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mercoledì 30 dicembre 2015

Dei corrotti, dei corruttori e dei mafiosi

L’anno che ci lasciamo alle spalle si è distinto per la disinvoltura con cui una certa nomenklatura ha inteso il proprio ruolo. Una élite che è tale non a motivo delle alte necessità del suo compito ma allo scopo di accaparrarsi guarentigie cui non ha diritto, una corruzione diffusa che genera scandali a cascata, commistioni tra i diversi organi dello Stato che sconfinano illegittimamente da una competenza all’altra, il potere amministrato in maniera disinvolta da oligarchi che pretendono di gestire la cosa pubblica come fosse cosa loro, regole di condotta che valgono per gli altri ma non per quelli che le impongono, e via elencando, danno un quadro disarmante delle condizioni in cui versano le nostre istituzioni. Quando la nostra classe politica fa la ruota vantandosi della sua onestà e del suo interesse per il bene del Paese, ci deve spiegare dove erano i suoi uomini mentre il nostro PIL scendeva e il nostro debito pubblico saliva e chi dobbiamo ringraziare per il desolante quadro sociale delle terre del Sud che vede la disoccupazione al 20% (quella giovanile al 30%) con il conseguente smarrimento delle coscienze e la tentazione di virare verso l’illegalità, dove erano questi uomini mentre deflagravano Mafia Capitale e Rete Ferroviaria italiana e i manigoldi che custodivano i nostri risparmi ne facevano man bassa. Scopriamo un mondo a rovescio in cui coloro che dovrebbero servire lo Stato, ne abusano, in cui i bardi della lotta al malaffare sono i primi malfattori, in cui la conventicola dei colletti bianchi traffica tra le pieghe della pubblica amministrazione e, pur causando danni maggiori delle grandi organizzazioni malavitose tradizionalmente intese, al contrario di queste non paga pegno. Siamo costretti a subire la dittatura della consorteria dei poteri forti, siano essi una certa magistratura potente e autoreferenziale, la grande finanza, i politici al servizio di interessi opachi, e della mafia dei grandi boiardi annidati tra le quinte delle istituzioni, con alle spalle coperture politiche ai massimi livelli, che si muovono a loro piacimento senza rispondere ad alcuno tranne ai padrini che li hanno designati ma dai quali col passare del tempo si sono affrancati costituendo una forma di potere autonomo e illegittimo, un autentico bubbone cancerogeno che corrode l’organismo dello Stato. Tentacolari come la piovra evocata da Cosa Nostra, fanno il bello e il cattivo tempo, decidono a loro piacimento e nel loro interesse, gestiscono enormi fette di potere fuori da ogni controllo, condizionano persino le attività del Parlamento e del Governo, infliggono alla società un danno irreparabile, minano le basi stesse della democrazia. Come potrà infatti la società difendersi da una classe dirigente affetta da una sorta di polimiosite in cui gli anticorpi si rivoltano contro la salute pubblica che dovrebbero proteggere e che hanno il loro antidoto nell’attività di controllo degli stessi controllati? Non c’è certezza di nulla ma, quel che è grave, non c’è più fiducia nello Stato che ci dovrebbe dare certezze. E il quadro si dipinge di tinte ancora più sconfortanti se si considera che noi cittadini siamo irredimibili, la nostra opinione pubblica, in buona parte gaglioffa e immorale, ammicca con indulgenza alla nostra classe dirigente corrotta nella quale si riconosce e ambisce militare e, manipolata dai rumor della solita caccia al solito lupo, limita i confini del suo orizzonte alla mafia stracciona e masochista che si presta ad essere l’alibi di mafiosi ben più raffinati e pericolosi. Mentre la forbice tra il privilegio dei pochi e l’indigenza dei molti si allarga, assistiamo, come ogni anno di questi tempi, alla parata annuale dei sepolcri imbiancati che sfilano per le stanze dorate del potere esibendo senza alcun pudore le vestigia della loro superiorità non morale ma castale, recitando il copione di fine d’anno e celebrando il consunto rito di un messaggio alla nazione che si nutre di parole vuote e suona come uno sberleffo al popolo “sovrano”. Mi pare di vederli mentre inguainati nei loro gessati godono di uno status che non meritano, in una atmosfera di sacralità. Salutiamo un anno che non rimpiangeremo, senza speranza che il prossimo sia migliore.




mercoledì 23 dicembre 2015

Sabrina Ciulla


E’ stata una serata magica quella vissuta qualche sera fa al cinema King dove è andato in scena lo spettacolo di cui ognuno di noi vorrebbe essere protagonista. Sul palco si sono alternati artisti di successo, da Baccini a Castagna, ai Tamuna e i conduttori Anna Falchi e Sasà Taibi, tutti offrendo della buona musica e uno spettacolo bello da gustare perché mai banale e capace di coniugare arte e solidarietà. Per quelli della mia età poi, specie grazie a Baccini, si è trattato di un vero e proprio amarcord che  ha rimandato agli anni verdi in cui  assaporavamo le  canzoni che ci erano complici nei primi innocenti flirt di allora. Abbiamo assaporato l’atmosfera dei cantautori genovesi che hanno segnato un’epoca e una produzione irripetibile. La Falchi poi, bella come non mai, fasciata in un vestito che ne accentuava le forme prorompenti eppure non volgari, ci ha stupito con una classe che certe sue performances cinematografiche avevano appannato. Una vera bella sorpresa! Tutti gli artisti hanno assolto il loro compito come meglio non potevano e le nuove leve siciliane hanno ben figurato dando prova di un talento che merita ben altra attenzione della nostra solita indifferenza. Ma la vera star della serata è stata Sabrina. E’ salita sul palco palesemente emozionata, e si può capire visto che la sua ribalta naturale non è il palco di un teatro ma la strada dove è impegnata assieme a un gruppo di volontari a raccogliere gli scarti della società e a curarsene. Nonostante l’emozione la sua luce splendeva lo stesso e ha affascinato ancora più della Falchi la platea che ha mostrato di capire, si è commossa e le ha tributato un applauso scrosciante, da star quale è appunto, una star della misericordia. Mi sono sorpreso a riflettere sulla banalità delle lacrime che versiamo lamentando la  sorte avversa e mi sono sentito colpevole e inadeguato, ho confrontato il mio destino con quella degli infelici disseminati ai margini della società e mi sono detto che, tutto sommato, non ho il diritto di frignare per le  piccole e grandi vicende, alcune anche drammatiche, che hanno attraversato la mia vita, che tutti noi, al riparo di una sicurezza economica che siamo riusciti ad agguantare e alienati da una insensibilità che ha desertificato la nostra anima, abbiamo il dovere di metterci in gioco, di sporcarci le mani e i calzari, di sottoporre a un bel lavacro la nostra coscienza. C’è voluta questa giovane donna di trent’anni perché la mia coscienza, la mia compagna di un tempo andata in letargo, si rifacesse viva.  BUON NATALE

