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mercoledì 25 marzo 2015

Il caso Lupi


Di caso in caso si snoda il rosario di una particolarità tutta italiana, la corruzione. L’ultimo caso ha portato agli arresti di Incalza e Perotti e ha coinvolto il ministro Lupi costringendolo alle dimissioni, anche se, da ciò che risulta dalle intercettazioni, non pare che egli si sia macchiato di alcunché di penalmente illecito. Dunque Lupi non ha commesso nessun reato, e tuttavia si è dovuto dimettere. Come mai? A parte la bulimia del razziatore Renzi che non si è lasciato sfuggire l’occasione, Lupi se l’è cercata. Dalle intercettazioni infatti, pur non risultando niente di illecito a suo carico, emerge un quadro imbarazzante che relega un ministro della Repubblica al ruolo di comparsa. Viene fuori che il ministro nutriva una sorta di subalternità nei confronti di Incalza al punto da belare straparlando di crisi di governo in difesa del suo burocrate e tollerare che quest’ultimo, secondo quanto sostenuto dagli inquirenti, pilotasse in tutta tranquillità la maggior parte delle gare d’appalto delle Grandi opere imponendo alle aziende una maggiorazione dei costi e la direzioni dei lavori per milioni di euro a favore di Perotti. Al di là di quello che sostengono gli inquirenti, è un fatto che l’elenco delle direzioni dei lavori affidati a Perotti è infinito, manco fosse egli l’unico con i requisiti giusti in circolazione, e avrebbe dovuto insospettire. E invece, non solo il ministro non si è fatto sfiorare da alcun dubbio e non ha stroncato l’andazzo, o almeno assunto un atteggiamento di maggiore cautela nei rapporti con i due, ma addirittura, quando ha avuto bisogno di trovare un lavoro al figlio, si è rivolto al superburocrate per risolvere il problema. Vengono in mente i tanti figli di madre con lo stesso problema del giovane Lupi che, non avendo un Incalza tra i santi in paradiso, sono costretti a rivolgersi all’ufficio di collocamento con i risultati che possiamo immaginare. Ercolino campeggia come il vero dominus del dicastero al quale bisognava rivolgersi per la soluzione dei problemi di qualsiasi natura, fossero essi personali o attinenti l’ufficio. Tutto passa attraverso di lui, e dall’inchiesta si è visto quale ben di Dio, senza che ci sia un’assunzione di responsabilità da parte del ministro il quale appare incapace di tenere sotto controllo quello che accade attorno a lui. E quando Perotti muove le sue pedine per trovare una sistemazione al figlio del ministro, questi non si fa scrupolo di accettare che ciò avvenga, contraendo un debito con un uomo col quale avrebbe dovuto evitare persino la confidenza di un caffè. Sicuramente non ha saldato il debito concedendo qualcosa in cambio (a questo provvedeva Incalza), indubbiamente il rapporto d’amicizia tra il ministro e l’imprenditore risale a tempi non sospetti ma non c’è dubbio neanche che il rapporto avrebbe dovuto essere confinato entro paletti ben precisi nel momento in cui poteva prestarsi a sospetti. Non è emerso nulla di illecito a carico di Lupi ma appare a tutti chiara l’inopportunità di attivare Incalza e Perotti per un interesse personale, così come appare chiara la circostanza che i nostri personaggi si muovevano nell’ambito di una cerchia di privilegiati dove è consentito quello che non è consentito ai comuni mortali, senza che la politica sappia vigilare. O complici o inetti, i nostri politici non conoscono vie di mezzo, e sembrano non rendersi conto che l’inettitudine, pur non essendo reato, è ugualmente colpevole, perché, come testimonia la vicenda di cui ci occupiamo, l’inadeguatezza di un ministro nuoce al Paese tanto quanto un reato. Detto questo però, rimane il problema annoso di come Lupi sia finito nel tritacarne. Tutto nasce dal fatto che, come denuncia Il Foglio, le inchieste vengono portate avanti senza guardare tanto per il sottile, inzeppate di intercettazioni che non dovrebbero arrivare al pubblico, che invece vengono fatte filtrare ad arte e usate per descrivere il contesto, un eufemismo che serve a “sputtanare gli estranei alle indagini senza pagare pegno”. Il già ministro Lupi è stato così consegnato al tribunale del popolo che lo ha condannato e messo fuori gioco nonostante per i magistrati sia innocente. Tanto per cambiare i magistrati continuano, pur non usando le manette, a trovare il modo di tagliare le teste dei politici, con buona pace dei proclami di Renzi sulla ritrovata dignità e autonomia della politica. Alla mercé dei grand commis e dei magistrati d’assalto, gli uomini che dovrebbero rappresentare l’ interesse generale, rappresentano la loro inconsistenza.

