è andato incontro alla sua sorte con serenità, sapendo di “ guadagnarsi un posto ai piedi di Gesù e di poterlo guardare senza provare vergogna “.