PS - Sabrina Ciulla opera con l’associazione di volontariato “ANIRBAS” IN Corso Calatafimi, 166 Palermo
You Tube: associazione anirbas
Telefono: 091 42 73 45

venerdì 18 dicembre 2015

Così parlò Totò

“Andando in carcere, senza protestare nonostante mi proclamassi innocente, ho rispettato il mio diritto di avere fiducia nella giustizia.” E ancora: “Sul professionismo dell’antimafia in tanti hanno costruito la propria carriera distruggendo la vita degli altri. Non parlo dei magistrati, beninteso.” Così parlò Totò Cuffaro all’indomani della sua scarcerazione, confermando il suo profilo misurato e la sua fiducia nella giustizia e nei magistrati. Ha ragione Cuffaro a mantenere questo stile sobrio perché egli non ha bisogno di urlare la sua rabbia, egli è entrato in carcere accompagnato dalle attenzioni di una stampa che ne ha narrato la sofferenza in carcere, ci ha raccontato di come offrisse la sua solidarietà ai compagni detenuti, di come uno Stato poco misericordioso gli abbia negato il permesso di visitare la madre malata. Un affresco toccante che ha continuato ad essere dipinto, dopo la scarcerazione, nei resoconti dei giornali che hanno trasmesso l’immagine accattivante e mite di un Cuffaro che, dopo avere affrontato con fermezza la carcerazione, ha saputo gestire la scarcerazione misurando i toni e guadagnandosi il rispetto anche di quelli che non sono mai stati suoi sostenitori. Non ha dovuto urlare, per lui ha parlato la sua immagine pacata che ha trovato ampia diffusione nei mezzi di comunicazione. Ci sono invece quelli che sono condannati ad affrontare gli incidenti della vita in solitudine, e in solitudine devono combattere contro le ingiustizie che si annidano persino nelle pieghe della giustizia, avendo come sola arma la propria voce, per loro è difficile essere sobri, loro hanno bisogno di urlare per farsi sentire. Non si possono permettere la magnanimità di Cuffaro il quale mostra di perdonare la giustizia che lo ha condannato da innocente proclamando per di più che continua ad avere fiducia in essa, forte del sostegno della gente e di un ritorno di immagine che equivale a un riscatto. Gli altri, gli invisibili, i condannati all’anonimato, non dispongono di una platea che fa il tifo per loro, del sostegno della società che li spinga a risalire la china, restano sconosciuti all’opinione pubblica, oscuri peones alla mercé della loro solitudine. Abbandonati a se stessi, non sempre hanno la forza di sottrarsi alla deriva di una vita predestinata e soccombono, urlando al mondo la loro rabbia, senza potersi permettere il lusso della sobrietà. La sofferenza per la stessa pena, come si vede, non è uguale per tutti.

domenica 13 dicembre 2015

Il nuovo Cuffaro


Qualcuno dice che non dobbiamo più chiamarlo Totò, nome inghiottito dal primo capitolo  di una vita finita dietro le sbarre. Non ho mai conosciuto il Totò dei fasti ma conosco bene il Cuffaro smagrito di Rebibbia, ne ravviso il volto scavato e lo sguardo consapevole di chi ha visitato l’inferno e scoperto se stesso. 
Lo riconosco quando tributa il suo amore per i compagni e declina la fierezza umile di una ritrovata condizione. Mi rivedo in lui quando scrive: “Scrivo e riprendo i miei pensieri che, altrimenti, condannati a rimanere sconosciuti, si perderebbero per sempre”, parole che echeggiano il contenuto della nota d’autore del mio romanzo in cui scrivo: “I personaggi che incrociavo, i fatti che attraversavano la mia vita in carcere, le emozioni per gli episodi e gli affetti che via via mi andavano coinvolgendo, presero il sopravvento e con essi la voglia di fissarli come a custodire un bene prezioso che sentivo di dovere salvare………. che mettevo su carta freneticamente nel timore che qualcosa andasse perduto…..”. In queste parole c’è l’angoscia per la propria condizione, c’è l’ansia di aggrapparsi alla zattera della scrittura e di ghermire i pensieri che scorrono veloci, il timore di non riuscirci e di dover convivere col vuoto della mente, c’è il linguaggio che accomuna nella medesima accezione tragica coloro che hanno vissuto l’esperienza del carcere, ne descrivono la sofferenza e ne sono ambasciatori, c’è lo strumento di chi attraverso i Cuffaro e i Mandalà comunica al mondo il proprio dolore, c’è il resoconto della intimità ritrovata dopo l’insulto inflitto ad essa da una vita banale, c’è il diario della libertà conquistata tra le mura del carcere che ti fa librare oltre le sbarre, c’è la scelta che ti fa imboccare la via della resurrezione quando devi decidere se vivere o morire.  
 Lo immagino Cuffaro mentre, a contatto con l’inferno dei primi giorni, decide di resistere e di combattere e volare alto verso vette mai prima raggiunte. Al nuovo Cuffaro che esce dal carcere auguro di possedere gli anticorpi necessari ad affrontare il ritorno al mondo civile.

giovedì 10 dicembre 2015

Becero, perché no?