sabato 14 marzo 2015

La sentenza Berlusconi




La sentenza di assoluzione emessa a favore di Berlusconi dalla Cassazione, ha rimarcato un principio sul quale vale la pena riflettere. Le piccanti notizie emerse sulle abitudini pecorecce di Berlusconi non hanno condizionato la sentenza dei giudici della Suprema Corte i quali si sono limitati ad esercitare la loro funzione senza indulgere a tentazioni moraleggianti, hanno verificato se nelle condotte di Berlusconi si ravvisassero illeciti passibili di condanna penale e, non trovandoli, hanno confermato la sentenza di assoluzione della Corte d’appello, bocciando il tentativo dell’accusa di confondere peccato e reato. Sul piano penale, se non c’è reato non può esserci condanna, con buona pace dei pruriti moralistici delle solite beghine. Certo sconcerta il fatto che un uomo politico del calibro di Berlusconi si dedichi in maniera così smaccata a certe licenze, ma questo riguarda il senso etico ed estetico dell’uomo e la sua incapacità di valutare che cosa è opportuno per un personaggio che ha alte responsabilità nei confronti della Nazione. E riguarda l’elettore quando dovrà fare le sue scelte, non certo il giudice. Bene ha fatto dunque l’avvocato Coppi a citare i processi ai boss di Cosa nostra affermando: “Qui si pretende  di condannare un potente non perché ha abusato dei propri poteri ma solo perché è un potente, così come si puniscono i mafiosi non per quello che hanno fatto ma solo perché appartengono alla mafia”. Ha centrato il punto ma ha anche tradito una sua riserva mentale, perché è chiaro ciò che Coppi  intendeva sottintendere:  essere potenti non è reato mentre lo è essere mafiosi.
Non è comodo prendere le parti dei mafiosi, nel mio caso poi è sospetto visto che io sono istituzionalmente un mafioso, ma correttezza vuole che venga fatta chiarezza su una materia che induce ad un pressappochismo con cui si fa strame del diritto. Si è discusso tanto sulla singolarità di un reato, il 416 bis, che fa riferimento alla cultura criminale piuttosto che al fatto delittuoso che ne può derivare, concreto, circostanziato e provato. Se passa il principio che far parte di Cosa nostra è un reato che va punito in sé, pur in assenza di una attivazione della teorica capacità criminale, se, per dirla con Aristotele, si mischia potenza e atto, io, giusto per fare un esempio, essendo stato condannato per mafia e di conseguenza essendo ritenuto affiliato a Cosa nostra, in virtù del mio status dovrei morire in carcere. Siamo come si vede alla solita confusione tra peccato e reato. Indubbiamente non si possono non condannare, dal punto di vista etico e culturale, atteggiamenti che si ispirano a valori negativi, ma non si possono neanche perseguire e condannare penalmente condotte che non hanno fatto in tempo a tradursi in fatti delittuosi. E ciò vale non soltanto per i potenti ma anche per i mafiosi.

venerdì 6 marzo 2015

Il caso Helg


Il caso Helg ha rivelato la vera faccia di una certa antimafia spudorata che ha raccolto il testimone della mafia di un tempo collusa con la politica e in affari con le istituzioni. Quando la mafia stragista decise di fare la guerra allo Stato in nome di una dissennata presunzione di invincibilità, consegnò ai sepolcri imbiancati una formidabile bandiera dietro cui costruire una comoda rendita di posizione. Una antimafia di facciata cominciò a trafficare disinvoltamente alle spalle delle istituzioni e a realizzare, con l’alibi del suo impegno civile, il proprio interesse. Helg è il frutto di una allegra corsa alla verginità sulla quale non si è vigilato come si dovrebbe, e fa una certa impressione vederne le immagini mentre proclama il suo impegno antimafia seduto a fianco di Grasso, all’epoca Procuratore Nazionale Antimafia. Eppure proprio il paradosso Helg, commerciante fallito a capo della Confcommercio e della Camera di Commercio, avrebbe dovuto mettere in guardia.
Il caso Helg è il più eclatante ma a chi ha un minimo di onestà intellettuale non dovrebbe sfuggire il fatto che la bandiera della lotta alla mafia sia una specie di candeggina che monda ogni peccato, una sorta di foglia di fico dietro cui tutto è consentito in una gara a chi sfida di più il buon senso e il buon gusto, legittima l’impunità, viola i diritti fondamentali dell’individuo.
Qualcuno mi spieghi perché la politica siciliana può lasciare morire, senza pagare pegno, un neonato respinto da tutte le strutture ospedaliere, e se è tollerabile che questa impunità possa passare al riparo della bandiera dell’antimafia. E mi spieghi anche come mai floride aziende confiscate alla mafia, fatte poche eccezioni, sono affidate all’allegra gestione di personaggi che le mandano in malora e con esse sperperano l’indotto sociale che ne deriva senza dover rendere conto del loro operato, protetti come sono dalle insegne antimafia. Come si giustificano carriere altrimenti impensabili fatte sulla pelle dei martiri, da  improbabili censori i quali, brandendo la bandiera del loro immacolato impegno antimafia, si coprono di facile gloria combattendo comode crociate contro la solita, vecchia, redditizia mafia, e non puntano invece il dito per tempo contro gli Helg e profittatori vari asserragliati nel fortilizio dell’antimafia, contro imprenditori falliti che utilizzano la loro vicenda di vittime della mafia facendone uno strumento per risollevare le loro sorti imprenditoriali. Proteggerli si, ma perché finanziare la rinascita economica delle loro aziende compromesse dalla loro incapacità con l’aiuto dello Stato, facendo torto ad altri imprenditori che vengono così discriminati, senza che nessuno osi protestare? Perché nessuno ha il coraggio di intestarsi la battaglia contro quel mostro giuridico che è il regime del 41 bis? Forse perché difendendo il diritto, bisogna difendere i mafiosi e questo è intollerabile? Non sa tutto questo di retorica farisaica a buon mercato con cui si costruiscono lucrose verginità  e si distrae l’attenzione da altre realtà scomode che è conveniente tenere nascoste?
La mafia dell’antimafia è tra noi e fra le sue pieghe si annidano tanti altri Helg.