A conclusione del talk show “Virus” di qualche sera fa, il fisico Carlo Rovelli, ospite della trasmissione, ha dato a Porro del becero per il taglio, a suo avviso scorretto, dato dal conduttore alla trasmissione. Porro ha risposto da par suo ma a me non è bastato. Debbo dirlo senza perifrasi, sono incazzato contro la tendenza al politicamente corretto che assolve l’Islam dalle sue colpe e considera i musulmani vittime dell’Occidente. L’Occidente ha commesso i suoi errori ma i musulmani sono vittime soprattutto di se stessi tanto è che la mattanza maggiore è quella che si scambiano i Sunniti e gli Sciiti, e dare del becero con la pretesa che bisogna porsi col cappello in mano nei confronti dell’Islam, è un modo fuorviante di affrontare il problema. Un conto è il dialogo, un altro conto è cospargerci il capo di cenere e andare a Canossa autoaccusandoci di errori che sono solo frutto dei nostri complessi di colpa e inducendo i nostri amici musulmani a equivocare sulle nostre debolezze. Se scegliere Voltaire rispetto all’oscurantismo, non accettare la religione di conquista che pretende di possedere una sua superiorità rispetto ad altre confessioni religiose e guarda con disprezzo alle altrui fedi, non accettare che la religione si mischi alla politica e il culto alla vita civile generando forme di teocrazia e dunque che la religione sia istituzionalizzata e imposta ad un’intera società come avviene in alcuni Stati arabi, non accettare che la professione di fede si trasformi in consegna della propria anima a odiose derive religiose, significa essere becero, ebbene io mi dichiaro becero. Discutendo con amici liberal, mi sono sentito rimproverare affettuosamente per avere espresso questo mio punto di vista. Mi hanno contestato che esiste un islamismo fatto di persone normalissime ( ci mancherebbe altro ), di amici con cui si possono intrattenere rapporti civilissimi e di cui ci si può fidare come e più di altri amici di fede diversa. Mi hanno parlato di professionisti, di artigiani, di giovani e meno giovani con cui condividono piacevoli serate, parlando del più e del meno senza che mai faccia velo la diversità di fede e con un approccio tollerante dell’uno nei confronti dell’altro. E’ vero, io stesso conosco queste persone degnissime e già parlarne come se fossero una eccezione che stupisce, le offende. Però, c’è un però. C’è che quando, dialogando con i miei amici musulmani, sento elogiare la normalità del Corano nelle parti in cui esso recita che le punizioni corporali sono inflitte solo a chi crea scompiglio ad una comunità regolata dalla legge di Dio, in cui recita che l’apostata deve vivere in privato la sua nuova fede per evitare di sconvolgere l’ordinamento nazionale, in cui recita che la proibizione della musica serve ad evitare distrazioni dallo studio del Corano e deviazioni da comportamenti equilibrati, realizzo con preoccupazione che il mondo musulmano ruota esclusivamente attorno alla dimensione religiosa al cui dogma è sottomessa la coscienza dell’individuo (e sennò si rischia addirittura di “sconvolgere l’ordinamento nazionale”), e mi cadono le braccia se tutto ciò è ritenuto normale da persone di cui non si può sospettare nulla che non sia ragionevole e che ti appaiono come normalissimi amici della porta accanto. Proprio questi amici di cui ammiriamo lo spiccato senso civico, la pacatezza delle argomentazioni e i costumi comuni a qualsiasi cittadino europeo, trovano normale rinunciare alla propria identità e alla propria libertà di pensiero. In un clima simile può accadere che giovani fermi nella convinzione di possedere la verità definitiva, infettati dal virus della follia jihadista, strumentalizzati e mandati al massacro da chi ha un progetto politico ben chiaro, decidano di punire gli infedeli o i non ortodossi e di condurre la loro guerra santa soprattutto al loro interno ( tra Sciiti e Sunniti ) ma anche fuori dai loro confini, nei confronti dei cristiani imbelli che disprezzano. E’ allora che l’amico della porta accanto diventa il nemico della porta accanto. Quante volte ci siamo chiesti come sia potuto accadere che persone che non avremmo mai sospettato si siano trasformate in mostri? E’ un fatto che, come ha scritto Oriana Fallaci citando il saudita Abel Rahman al Rashed, non tutti gli islamici sono terroristi ma tutti i terroristi sono islamici. Ci sarà un motivo. Il motivo è che nella loro storia ai nostri amici musulmani è mancato un passaggio fondamentale della loro formazione, sono mancati i valori dell’Illuminismo che duecento anni fa hanno dato all’individuo la coscienza di sé e dei propri diritti fondamentali, e che questi nostri amici scontano un ritardo di duecento anni. Questo non ci autorizza a delirare straparlando di guerre di religione e di imbecilli pretese di noi occidentali di esportare la democrazia, proprio noi che abbiamo da farci perdonare le coglionate che abbiamo fatto nel corso dei secoli proprio nei confronti dell’Islam e continuiamo a fare ancora ai giorni nostri in nome del petrolio (riforniamo l’Isis persino di armi!). Ma non ci autorizza neanche a rifugiarci in un buonismo che serve a esorcizzare i nostri sensi di colpa e perde di vista la vera natura del problema consegnandoci ad un masochismo velleitario e carico di conseguenze suicide. Dobbiamo combattere la nostra battaglia in difesa della nostra civiltà con approccio laico, senza autoassoluzioni ma anche senza arrenderci alle colpe degli altri, e dobbiamo combatterla con a fianco gli amici musulmani della porta accanto che hanno a cuore i diritti che si sono conquistati assieme a noi, che debbono avere un ruolo fondamentale nel disinnescare senza esitazioni e manifestazioni di vittimismo peloso (lamentano le difficoltà di trovare spazi al loro credo in un Occidente che invece è tollerante e che anzi a volte si abbandona a forme di piaggeria servile, mentre invece negli Stati islamici i cristiani sono perseguitati) l’integralismo dei loro correligionari e debbono dialogare con noi per costruire un avvenire fatto di confronto civile anziché di conflitto sanguinoso.

venerdì 4 dicembre 2015

A volte ritornano

Mentre il web in Sicilia tace il dr. Ingroia esterna. Egli in alcune recenti interviste ha espresso il suo rammarico per come andavano le cose nel mondo giudiziario quando anche egli ne faceva parte e ancora adesso dopo che se ne è allontanato. Ecco alcune parti delle dichiarazioni contenute in una intervista rilasciata a “Il fatto quotidiano”: “L’eccesso di attenzione mediatica alla fine ti storpia la vita… essere un personaggio aumenta l’autostima. Fa piacere è anche umano. Ma senza volerlo vieni trascinato a trasformarti in oggetto invece di resistere come soggetto, a rischiare di essere dominato dalla scena invece che dominarla”. E ancora: ”Oggi che sono avvocato noto ciò che ieri non vedevo e cioè che sono germogliati troppi ideologi dell’opportunismo a volte compartecipi di una notorietà e di un potere che produce per loro utili ingiustificabili……, che si offrono scalpi all’opinione pubblica, vittime sacrificali in ragione di un’approssimazione colpevole….”. Alla buon’ora, il dottore Ingroia è stato finalmente folgorato sulla via di Damasco e ha ammesso che degli imputati in genere, e di certi imputati in particolare, si è abusato. Come egli stesso afferma, la spettacolarizzazione e, aggiungiamo noi, la lunghezza dei processi, la gogna che anticipa la pena e la fa pagare in anticipo nelle forme di pubblico disprezzo, la stessa pena certa tanto quanto è approssimativa la colpevolezza, fagocitano la vita dei presunti rei e la risputano in forma di poltiglia buona per le porcilaie. Sono le patologie di una giustizia malata e fa piacere leggere che il dr. Ingroia se ne sia reso conto e ne soffra sinceramente. Ma ci sorge un dubbio quando leggiamo un’altra sua esternazione: “Non difenderò mai mafiosi e corrotti!”. Evidentemente le incrostazioni del suo essere stato Pubblico Ministero con gli eccessi che rimprovera ai suoi ex colleghi, hanno lasciato il segno. Probabilmente gli riesce difficile rassegnarsi all’idea che egli è ormai solo un avvocato e come tale non può discriminare gli imputati secondo i suoi gusti perché tutti gli imputati, per gravi che siano le loro imputazioni, hanno diritto ad essere difesi. E’ un fatto di civiltà giuridica e di deontologia. Purtroppo, nonostante egli abbia dichiarato: ”La mia vita è una seconda vita nella quale metto a frutto gli errori della prima.”, nonostante ormai avvocato e non più Pubblico Ministero, continua a coltivare il malvezzo di considerare gli imputati colpevoli più per la loro reputazione che per le loro responsabilità, e si presta a “offrire scalpi all’opinione pubblica” anticipando le sentenze di condanna fuori dall’aula di un tribunale. Comprendiamo il suo desiderio di riguadagnare il centro della scena, meno la sua concezione in materia di garanzie fondamentali.  

lunedì 30 novembre 2015

La fede laica

Nei commenti alla strage di Parigi ci scopriamo attenti censori di noi stessi avvolgendo in pudiche circonlocuzioni parole impronunciabili quali odio e guerra e accostandoci ai vizi dell’Islam con cautela per non suscitare l’accusa di islamofobia. Rimuoviamo la parola guerra perché abbiamo archiviato da tempo l’idea di essa quale eventualità probabile ed anche perché per fare la guerra bisogna essere in due e l’Occidente non è disposto a rischiare i suoi figli sul campo. E ci abbandoniamo a reazioni indignate se qualcuno inveisce contro i terroristi chiamandoli islamici, protestando che islamico non è sinonimo di terrorismo e che la causa del terrorismo non è dovuta solo all’Islam ma anche, o forse soprattutto, a noi occidentali. Soffriamo al contempo di un complesso di colpa e di protagonismo, una sorta di razzismo a rovescio che nega agli altri la capacità di peccare e attribuisce a noi una centralità da cui discendono i mali del mondo, quasi che fossimo i soli capaci di libero arbitrio. Per bocca dei soliti intellettualoidi affetti dalla sindrome di Tafazzi, sussurriamo che, se l’Isis ci fa la guerra, è perché ce la meritiamo, per gli errori che abbiamo collezionato nello scacchiere mediorientale e per avere ghettizzato i magrebini nelle periferie degradate delle città europee creando focolai di malcontento destinati prima o poi ad esplodere, per esserci anche noi macchiati in passato di efferatezze analoghe a quelle che rimproveriamo ai nostri nemici. In effetti l’Occidente si è distinto nel recente passato per la sua stoltezza, e le babele in Iraq, in Libia, in Siria, il serbatoio di rancore delle banlieu parigine sono lì a testimoniarlo, e c’è un passato di colonialismo che non ci fa onore. Ma, a differenza del mondo al quale si rifà l’Isis, noi europei abbiamo saputo insorgere contro i nostri errori rivelando una coscienza che manca altrove. E’ la stessa coscienza che ci ingiunge di affrontare con misericordia la migrazione massiccia proveniente proprio dal mondo islamico, di cui è esempio il welfare illuminato che accoglie i mussulmani nelle periferie belghe, dove, ciononostante, è ugualmente fiorito il verminaio del terrorismo europeo. E allora? Allora, senza tante acrobazie verbali e senza farneticare sulle solite sciocchezze del politicamente corretto, dobbiamo avere l’onestà di ammettere che il mondo islamico ha nel suo bagaglio culturale la natura violenta della sua religione, una natura che lo rende intollerante nei confronti del mondo occidentale, una presunzione di superiorità morale che gli fa disprezzare i costumi di questo mondo. E’ una identità comune a tutto l’Islam senza distinzioni tra moderato e non, di cui sono prova le singolari abitudini invalse in Iran e in Afganistan tradizionalmente fondamentalisti, ma anche in Arabia Saudita e negli Emirati considerati moderati, tutti ugualmente intransigenti, nei confronti delle donne alle quali è negata la stessa dignità dell’uomo, nei confronti della libera circolazione delle idee al punto che persino la musica occidentale e le discoteche sono state abolite, nei confronti delle adultere sottoposte alla lapidazione, e con una coinvolgimento nella carneficina in corso di quelli di loro che finanziano l’Isis. Questa identità i giovani mussulmani delle nostre città se la portano appresso anche se sono diventati cittadini europei già da diverse generazioni e, ispirati da essa, detestano la terra che li ha accolti ma che non hanno mai accettato come la loro patria. Ci considerano cattivi in quanto europei, per l’identità di valori che rappresentiamo, e in quanto tali meritevoli della guerra che ci portano, e parliamo di guerra a ragion veduta perché, al di là delle connotazioni ideologiche e religiose dell’Isis, ci troviamo a dovere fare i conti con una vera e propria guerra con tutti gli interessi concreti tipici di un conflitto tra potenze. E’però una guerra asimmetrica che noi ci rifiutiamo di mettere a fuoco nella sua vera natura e combattere con efficacia, avvitandoci nelle nostre contraddizioni. Mentiamo su ciò che effettivamente sentiamo, censuriamo le nostre emozioni e le nostre parole e scadiamo in un buonismo mieloso. Siamo assediati da esternazioni demenziali che puzzano di falsità lontano un miglio come: “Non vi farò il dono di odiarvi”, “Non cederemo alla stessa ignoranza che vi ha reso ciò che siete”, “Non rinunceremo alle nostre abitudini” etc., mentre invece viviamo nel terrore, rischiamo di rinunciare alle nostre abitudini e sentiamo di detestare con tutte le nostre forze chi attenta alla nostra civiltà, alla cultura e ai diritti che ci siamo conquistati dai greci in poi. L’ostilità che sentiamo non deve farci vergognare di noi perché essa è uno strumento di difesa, perché è naturale detestare chi ci vuole ridurre in schiavitù, obbedendo al nostro spirito di sopravvivenza. Non è il caso di lasciarsi coinvolgere in una guerra santa tra opposte confessioni, ma è il caso di combattere senza falsi buonismi la crociata in difesa della nostra fede laica, della legge degli uomini contro la legge di un Dio frutto della follia. E allora, non rinunciamo alle nostre abitudini, continuiamo a vivere come sappiamo, raschiamo dal fondo della nostra paura il coraggio necessario ad affrontare una guerra di frontiera e, per carità, non porgiamo l’altra guancia, ma soprattutto evitiamo di ingannare noi stessi.  

sabato 21 novembre 2015

“Panorama d’Italia”


Ho assistito alla lectio magistralis tenuta da Vittorio Sgarbi al Teatro Politeama nell’ambito dell’iniziativa “Panorama d’Italia”, promossa dal settimanale diretto da Giorgio Mulé. L’atmosfera creata dall’estroso professore è stata, manco a dirlo, la solita atmosfera frizzante e l’arte è sembrata assumere connotazioni che non siamo soliti pensare. Si aveva la sensazione di scoprire un mondo nuovo e che questo mondo fosse naturale e accessibile, che vivere d’arte fosse ovvio come bere un bicchier d’acqua. Il parterre oltretutto favoriva questa sensazione. La cornice si fregiava di nomi che nel panorama culturale e giornalistico italiano hanno detto la loro, niente di eccezionale, beninteso, ma quel tanto che con la sua normalità incoraggia le ambizioni dei comuni mortali e gli fa dire che anche loro ce la possono fare, che anche per loro è facile , se solo lo vogliono. Quei personaggi erano lì, a portata di mano, mescolati alla gente comune senza le barriere che solitamente rendono impervio il rapporto con un mondo che appare lontano, con loro potevi parlare liberamente, esprimere i tuoi pensieri, condividere i tuoi sogni di gloria, assaporare l’ottimismo che quella normalità  trasmetteva. Ne avvicinai uno e gli confidai la mia ansia di visibilità, il mio desiderio di far sapere al mondo che un autore che viene dalle retrovie dell’esistenza sta concependo la sua creatura e vuole offrirle spazio, lamentai la frustrazione dei peones della cultura  che tentano l’assalto al fortino delle occasioni mancate, gli sussurrai la mia richiesta d’aiuto. Mi guardò come non mi vedesse, sorrise di un sorriso amaro, il volto segnato dal disincanto di chi conosce il mondo e non si fa illusioni, mi raccontò dello sforzo immane nel tenere a bada l’assedio dei cinquanta libri sfornati ogni giorno da narratori della domenica tra cui magari si annida quello giusto e dei sensi di colpa per non avere il tempo di leggerli tutti e mancare l’occasione della scoperta che ti fa battere il cuore, mi mise in guardia contro il rischio di far scorrere la vita  sui binari di consuetudini fruste in cui non c’è più spazio per l’emozione e  mi esortò a continuare a scrivere se scrivere era quello che mi faceva sentire appagato, scrivere per me più che per gli altri e scoprire nuove sensazioni. Mi diede appuntamento al giorno dopo per parlare del mio romanzo. Non so se lo incontrerò, forse, chissà, domani il nostro eroe sarà altrove a distribuire speranza ad altri romanzieri in cerca di gloria, ma a me è bastato e sono tornato a casa col cuore gonfio di gratitudine e tanta voglia di continuare a mettere su carta quello che sento, di scrivere un post che parla di questa voglia e dedicarlo a lui, al mio disincantato eroe che ha ridato impulso alla mia vena.

martedì 17 novembre 2015

La mattanza di Parigi

Piangiamo la mattanza di Parigi ma piangiamola con la schiena dritta e senza lacrime di circostanza pronte a tramutarsi fra qualche giorno in dichiarazioni di compiacente piaggeria nei confronti dei carnefici. Obama proclama che la Francia vincerà, Renzi che sapremo reagire, affermiamo solennemente di sentirci tutti francesi, ma le belle parole e i proclami non ci assolvono se prima piangiamo i morti di Charlie Hebdo e poi diciamo che se la sono voluta e in America alcuni intellettuali protestano per l’assegnazione di un premio alla testata con la motivazione che essa ha offeso la sensibilità dei mussulmani, se il regista Van Gogh è boicottato nei festival internazionali e alcuni musei si rifiutano di esporre innocenti immagini del Profeta, se escludiamo dalla visita artistica di una scolaresca il Cristo di Chagall, se l’intellighenzia europea e mondiale scende in campo firmando appelli contro la libertà di satira nei confronti di un certo islamismo intollerante e becero, se mostriamo una miserabile sudditanza da McEwan magistralmente definita “tribalismo intellettuale soffocante”, se rinneghiamo la nostra cultura. E’ nell’ottica di questa sudditanza la tendenza a rimuovere le responsabilità dell’islamismo tacciando di islamofobia chi osa affermare il contrario e a mettere i puntini sulle i di una distinzione tra Islam fanatico e moderato. E’ una distinzione sacrosanta ma che non può ignorare la matrice identitaria ideale e religiosa che accomuna i due schieramenti. In questo Islam che ha dimenticato il suo antico splendore, non soffia il vento dei lumi e anche in quello moderato le donne sono tenute in condizione di inferiorità, i gay sono impiccati e le adultere lapidate, le confessioni religiose diverse da quella islamica sono perseguitate, la cultura è bandita. E’ in nome di questi sani principi che l’Isis conduce la sua lotta contro gli “infedeli” senza che i moderati si arrischino a muovere un dito perché non possono rinnegare la matrice comune, ed è ignorando questa realtà che certi intellettuali occidentali in malafede confezionano autentici falsi d’autore. Detto questo, vediamo di capire quali sono le responsabilità dell’Occidente. All’indomani della strage di Parigi si può dire che il popolo francese è vittima non solo dell’Isis ma anche dei governanti occidentali affetti da una inguaribile inadeguatezza di fronte alle sfide della storia. La pretesa di correggere i mali del mondo e di correre in difesa delle vittime dei soprusi bonificando aree dall’equilibrio delicato con l’eliminazione dei Gheddafi, dei Saddam e degli Assad e non calcolando il prezzo da pagare, è stato un lusso che non ci potevamo permettere alla luce delle conseguenze. Il dilettantismo che ha guidato le scelte di Bush Jr e quelle successive di Obama ha sortito l’effetto di stravolgere quell’ equilibrio che seppur precario e inviso ai più, garantiva almeno un minimo di stabilità. Valeva la pena di sloggiare Geddafi, visti i risultati? Ed era il caso di impelagarsi in quel ginepraio della guerra civile in Siria senza essere sicuri di venirne a capo. Gli USA, in nome dei diritti negati al popolo siriano o forse in nome del petrolio, hanno sostenuto i nemici di Assad concorrendo a destabilizzare il tiranno siriano e a collassare ancora di più la Siria, hanno lasciato che la crisi si aggravasse, che entrasse in scena un protagonista come l’Isis, con la conseguenza che i diritti dei siriani continuano ad essere violati come e più di prima e la Siria è diventato un teatro in cui si recitano drammi come l’esodo di un popolo, la distruzione di siti archeologici patrimoni dell’umanità, la guerra di tutti contro tutti, la conquista di una vasta area dove l’Isis ha potuto istallarsi in forma di Stato diventando in maniera ancora più visibile punto di riferimento del terrorismo e base per l’intensificazione dei suoi attacchi all’Occidente, l’incarognimento di una guerra nella quale i giusti non hanno patria e gli aerei dei buoni bombardano alla cieca facendo vittime innocenti. L’elenco delle disfatte di Obama e delle conseguenze che derivano a tutti noi, dalla dissoluzione della Libia al disfacimento del medio oriente, alla crisi ucraina dove il nostro si è andato a cacciare sfidando l’orso russo con una politica aggressiva che ha svegliato la sua sindrome d’accerchiamento e gli ha offerto l’alibi, che, sia chiaro, non lo assolve, per annettersi la Crimea, ci dice in che mani siamo e come dobbiamo temere il peggio. In un mondo diviso a metà in cui si confrontano due civiltà una delle quali è minacciata da una crisi d’identità vicina alla follia, Putin non va respinto ma recuperato alla causa della civiltà occidentale, perché, pur essendo vero che tutto ci separa da lui, è pure vero che ci accomuna la lotta all’identico nemico. Parigi, città che amiamo, vive una tragedia immane, vittima di una strategia che non c’è e orfana dell’Europa, la bella addormentata che sonnecchia sfogliando la margherita e interrogandosi su che cosa farà da grande. Il peggiore torto che rischiamo di farle, è dimenticare.

venerdì 13 novembre 2015

Fera ridens

Si dice di me che sono un mafioso e lo si dice a buon diritto perché ho subito una condanna definitiva per mafia che non condivido ma che ho accettato saldando il mio conto con lo Stato. Questa considerazione ovvia può suscitare reazioni infastidite, qualcuno potrebbe chiedersi: ma insomma dove vuole andare a parare questo tizio con la solfa della sua vicenda giudiziaria, pretende forse dalla società un’assoluzione che non ha avuto dal giudice, vuole convincerci che è una persona per bene, o non è piuttosto affetto da manie di protagonismo? Nulla di tutto questo, ve lo assicuro, anzi non desidero altro che dimenticare e far dimenticare una vicenda che mi ha fatto soffrire. Purtroppo altri non dimenticano e con un accanimento inspiegabile si ostinano a ripescare e sbattermi in faccia una sentenza emessa nel 2014 in relazione ad accuse contestatemi nel 1998. Non ho altre pendenze con la giustizia, non c’è altro che mi sia stato contestato dopo la mia condanna, è stato riconosciuto persino da un magistrato che non sono un elemento ( proprio così, elemento ) socialmente pericoloso, sono un uomo finalmente libero ( non del tutto in verità visto che non posso uscire dai confini dello Stato ) ma sembra che la mia riconquistata libertà impensierisca qualcuno. Questo qualcuno strilla stupito che io circoli indisturbato per le contrade palermitane, mi assale rinfacciandomi la mia mafiosità, ringhia pretendendo di conoscere da me cosa pensi della mafia e delle sue attività illecite, aspettandosi probabilmente che io prenda posizione a favore del traffico di droga e delle attività estorsive in virtù della mia connotazione mafiosa, e se oso deluderlo dissociandomi dalla mafia, insorge indignato rinfacciandomi la faccia tosta con cui nego l’evidenza: sono mafioso e debbo dichiararmi tale con annessi e connessi. Mi domando cosa può volere da me questa iena traboccante di cattiveria gratuita, cosa mi vuole far pagare. Forse non sopporta l’idea che esisto e resisto sulle barricate di una lotta impari contro coloro che ritengono di poter fare impunemente strame della mia vita, di poterla violare facendo irruzioni di stampo mafioso persino nei momenti più belli di essa o mi riservano una indifferenza omertosa che uccide, come fanno i tanti giornalisti che hanno sguazzato per anni nelle mie vicende giudiziarie e ora ignorano una stagione diversa della mia esistenza disertando all’unanimità, tranne un paio di eccezioni, la presentazione del mio romanzo e non avvertendo l’imperativo professionale di offrire al lettore una doverosa informazione sul nuovo corso del “mafioso” Mandalà? Forse non tollera che io scriva, e mi dicono che lo faccia anche bene, rivelando allo stupito gregge abbeveratosi per anni alla fontana delle verità omologate, un’altra verità sul bieco “mafioso”, che non sospettava? Forse lo disturba l’impertinenza di una penna fuori dal coro che dipinge nuovi scenari e denuncia i piani di chi su questi scenari frusti e abusati ha costruito carriere altrimenti impensabili e si sente scippato del giocattolo? O forse, molto più cinicamente, ripescare e rilanciare la figura di un noto “mafioso” in disarmo serve a promuovere ambizioni a buon mercato? Tanto, si sa, con la carne dei mafiosi si può tranquillamente banchettare. Qualcuno dei miei estimatori ha scritto che debbo essere rinchiuso in un gulag e che mi si deve impedire di pensare e scrivere. Niente di nuovo come si vede. Se parliamo di macelleria, l’attrazione è fatale e il boato sale alle stelle, se parliamo di riscatto, un silenzio assordante cala sulla scena e la delusione prende l’animo dei malmostosi prevaricatori della vita altrui. E’ mafia questa? Lo è, ve lo garantisce uno che, a detta di una sentenza definitiva, di mafia si intende.

martedì 10 novembre 2015

Iena ridens

Le iene a caccia di cadaveri hanno creduto di individuare nel sottoscritto la carcassa da addentare. Al signor Golia evidentemente non basta il fatto che io abbia concluso la mia vicenda giudiziaria pagando a torto un conto che a mio giudizio non mi spettava, che abbia dichiarato a chiare lettere proprio a lui che condivido la decisione degli imprenditori di Bagheria di denunciare gli estorsori, tutto ciò non basta, egli ha le sue certezze e non sopporta l’idea che io sia un uomo libero. Se ne rammarica al punto da lanciare l’allarme su come è rischioso che io me ne vada in giro indisturbato con grave pericolo per la collettività. Dipendesse da lui, butterebbe la chiave. Egli è piombato nella libreria Macaione dove si stava celebrando la presentazione del mio romanzo “La vita di un uomo”, insalutato ospite, incurante del benché minimo riguardo nei confronti dei padroni di casa che ha bellamente ignorato e, invece di essere incuriosito dalla singolarità di un condannato per mafia che scrive un libro e di fornire al lettore la chiave di lettura di una simile conversione, invece di rendere omaggio ad un evento che fino al momento della sua incursione aveva odorato di pulito, invece di avere rispetto per il luogo e per un uomo che considera mafioso senza se e senza ma, ma al quale avrebbe dovuto concedere il beneficio del dubbio andando a verificare un percorso letterario che narra una storia diversa dall’abusata e scontata verità giudiziaria, da iena ghignante ha sentito solo l’odore del sangue e mi ha “mascariato” accostandomi a personaggi che con me non hanno niente da spartire, le cui vicende non si sono mai intrecciate con le mie e coinvolgendomi in un servizio su un disgustoso episodio estorsivo con cui non ho nessun legame. Dove è il nesso e quale è lo scopo di tanta cattiveria? Che è avvenuto di nuovo perché sul malinconico reduce di una vicenda giudiziaria risalente al 1998 e conclusasi da tempo, ormai dedito solo a vivere il crepuscolo della propria vita coltivando l’innocuo hobby della scrittura, si abbattesse la tegola di un servizio televisivo così severo? Ai signori delle Iene risulta forse qualche nuovo motivo che non conosco e che rende la mia persona nuovamente attuale al punto da giustificare tanto interesse? Perché il signor Golia è entrato a gamba tesa e in maniera palesemente gratuita nella mia vita attribuendomi una pericolosità che lo stesso magistrato di sorveglianza ha negato in una recente sentenza che mi ha assolto dalle misure di vigilanza? Forse gli riesce intollerabile l’idea che un condannato per mafia osi pensare ed esprimere ciò che pensa in un romanzo che ha visto la luce proprio in questi giorni e che offre uno spaccato ben diverso rispetto al personaggio pensato dall’immaginario collettivo? Certo c’è una singolare coincidenza. Se avesse un minimo di onestà il signor Golia dovrebbe fare pubblica ammenda, frequentare un corso accelerato di buon giornalismo ed evitare di andare in giro a sporcare esistenze e reputazioni che stanno tentando faticosamente di riaffacciarsi alla vita.

domenica 8 novembre 2015

La presentazione del mio romanzo

Venerdì 6 novembre presso la libreria Macaione-Spazio Cultura si è svolta la presentazione del mio romanzo “La vita di un uomo”. Si è sempre in imbarazzo quando si deve giudicare qualcosa che ti riguarda ma il giudizio non teme imbarazzo quando, come in questo caso, l’evento è riuscito a mantenere un profilo sobrio e ha saputo creare atmosfere magiche. Il dibattito ha disinnescato il rischio di scadere nella narrazione del solito ciarpame sulle vicende giudiziarie dell’autore e si è librato su per i sentieri dell’arte colorando l’evento con pennellate che si sforzavano di cogliere il valore dell’opera. Dopo anni in cui sono stato asfissiato dai miasmi di una storia infame che mi ha relegato nel recinto dei reietti, ho respirato boccate d’aria pulita e mi sono sentito libero in un contesto in cui non si era costretti a recitare le verità omologate delle invelenite tricoteuses assise ai piedi delle disavventure altrui ma si doveva dibattere sulla capacità di una fatica letteraria di descrivere sentimenti ed emozioni e catturare l’interesse del lettore. Il parterre di uomini liberi da pregiudizi che mostravano di interessarsi solo all’opera e non mi guardavano con sospetto, è stato il risarcimento più grande e mi ha fatto sentire finalmente riscattato. Purtroppo l’incursione delle Iene ha provato a rovinare la festa senza riuscirci, naufragando nella pattumiera di uno pseudo giornalismo d’assalto che tenta di sporcare la verità.

domenica 18 ottobre 2015

Francesco

In una recente trasmissione televisiva è stata proposta una lettura delle doti che accomunano Giovanni XXIII e Papa Francesco. In particolare è stata messa in evidenza la capacità che aveva Papa Roncalli e di cui anche Francesco è dotato, di catturare il consenso dei fedeli con un carisma che attrae irresistibilmente. Di Giovanni XXIII è stato ricordato il famoso discorso con cui egli invitava i fedeli a portare una carezza ai bambini e dire loro che era la carezza del Papa e, tornando a casa, confortare i propri cari rassicurandoli che il Papa era con loro “specialmente nel momento della tristezza e dell’amarezza”. Mi è venuto in mente un altro saluto portato dal Papa buono ai carcerati quando, in visita a Regina Coeli il 28 dicembre 1958 , ha detto loro: “i miei occhi sono nei vostri occhi e il mio cuore è nei vostri cuori”. Quel Papa aveva un che di mistico che lo faceva apparire quale autentico erede di Cristo, un pastore che amava i suoi figli di quell’ amore che coinvolge ogni battito delle ciglia e del cuore, ogni momento della vita di ciascun uomo, uno ad uno, in ogni angolo sperduto della terra. Si può dire lo stesso di Papa Francesco? Egli sembra concepire il suo ministero all’insegna del risentimento anziché dell’amore, probabilmente perché ha convissuto con un contesto di ingiustizie sociali e di povertà materiale che lo ha indurito. Si ha come l’impressione che egli voglia far pagare il conto delle sofferenze di cui è stato testimone e affrontare i mali del mondo non con la misericordia che perdona ma con l’intransigenza che punisce senza remissione, quasi che il suo animo, intriso di pessimismo, non riesca a concepire la redenzione dell’uomo e lo porti a privilegiare altri obiettivi da salvare, come affiora nella sua ultima enciclica “Laudato si” dedicata all’ambiente. Secondo quanto teme Ettore Gotti Tedeschi, c’è il rischio che la Chiesa si lasci coinvolgere in una visione gnostica che sostituisce la fede nell’uomo con la fede nella natura ed elegge l’ambientalismo a religione universale. E’ una visione parente stretta della cosiddetta teologia naturale che si collega al concetto stoico di un universo armonioso, giusto e ordinato, “legge cosmica che governa il mondo e anche la nostra mente” (Mancuso), secondo cui gli esseri umani sono creati dalla natura-physis la quale contiene in sé il suo fine, la sua etica che rimanda all’ordine naturale senza bisogno di un intervento soprannaturale. E’ questo che vuole Francesco?  Di lui si può dire che le sue crociate rispondano allo spirito evangelico e che i suoi occhi e il suo cuore sono negli occhi e nel cuore degli uomini? O non si deve piuttosto temere che le sue scelte di campo risentano di uno scetticismo intransigente che rinuncia  a ricreare l’uomo ed anzi lo esclude dal progetto salvifico come ha fatto con i mafiosi? Non mi unisco a quanti sostengono che il Papa promuove se stesso piuttosto che Dio ma ammetto di essere confuso.